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Divagazioni a margine: per un linguaggio metaforico

Dopo questa veloce carrellata attraverso alcune delle caratteristiche formali che, soprattutto in termini di tipologie testuali, connotano la stampa italiana del periodo fascista, vogliamo ora tornare a riflettere, quasi a mo’ di fugace divagazione, su una questione connessa al linguaggio impiegato per parlare di danza e di corpi danzanti: il ricorso alla metafora.

Si vedrà ripetutamente in seguito come, nei testi sulla danza di cui trattiamo, si presenti spesso la necessità di fare appello al linguaggio metaforico non solo per superare gli ostacoli legati alla dicibilità del corpo che danza, ma anche per magnificare le potenzialità euristiche dell’atto critico stesso.

Se fare critica significa anche pervenire a una sorta di aumento della conoscenza mediante l’instaurazione di inedite connessioni fra elementi considerati culturalmente distanti, ci pare che una simile operazione possa essere condotta anche attraverso specifiche scelte linguistiche e stilistiche che, nel caso della metafora, si rivelano particolarmente affini alla natura stessa dell’atto critico così come è stata appena formulata.

Il linguaggio metaforico, dunque, consentirebbe non solo di dire la danza ma, sempre nell’ottica del discorso critico, contribuirebbe anche pensarla, proprio in ragione di quelle capacità euristiche che entro certi termini accomunano critica e metafora.

A tal proposito non possiamo non rifarci ancora una volta agli studi di Umberto Eco che ha non soltanto affrontato il tema della metafora sotto molteplici angolature, ma si è anche lungamente soffermato sul problema delle relazioni fra metafora e conoscenza.

Stagliandosi su quello sfondo articolato e complesso costituito dall’Enciclopedia, infatti, la metafora, sostiene Eco, produce una sorta di smottamento linguistico e di riconfigurazione dell’universo semantico attraverso la connessione di elementi fra loro distanti e resi vicini mediante l’instaurazione di un parallelo, di una proporzione, di una commensurabilità.

Se, però, la metafora riesce a creare quella specie di “corto circuito” che, secondo Eco, avvicina in un sol colpo ciò che una certa cultura è abituata a pensare come distante, un simile processo è tuttavia possibile perché, proprio a livello culturale, esistono delle contiguità e delle connessioni (chiamate «catene metonimiche») che consentono di sorreggere e sostanziare l’apparente assurdità che ogni metafora porta costitutivamente con sé.

Questo significa che sotto all’apparente corto circuito metaforico (per cui la similarità tra due sensi pare scattare per la prima volta) sta un tessuto ininterrotto di contiguità culturalizzate […]

Si può inventare una metafora perché il linguaggio, nel suo processo di semiosi illimitata, costituisce una rete polidimensionale di metonimie, ciascuna di queste spiegata da una convenzione culturale e non da una somiglianza nativa. […]

L’immaginazione sarebbe incapace di inventare (o di riconoscere) una metafora, se la cultura […] non le provvedesse la rete soggiacente delle contiguità arbitrariamente stipulate. L’immaginazione altro non è che un raziocinio che percorre in fretta i sentieri del labirinto semantico, e nella fretta perde il senso della loro struttura ferrea.100

Totalmente incastonata all’interno di una determinata cultura, la metafora consente un avanzamento conoscitivo nella misura in cui, dice Eco, riesce a «far vedere» dei paralleli fra le cose e, progressivamente, diventa patrimonio comune al punto che, entrata a far parte dei modi di dire e di pensare, può perdere interamente il suo originario potere destabilizzante. È evidente che qui non si sta facendo riferimento esclusivamente a metafore poetiche o, in generale, «belle»: quello che è interessante è il processo di conoscenza che l’impiego di un linguaggio metaforico sembra sottendere indipendentemente dal grado di poeticità e di creatività di volta in volta raggiunto.

Non a caso dunque, nell’introdurre una raccolta di studi dedicata proprio al rapporto fra metafora e conoscenza Anna Maria Lorusso rileva:

Non si tratta dunque di avere inventiva (se non nel senso etimologico di “inventio”, come capacità di saper trovare) ma si saper vedere, in tutto quello che già c’è e che sappiamo di un termine (ovviamente nella conoscenza enciclopedica che abbiamo di quel termine), qual è il tratto giusto su cui – come un grimaldello – operare.101

100

Eco, Umberto, Le forme del contenuto, Milano, Bompiani, 1971, pp. 107-108.

Indipendentemente dunque dal valore estetico della singola metafora, lo sguardo semiotico tende a intercettare i meccanismi culturali che ogni metafora manifesta, mirando semmai a stabilire il tipo di impatto che essa esercita sul tessuto culturale in cui si inserisce.

Si comprende dunque come simili posizioni consentano di leggere la metafora anche in termini di fenomeno storico e culturale («le metafore migliori sono quelle che mostrano la cultura in azione, i dinamismi stessi della semiosi»102) e, in ultima analisi, spianino la strada rispetto alla possibilità di considerare il linguaggio metaforico come uno dei possibili luoghi in cui, a partire da una determinato panorama culturale, vengono a installarsi inediti punti di vista sul reale.

Sarà interessante, nel prosieguo di questo lavoro, soffermarci di volta in volta su quegli usi metaforici della lingua che, con l’intento di parlare del corpo danzante, talvolta forniranno visioni viete e stereotipate al limite del luogo comune (forse leggibili anche in termini di metafore ormai perfettamente metabolizzate dal contesto culturale), talaltra stabiliranno delle connessioni talmente sorprendenti da aprire prospettive inaspettate sull’esperienza della danza generalmente intesa.

Bisognerà poi cercare di seguire il cammino che, nel corso del tempo, le diverse espressioni metaforiche mostreranno di compiere, riuscendo magari a trovare tanta fortuna da imporsi e istituire un particolare modo di pensare, guardare e dire la danza o, al contrario, rimanendo dei casi isolati, magari estremamente affascinanti ma forse non adeguatamente assimilabili dal contesto di riferimento.

Quali caratteri, detto altrimenti, si cercherà di attribuire alla danza e al corpo danzante attraverso la metafora? Che tipo di riferimenti e di immagini verranno prevalentemente utilizzati e a quale tipo di mutamenti andranno incontro col passare del tempo? È possibile tentare una sorta di storicizzazione di simili visioni metaforiche? Si può forse arrivare a pensare che la metafora rappresenti un modo privilegiato di parlare di danza in sede critica? Si tratta evidentemente di questioni talmente ampie che meriterebbero una trattazione accurata e specifica; ad ogni modo, anche se non riusciremo forse ad approfondire appieno tutti questi aspetti, sarà per noi fondamentale, se è vero che dietro a ogni metafora si colloca una particolare configurazione enciclopedica, cercare di comprendere a quali dimensioni del sapere andranno ad attingere gli autori delle metafore che attraverseremo, al fine di contribuire a rintracciare i percorsi lungo i quali, nell’Italia fascista, un possibile pensiero sulla danza ha cercato di prendere forma.