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L’apertura alla semiotica della cultura

1.3 Questioni metodologiche

1.3.2 L’apertura alla semiotica della cultura

Le argomentazioni fin qui sviluppate ci conducono in maniera abbastanza agevole verso l’adozione di uno sguardo che, all’approccio storiografico, unisca quello semiotico culturale. Molti degli aspetti e degli obiettivi illustrati in precedenza – dall’attenzione ai testi come luogo di manifestazione (e di esternalizzazione) di un pensiero sulla danza all’attenzione per le reti di relazioni che legano testo e contesto, passando per l’interesse verso le logiche culturali sottese ai fenomeni indagati – risultano perfettamente in linea con il punto di vista culturale così come viene significativamente illustrato nelle parole della semiotica Anna Maria Lorusso:

Il modo in cui vorremmo intendere questa locuzione («semiotica della cultura») è un modo debole, esclusivamente prospettico, che aspira a definirsi non per una specificità di oggetto (come se la cultura fosse l’oggetto di quel particolare ramo della semiotica che è la semiotica della cultura) ma per una specificità di pertinenza: considerare culturalmente il senso […] Non crediamo, infatti, che la cultura sia qualcosa che abbia una natura in qualche modo sostanziale, che sia l’insieme di alcuni saperi (usi, tradizioni, lingua, memoria) o che abbia dei tratti definitori; crediamo semmai che sia più simile a un effetto di senso, a una risultante che appare a seguito di una serie di operazioni di osservazione o a un’ipotesi regolativa che ci è utile per parlare di noi, attribuirci delle identità, spiegarci il mondo.60

In modo innegabilmente esaustivo e pregevolmente sintetico le considerazioni testé riportate sembrano inquadrare, superandoli, tutti i suggerimenti di metodo che abbiamo fornito sino a questo punto, a partire dalla fondamentale indicazione (che non avevamo ancora affrontato direttamente) circa il carattere prospettico dell’approccio semiotico-culturale e, parimenti, di quello di chi scrive.

Pur correndo forse il rischio di ripeterci, sottolineiamo ancora una volta come sia l’oggetto della nostra ricerca sia la metodologia che stiamo ora illustrando rappresentino il prodotto di

un certo tipo di sguardo che è, anche, lo sguardo della semiotica della cultura e che,

soprattutto, ci consente letteralmente di costruire l’oggetto (oltre che l’ambito) della nostra indagine.

Non si tratta dunque di condurre uno studio di semiotica della cultura che, seppure mediante tutte le possibili ibridazioni con l’approccio storiografico, si interessi alle relazioni fra danza e stampa nell’Italia fascista ma, al contrario, si tratta di rendere visibili tali relazioni

60

attraverso un punto di vista che, intrecciando storia e semiotica, si tramuti in una luce

capace di rendere visibili gli oggetti nel momento stesso in cui si posa su di essi.

Questa modalità di avvicinarsi allo studio degli oggetti culturali e, di conseguenza, alle fonti che ne permettono l’individuazione e l’indagine, colloca i testi al centro di quella rete di relazioni che si è già richiamata e che torna con chiarezza anche nelle parole di Lorusso:

[I testi, n.d.A.] parlano della cultura di cui sono parte, ne sono intrisi, la manifestano. Indipendentemente da quel che dichiarano, sottendono una visione del mondo che non è materia di discussione, che è ciò che si dà per scontato, l’insieme delle assunzioni che costituiscono il senso comune su cui ogni argomentazione successiva si staglia.61

Simili posizioni lasciano emergere la convinzione che i testi, persino attraverso i silenzi, le zone d’ombra, gli aspetti solo di rado affrontati, conservino comunque al loro interno le tracce della cultura in cui sono inseriti e di cui sono al contempo prodotto e organo attivo. Alla base, evidentemente, c’è il principio che i testi possiedano una sorta di inestirpabile valore probante che spetta allo studioso interrogare attraverso l’individuazione degli opportuni strumenti analitici, il tutto senza dimenticare la centralità del legame testo- contesto, il quale, peraltro, si rivela fondamentale anche nel pensiero del vero e proprio padre della semiotica della cultura, Jurij Lotman:

Un testo estrapolato dal contesto si presenta come un oggetto esposto in un museo: è depositario di informazioni costanti. È sempre uguale a se stesso, e non è in grado di generare nuovi flussi di informazione. Il testo nel contesto è un meccanismo in funzione, che ricrea continuamente se stesso cambiando fisionomia e che genera nuove informazioni.62

Ora, prese esplicitamente in carico alcune delle implicazioni connesse al punto di vista semiotico-culturale, vediamo di tornare su quei fattori di problematicità che, come si diceva, connotano le nostre fonti (difficoltà nel riconoscere alla danza lo statuto di arte; evasività nell’individuare i caratteri distintivi di una possibile danza d’arte; impossibilità diffusa di parlare del corpo), il tutto con l’intento di ripensare simili elementi e di capire che tipo di informazioni sia comunque possibile trarre da essi.

Per ora ci occuperemo soprattutto di uno di questi aspetti problematici, vale a dire quello connesso alla difficoltà di parlare del corpo che danza, dacché le questioni che ruotano

61 Ivi, p. 68. 62

attorno a esso ricoprono forse un ruolo propedeutico rispetto agli sviluppi di questa trattazione.

Abbiamo dunque visto come molti dei testi giornalistici oggetto del nostro studio contengano dei discorsi sulla danza tendenzialmente afasici, connotati cioè dalla loro quasi paradossale incapacità di dire il corpo danzante.

Eppure, è proprio dall’assenza del corpo che vale la pena di ripartire. Rovesciando la prospettiva, infatti, si potrebbe pensare ad essa non tanto in termini di assenza di presenza ma, piuttosto, di marcatura di un’assenza.

Per comprendere meglio cosa intendiamo con queste espressioni è opportuno, sempre rimanendo in ambito semiotico, rifarsi alle parole di Claudio Paolucci che, nell’introdurre la sua brillante teoria dell’enunciazione, si serve di una bizzarra storiella:

Una ragazza e un ragazzo si incontrano in una discoteca, in un pub o in un qualsiasi altro luogo, parlano un po’, condividendo qualcosa delle loro vite: quando è il momento di andarsene, il ragazzo, interessato alla ragazza, le chiede il numero di telefono. La ragazza, forse non così interessata, glielo dà comunque, forse per gentilezza, forse per incertezza. L’indomani il ragazzo le manda un sms […] La ragazza, semplicemente non risponde. Attraverso il suo non fare assolutamente nulla, lei marca il suo rifiuto, marca il suo no.63

Senza per ora entrare nel merito dei discorsi relativi all’enunciazione, ci pare qui evidente come l’atto stesso di non dire indichi non solo, come nell’esempio appena riportato, la volontà di sottolineare un no, ma manifesti anche, per converso, il malcelato e del tutto ideologico intento di passare sotto silenzio alcuni aspetti che programmaticamente non si intende far esistere all’interno del proprio discorso.

Vista in questi termini l’assenza del corpo che danza diventa talmente vistosa da non poter non risultare sospetta, o quantomeno parlante, agli occhi dello studioso.

In altri termini, cosa rimane inespresso nei testi di cui ci occupiamo e, contestualmente, quali sono le ragioni alla base della scelta di quegli scarni – ma forse per questo ancora più preziosi – riferimenti al corpo che danza?

Per rispondere a questo interrogativo conviene forse avvicinarsi nuovamente al pensiero di Jurij Lotman, chiamando innanzitutto in causa il concetto di autodescrizione.

Scrive Lotman:

[…] in una determinata tappa del suo sviluppo arriva, per la cultura, il momento dell’autocoscienza: essa si crea il proprio modello, che ne definisce la fisionomia, artificialmente schematizzata, innalzata al livello di unità strutturale. Sovrapposta alla realtà di questa o quella cultura, tale fisionomia esercita su di essa una potente azione ordinatrice organizzandone integralmente la costruzione, portandovi armonia ed eliminando contraddizioni64.

Prima o poi, afferma qui Lotman, ogni cultura giunge a elaborare un insieme di testi (verbali, visivi, cinematografici, ecc…) attraverso i quali tenta di tratteggiare una sorta di autoritratto in cui, ovviamente, alcuni aspetti saranno scelti, curati e messi in luce a discapito di altri.

Il risultato complessivo, dunque, è una descrizione tendente alla coerenza, attraversata, cioè, da solide linee di forza che, pur non riuscendo chiaramente a cancellare la presenza di eventuali (e necessarie) contraddizioni, tenderà però a stemperarle.

Come chiaramente sottolinea Anna Maria Lorusso, è proprio l’eterogeneità interna a ogni cultura che origina la necessità di una descrizione coerente:

Ogni cultura, infatti, parla di sé, definisce i suoi testi, li inquadra, dà loro un posto e un ruolo. Le culture […] hanno bisogno – per contenere e tenere sotto controllo la propria eterogeneità interna – di crearsi un’immagine di sé unitaria, un’autodescrizione coerente. Tale bisogno di sintesi unificanti è ancora più urgente perché l’eterogeneità costituisce la legge di esistenza di una cultura da più punti di vista: ogni cultura ha uno sfondo extraculturale su cui si staglia, come tale eterogeneo; ma ogni cultura distingue anche al suo interno sfere particolari organizzate diversamente, eterogenee, isole inserite nella cultura ma dotate di un’organizzazione altra, aventi come fine quello di accrescere la varietà strutturale.65

Mediante il ricorso all’autodescrizione, quindi, una cultura non solo riflette su di sé e, ogni volta con modalità differenti, si racconta, ma, in ultima analisi, mira all’elaborazione di un’immagine dotata anche di un forte potere normativo che, in virtù della propria ricercata coerenza, intende influire concretamente sulla sfera dei valori e dei comportamenti sociali. Alla luce di queste rapide considerazioni (e senza entrare per ora nelle questioni relative ai sistemi culturali organizzati diversamente), cerchiamo adesso di tornare al nostro discorso e di chiederci quale sia, nella cultura italiana del ventennio fascista, il ruolo esercitato da quella speciale categoria di testi rappresentata da quotidiani e periodici.

64

Lotman, Jurij – Uspenskij, Boris, Tipologie della cultura, Milano, Bompiani, 1975, p. 65.

Se, come abbiamo detto, una cultura produce testi anche con l’intenzione di descrivere se stessa, in che modo i testi giornalistici contribuiscono a una simile descrizione? E quali sono, in tal senso, le specificità che connotano il periodo fascista?

Ci sembra che, nel periodo oggetto del nostro studio (come sostanzialmente per tutta la prima parte del secolo XX), la stampa, ormai anche risolutamente avviatasi verso una fase di modernizzazione tecnico-editoriale, rappresenti in Italia uno dei principali mezzi di informazione, luogo di costruzione e produzione delle notizie, veicolo di cultura, idee e valori.

A ciò è essenziale aggiungere la centralità della stampa rispetto al processo di mitopoiesi del Regime in tutti i suoi aspetti, tanto che, sostiene Paolo Murialdi

[…] tutti gli strumenti giornalistici – dal quotidiano fascista serio e di tinta ufficiosa a quello d’assalto, dal foglio specializzato a quelli nazionali, regionali e provinciale – devono servire il regime «illustrandone l’opera quotidiana, creando e mantenendo un ambiente di consenso intorno a quest’opera».66

Senza approfondire una questione, quella dei rapporti fra stampa e regime fascista, notoriamente oggetto di un’ampia bibliografia, non si può però non rilevare che, in questa fase storica, la stampa rappresenta uno dei luoghi in cui, diremmo in maniera ufficiale e in larga parte ideologizzata, la cultura italiana, riprendendo Lotman, si rappresenta.

È però fondamentale chiarire fin d’ora che l’ufficialità e la rappresentatività appena citate interessano prevalentemente alcuni settori (come la politica, la cronaca e l’economia) considerati di importanza strategica da parte del Regime, mentre uno spazio di manovra maggiore era riservato ad altri ambiti, come quello relativo alle arti.

A proposito del discorso che, il 10 ottobre 1928, Mussolini rivolge ai direttori dei quotidiani convocati in adunata, Paolo Murialdi scrive:

Mussolini bolla malvezzi e degenerazioni tra i quali spiccano la cronaca nera, la «mancanza di dignità verso gli stranieri» e il«personalismo diffamatorio e cannibalesco nelle polemiche»; e poi afferma che, «tolte le questioni strettamente politiche e quelle che sono fondamentali nella rivoluzione, per tutte le altre questioni la critica può limitatamente esercitarsi”. Tuttavia, di terreni per dibattiti ne restano ben pochi. E difatti i campi indicati

da Mussolini, nei quali la tessera non deve costituire un privilegio, sono quelli dell’arte, della scienza e della filosofia.67

Ne emerge un panorama complesso, in cui, teso fra imposizioni dall’alto, convinzioni profondamente sentite e libertà relative, il discorso giornalistico disegna nel suo complesso un ritratto (o autodescrizione) dell’Italia non facilmente indagabile e (soprattutto per quanto riguarda le arti) solo apparentemente monolitico, il quale, ancora una volta, può forse essere proficuamente attraversato grazie ad alcuni strumenti metodologici di matrice semiotica. Anche in un periodo in cui, come quello fascista, l’elaborazione di discorsi giornalistici è in larga parte dominata da direttive che provengono direttamente dalla volontà del Duce, può comunque essere rintracciata, soprattutto in ambito artistico e culturale, una certa eterogeneità di intenti, contenuti e stili, dacché essa connota in profondità la dinamica sottesa alla produzione di testi giornalistici, intesi sia come singoli articoli che come intere testate dotate di una storia e di una identità precise.

Come vedremo meglio in seguito, ogni quotidiano o periodico ha una propria precisa “voce”, uno stile, un carattere e un lettore tipo di riferimento, ma, per rimanere attorno ai problemi dell’autodescrizione, è bene ricordare che un giornale è prima di tutto un dispositivo che propone una visione selettiva e organizzata dei fatti, in virtù della quale le

cose esistono solo nella misura in cui divengono oggetto di un’elaborazione discorsiva che

conferisce loro una specifica forma.

Certamente non è più un’originale intuizione semiotica dire che le notizie sono innanzitutto delle costruzioni discorsive […] Ciò che i quotidiani (e tutti gli altri media) ci offrono non è uno specchio della realtà, ma piuttosto (se non proprio una costruzione) il frutto di una serie di decisioni di natura semiotica. La realtà, in quanto tale, si presenta come flusso di realtà, di eventi, casi episodi. Si tratta ogni volta di segmentare questo continuum di fatti, selezionare eventi e trasformarli in notizie.68

Ricapitolando, se consideriamo l’autodescrizione come un processo autoriflessivo e normativo complesso che trova nella stampa uno dei possibili luoghi in cui manifestarsi a partire da un processo di selezione-costruzione della notizia, è arrivato il momento di chiederci in che misura e con quali caratteristiche la danza, nei discorsi giornalistici che indaghiamo, si inserisca in un simile processo autodescrittivo.

67

Ibidem.

Si può dire che la danza rappresenti in tal senso un aspetto centrale? Si tratta di un campo di indagine attraversato frequentemente? Quale tipo di valorizzazioni si tende a connettere alla danza? Qual è, in definitiva, il posto della danza rispetto a quella sorta di affresco che, come ogni cultura, la cultura italiana del Ventennio, anche per il tramite della stampa, ha teso a realizzare in parte rispecchiandosi al suo interno?

Dalle argomentazioni sviluppate nei paragrafi precedenti, a partire dal carattere fortemente frammentario dei discorsi in esame fino alle difficoltà connesse al tentativo di dire il corpo danzante, si capirà agevolmente come, nella stampa del ventennio fascista, l’argomento

danza rappresenti un ambito ristretto e marginale, praticato di rado e con non poche

difficoltà.

Sembrerebbe quasi che parlare di corpi che danzano non risulti funzionale rispetto all’edificazione di quell’immagine culturale totalizzante e tendente alla coerenza che caratterizzerebbe le cosiddette autodescrizioni: si ha cioè l’impressione che il corpo, persino quello che si muove in conformità ai codici condivisi della tecnica accademica, venga percepito come portatore di una sorta di incoercibilità inestirpabile, di fattore di scandalo, di

complessità irriducibile (come si diceva) che ne impediscono una autentica

funzionalizzazione.

Simili questioni si legano fortemente all’idea, in verità piuttosto diffusa anche al di fuori dei confini del giornalismo, secondo cui, all’origine dell’atto stesso del danzare, si collochi una sorta di bisogno primordiale, un’urgenza espressiva a metà fra il biologico e lo psicologico. Per comprendere meglio questo aspetto basta passare rapidamente in rassegna alcuni manuali di ballo del Primo Novecento, tra i pochi testi che, nei primi anni del secolo, si occupino esplicitamente di ballo (seppur con un’attenzione speciale, ovviamente, alle danze di società) cercando di fornire definizioni, ricostruire la storia e, soprattutto, rintracciare l’origine della pratica coreica.

Animato evidentemente da uno spirito positivista, che lo porta peraltro a citare ampiamente l’Essais de morale de science et d’esthetique di Herbert Spencer, già nel 1905 Pietro Gavina, dopo aver stabilito un parallelo fra alcune danze animali e quelle umane, scriveva:

Il ballo negli uomini è comunemente considerato come la più larga manifestazione dell’allegria. Questo è indubitabile, e reso palese dalla più elementare osservazione su noi stessi e gli altri.

Infatti è verissimo, che quando si è altamente compresi dal piacere, il nostro corpo si agita e cerca di manifestare la gioia con certe mosse, che, dapprima, disordinate, si piegano quindi

ad una cadenza, per una certa disposizione dei nostri organi di ripetere alcuni movimenti con un dato ritmo.

L’eccitazione prodotta dunque in noi dalla gioia tende a tradursi in movimenti, allo scopo di liberare da una tensione i nostri centri nervosi. È questa l’origine del ballo.69

In un’edizione successiva del manuale simili argomentazioni vengono riprese ampiamente:

Certo è che la danza per essere precipuamente espressione di gioia, di forza fisica, di ebrezza (sic!) sensoriale, di giovinezza, di estasi muscolare, è collegata strettamente con vari stati d’animo, ed è espressione di svariati momenti psichici, che un filo d’oro, fatto di emozioni e di sorrisi, di spasimi e di affetti, insieme riunisce in un tutto armonico, che è musica e ritmo.70

Considerazioni non troppo dissimili, infine, sono quelle sviluppate nel manuale di Mario DÈ Fiori:

Come la voce umana, nelle sue varie note e modulazioni, di piacere e di dolore, di dolcezza e di collera, ha dato origine al canto, così i moti del corpo, regolàti anch’essi dalle sensazioni dell’animo, furono la genesi del ballo.

Infatti, le membra sono quiete od agitate; le braccia si aprono o si chiudono, s’inalzano (sic!) al cielo o ricadono verso terra; i piedi procedono or agitati, ora lenti; tutto il corpo insomma corrisponde con pòse, con atti, con lanci, con fremiti alle sensazioni. Lo stesso passo è governato dall’anima: nella corsa è talora la paura, tal’altra la cupidigia della meta; nell’andatura lenta, la meditazione, il benessere, oppure la prostrazione; e così di seguito. A cotesti movimenti naturali, l’esperienza soccorse con le discipline dell’arte, subordinandoli all’estetica e al ritmo della musica. E come l’uomo, avendo pure in sé nella voce tutti i suoni che occorrono per cantare, apprende a ben cantare per mezzo dell’arte; così, possedendo i passi e i gesti, cioè la facoltà di eseguirli, apprende dall’arte a danzare perfettamente e dilettevolmente.71

Costruendo diversi tipi di paragoni, talvolta legati al mondo animale talaltra rivolti ad altre arti, questi testi sembrano proporre un’idea di danza come atto naturale, frutto del bisogno di rendere visibili i moti interiori: se, infatti, non tutti concordano sul tipo di stati d’animo

69 Gavina, Pietro, Il Ballo. Storia della danza, balli girati, contraddanze, cotillon, danze locali, feste di ballo, igiene del ballo, Milano, Hoepli, 1905, p. 10.

70 Gavina, P., Il ballo. Balli di ieri, Milano, Hoepli, 1914, p. 1. 71

De’ Fiori, Mario, Il ballo: manuale completo dei balli di etichetta e di famiglia, Firenze, Salani, 1908, pp. 5- 6 [ed.or.1895].

che la danza consente di manifestare (a una visione del danzare come espressione di gioia, soprattutto grazie alla tendenza a staccarsi dal suolo, fa da contrappunto quella che invece abbraccia un più ampio spettro di sensazioni e sentimenti), è tuttavia comune l’idea che, per danzare, il corpo debba subire una sorta di alterazione preliminare, provare dapprima una specie di ebbrezza irrazionale che solo in un secondo momento sarà disciplinata dalle regole dell’arte.

Si comprende come una simile concezione, proprio in ragione di questo legame inestirpabile con la sfera della sensazione incarnata e di un’irrazionalità capace di sconvolgere il comportamento ordinario, faccia in modo che la danza appaia, quasi suo malgrado, come l’arte non solo meno nobile ma anche, in assoluto, meno prevedibile.