• Non ci sono risultati.

Tornando a definire Quale critica?

Se risulta ormai chiaro che, dal nostro punto di vista, la critica di danza possa (e debba) divenire oggetto studi solidi e strutturati, è opportuno però soffermarsi sulle modalità con cui concepiamo un simile ambito di indagine.

È infatti superfluo ricordare che ogni percorso di studio costituisce un’operazione complessa, mediante la quale non ci si limita a investigare l’oggetto del proprio interesse ma, al tempo stesso, lo si plasma, gli si attribuiscono forma e caratteri: in un certo senso, lo si crea. E un’istanza fortemente creativa non poteva non animare sin dal principio il nostro lavoro che, come si è visto, prende le mosse a partire da un panorama di studi piuttosto desolato.

Ad ogni modo, al fine di intraprendere un cammino di ricerca sulla critica di danza accorto e libero da pregiudizi, si è rivelato necessario il compimento di una prima mossa teorica, consistente nello sgomberare il campo da qualsiasi tendenza a emettere giudizi di merito. Studiare la critica, cioè, non poteva consistere (come invece ci pare sia molto spesso accaduto) solo nello stabilire se i critici, soprattutto nel passato, fossero stati capaci di individuare, interpretare e, eventualmente, incoraggiare i percorsi di danza più significativi del proprio tempo. Un simile atteggiamento non regge, ci pare, all’esame della storia, dal momento che esso, nel tentativo di ravvisare una sorta di adeguatezza della critica, non sembra rispettare, sia che si riferisca a un passato remoto che a tempi più recenti, il contesto storico-culturale con cui i contributi esaminati inevitabilmente interagiscono.

La critica, detto in altri termini, andava studiata come vero e proprio oggetto culturale, il che significava, come vedremo meglio in seguito, costruirne i lineamenti a partire da un adeguato corpus di fonti e trovare una metodologia tale da cogliere prima di tutto quella rete di relazioni che connette i materiali di partenza ai luoghi e ai tempi che li hanno visti nascere, diffondersi e, eventualmente, cadere nell’oblio.

È proprio un simile intrico di connessioni che, quasi paradossalmente, costituisce l’aspetto più affascinante e foriero di sviluppi per chi si avvicina allo studio della critica di danza, dal momento che esso consente di mettere il luce i legami fra i testi di partenza (cioè gli articoli sulla danza) e il loro pubblico di riferimento, le abitudini editoriali, la personalità dei singoli autori, le pratiche comportamentali e il sistema di valori complessivo della società.

A questo punto occorre però fornire un primo chiarimento di ordine tecnico, dacché si è fin qui parlato genericamente di articoli giornalistici e di fonti senza chiarire quali tipologie testuali si volesse includere in simili categorie.

D’ora innanzi, quando alluderemo alle fonti che ci sembra opportuno considerare per lo studio della critica di danza, intenderemo tutti quei testi giornalistici (recensioni, interviste, presentazioni, divagazioni letterarie, ecc) nei quali, seppur a livelli e con caratteri differenti, può prendere corpo un discorso sulla danza. Un simile approccio, evidentemente, non si limita a considerare solo le cronache di spettacolo, che pur costituiscono una parte fondamentale (in un certo senso la sostanza) del nostro discorso, ma vede nel giornalismo uno spazio da investigare in più direzioni, al fine di tratteggiare l’immagine condivisa che una certa cultura, proprio attraverso il discorso giornalistico, tende a costruire quando parla di danza. Ciò significa, evidentemente, pensare la critica come discorso trasversale e, in un certo senso, solo in parte connesso all’operato dei cosiddetti critici di professione: è evidente che, soprattutto laddove quella della critica costituisce una professione saldamente affermata, sia essenzialmente demandato ai professionisti il compito di scrivere di danza in maniera competente, ma può anche darsi il caso che scambi ed esternazioni interessanti provengano dai non specialisti.

Si tratta, cioè, di affrontare lo studio della critica cercando di fondere in maniera rinnovata le due accezioni del termine che abbiamo esposto in apertura: critica come mestiere e critica

come attitudine metodologica.

È infatti evidente che, nel dichiarare il nostro interesse verso tutti i discorsi sulla danza (frutto del lavoro di professionisti o meno) prodotti in ambito giornalistico, ci chiediamo implicitamente in che misura il professionismo e, parallelamente, le condizioni produttive che ne sono alla base incidano sull’elaborazione di un pensiero sulla danza dotato di sostanza e caratteri propri.

Riflettere sugli aspetti concretamente connessi al professionismo rappresenta senza dubbio un’operazione irrinunciabile, capace di fornire non solo preziose informazioni di natura storica ma anche di mettere in luce alcune caratteristiche che connotano e modellano a più livelli il mestiere del critico.

Innanzitutto, infatti, è incontestabile che l’esistenza stessa, all’interno di un determinato panorama socio-culturale, di critici professionisti rimandi al riconoscimento, più o meno condiviso, della danza come argomento giornalisticamente appetibile e, soprattutto, come vera e propria arte sulla quale è opportuno elaborare un discorso specifico e possibilmente competente: è proprio un simile riconoscimento, forse apparentemente ovvio, che costituisce il primo fondamentale spostamento di prospettiva al fine di iniziare a pensare, oltre che a praticare, la critica di danza come professione.

L’esercizio stabile della professione, inoltre, influenza anche la dimensione della militanza, dacché contribuisce inevitabilmente al rinsaldamento e alla progressiva definizione di quella che, stando alle parole di Ann Daly citate in precedenza, chiamavamo «critic’s idelogy»48, vale a dire quell’insieme di idee e convinzioni sulla danza che non solo plasmano in profondità le visioni e i discorsi dei critici ma, in particolar modo, rendono l’operato del critico di danza inevitabilmente interessato, cioè tendente alla difesa di determinate posizioni politiche ed estetiche, di un certo modo, come dicevamo sopra, di volere la danza. Ora è chiaro che un simile atteggiamento, per quanto secondo noi inevitabile, possa assumere derive pericolose (e su questo piano si innestavano le polemiche affermazioni, precedentemente riportate, di Alessandro Pontremoli49), ma in ogni caso uno studio della critica di danza deve cercare di analizzare simili aspetti considerandoli non solo come frutto delle inclinazioni, eventualmente contestabili, del critico, ma anche come il risultato di determinate condizioni lavorative.

A queste brevi considerazioni sul professionismo è però necessario aggiungerne delle altre al fine di iniziare a interrogarci, mutando lievemente prospettiva, sugli aspetti che, secondo noi, lo studioso di critica di danza dovrebbe intercettare per provare a spiegare, al di sotto delle diverse occorrenze storiche e alla base di qualunque contesto lavorativo, quale sia l’attitudine teorico-metodologica che, sempre rimanendo nell’ambito giornalistico, contraddistingue la critica di danza, determinandone le specificità e, eventualmente, stabilendo connessioni con la ricerca coreologica.

L’antinomia fra critica come mestiere e critica come attitudine metodologica viene dunque rimodulata nella misura in cui, da un lato, si ritiene che lo scarto teorico che conferisce senso e sostanza all’attività dei critici di danza sia sostanzialmente analogo a quello che sta al cuore degli studi coreologici e, dall’altro, si afferma che il contesto e le modalità operative che connotano l’esercizio del mestiere rendono quello della critica di danza un terreno da indagare in maniera specifica.

Torneremo diffusamente su questi ultimi aspetti che, in parte, erano già presenti nelle analisi di Copeland/Cohen e Banes50; per ora vogliamo però soffermarci su quello scarto teorico che abbiamo appena menzionato e che, indipendentemente dal professionismo, ci pare plasmare in profondità lo sguardo di chi fa critica di danza.

48 Cfr. infra, p. 17 e segg. 49

Cfr. nfra, p. 28.

Può sembrare ingenuo ritenere (ma, come vedremo, ciò non è stato dato sempre per scontato) che si possa parlare di critica di danza nella misura in cui coloro che la praticano pensano alla danza in quanto arte e, soprattutto, in quanto arte del corpo.

Se guardiamo al caso dell’Italia del Primo Novecento che tra breve inizieremo a indagare nello specifico, una simile visione della danza è stata lungamente minoritaria, schiacciata da un atteggiamento che tendeva a ravvisare in essa un elemento fondamentalmente decorativo, un momento di godimento visivo in cui il corpo, che pure non poteva che essere il fulcro dell’attenzione (e forse proprio per questo), veniva percepito come elemento problematico, fondamentalmente indegno di diventare luogo di autentica manifestazione artistica e punto di partenza per l’elaborazione di un pensiero sulla danza.

È proprio una certa formulazione (o, sarebbe il caso di dire, ri-formulazione) dello statuto del corpo a rivelarsi nevralgica per il nostro discorso: quello scarto teorico ormai più volte citato consiste infatti, secondo noi, nell’intendere il corpo danzante come terreno della complessità, spazio in cui convergono, senza mai annullarsi l’un l’altra, natura e cultura. Detto altrimenti, un corpo che danza necessita di essere colto sì nella sua dimensione biologica e, in un certo senso, materica ma, al tempo stesso, ha bisogno di venire inteso anche come opera d’arte, luogo in cui un percorso artistico trova la sua oggettivazione e si trasforma in presenza scenica viva e vibrante. Apprestarsi dunque all’esperienza di un corpo che danza consapevoli del cortocircuito che in esso inevitabilmente si produce e che fa deflagrare, nella suggestione della presenza, carnalità e trasfigurazione, appetito e contegno, impulso e strategia compositiva, peritura fragranza dell’esserci e solidità di acquisiti riferimenti culturali.

La visione del corpo appena evocata, che si edifica evidentemente sulla base di una sorta di

compatibilità di fondo fra natura e cultura, costituisce uno dei possibili percorsi

interpretativi tracciabili sul piano (termine su cui dovremo lungamente tornare) della

corporeità e, come in parte già accennato, non è dunque scontato che i discorsi sulla danza

siano attraversati da una simile idea di corpo.

Si tratta in sostanza di ritenere che, indipendentemente dall’esercizio del mestiere di critico, esista una modalità di approccio al corpo danzante che connota in profondità, quasi costituendone l’essenza, la critica di danza. Scrivere di danza, detto brutalmente, non significa necessariamente essere critici di danza, proprio in ragione della necessità di uno sguardo che parta dal corpo e in esso tenda a tornare, rispettandone la complessità e tentando di investigarne le possibilità.

Questi discorsi permettono alla nostra trattazione di compiere un passaggio ulteriore, dal momento che ci consentono di illustrare le ragioni alla base della scelta di indagare le relazioni fra danza e stampa nell’Italia fascista, vale a dire in un momento storico in cui, come si dirà ampiamente in seguito, è proprio il corpo l’aspetto che suscita maggiori problemi in chi, sulla stampa, scrive di danza.

Vale per ora la pena di affrontare però la questione a partire dalla seguente domanda: quando nasce la critica di danza in Italia?

È noto che, anche stando a quanto affermato in precedenza, si può rilevare la presenza di una critica di danza italiana, intesa innanzitutto come professione, solo a partire dagli Anni Cinquanta e, per questa ragione, accingersi a parlare di critica di danza a proposito della prima metà del secolo significherebbe forse interessarsi a un oggetto che, storicamente, non

esiste. Vero. Solo che, se si sposta leggermente l’angolo di visuale, ci si accorge invece che

una simile indagine non solo è possibile ma anche ricca di sviluppi e applicazioni ulteriori: se infatti si adotta, come abbiamo fatto, l’accortezza di parlare di relazioni fra danza e

stampa (pensando innanzitutto ai possibili luoghi in cui, anche nel giornalismo italiano pre- critica, si è parlato a vario titolo di danza) e se, soprattutto, si accoglie quella formulazione

dello statuto del corpo danzante cui abbiamo accennato poco fa, si prende consapevolezza del fatto che interessanti spunti di ricerca possono provenire anche da fasi della storia tendenzialmente passate sotto silenzio o comunque ritenute avide di spunti per lo studio della critica.

Abbiamo infatti ipotizzato che, indipendentemente dall’esercizio della professione, sia comunque possibile condurre discorsi che costituiscano intrinsecamente degli esempi di

critica di danza proprio perché attraversati da quello sguardo sul corpo che abbiamo

illustrato più sopra. È quindi oltremodo interessante andare a cercare questo tipo di sguardo anche nei contributi giornalistici italiani del Primo Novecento sia, da un lato, per valutarne l’eventuale eccezionalità rispetto al panorama complessivo, sia, dall’altro, per capire se sia possibile disegnare delle costellazioni di contributi critici esemplari e capaci di stagliarsi, facendo sistema, su uno sfondo di discorsi sulla danza sicuramente problematico, per molti versi arido, ma ciononostante degno di indagine.

Se, infatti, la nascita e l’affermazione della professione della critica di danza si sono manifestate solo in un certo momento della storia italiana, vale la pena di rivolgere lo sguardo al passato se non altro per comprendere le ragioni che non hanno permesso l’originarsi di un simile fenomeno culturale, evidentemente nuovo per l’Italia: se cioè, come crediamo, i processi culturali (e torneremo ampiamente, con i dovuti distinguo, su questo

punto) non procedono per strappi e rivoluzioni subitanee e, pertanto, possono accogliere il nuovo solo come riconfigurazione (più o meno dirompente) di elementi in qualche misura preesistenti, è evidente che lo sguardo che adotteremo sarà inevitabilmente duplice e teso a investigare non solo la critica ma anche i meccanismi culturali che ne sono alla base.

Detto in altri termini, se per la prima metà del Novecento non si può parlare di una critica di danza professionista ma, al contempo, anche in questa fase storica è possibile rintracciare contributi giornalistici di argomento coreico fortemente eterogenei e in parte estremamente interessanti, non è forse compito dello studioso individuare le dinamiche culturali sottese a un simile stato di cose?

Specificato questo è però opportuno chiarire perché, secondo quanto dichiarato fin dal principio, ci occuperemo di un momento particolare del Primo Novecento italiano, vale a dire del ventennio fascista. Al di là della necessaria delimitazione di un orizzonte temporale tale da poter essere realisticamente attraversato all’interno di un singolo studio, ci pare che, per ciò che concerne il nostro discorso, nel periodo compreso fra gli Anni Venti e gli Anni Quaranta si compia un sottile, spesso discontinuo, ma non per questo meno interessante mutamento nei discorsi sulla danza prodotti in ambito giornalistico, il tutto in stretta connessione, evidentemente, con le vicende che in quella fase storica vedevano protagonista la danza praticata in scena e non solo.

Si è spesso insistito sul fatto che, nell’Italia fra le due guerre, la grande danza venne vista e vissuta solo di sfuggita, senza che le esperienze coreiche più rilevanti del tempo – dai

Ballets Russes a Mary Wigman, passano per Laban e i Ballets Suédois – trovassero modo di

radicarsi e germogliare su un terreno che, spentisi ormai gli ultimi fuochi della tradizione coreica dell’Ottocento, vedeva fiorire solo stanchi esempi di balletti datati e vuoti intermezzi d’opera.

A questo allude Elisa Vaccarino quando dichiara «E l’Italia? L’Italia fu luogo di passaggio, più che di radicamento di coreografi e compagnie di primo piano»51 e, a simili parole, fanno eco quelle di Silvia Poletti, quando afferma che “[…] il Novecento della danza italiana appare allo sguardo attuale costellato da una serie anodina di eventi, presenze, slanci creativi troppo spesso dispersivi e occasionali»52.

Se, com’è stato detto da più parti, l’arrivo in Italia (in contesti diversi, dal grande ente lirico al teatrino d’avanguardia) di illustri compagnie e artisti stranieri non riuscì certamente a

51 Vaccarino, Elisa, In Italia: sentieri interrotti. Tra danzatrici moderne e Balli Russi, in Carandini, Silvia -

Vaccarino, Elisa (a cura di), La generazione danzante: l’arte del movimento in Europa nel primo Novecento, cit., p. 407.

52

Poletti, Silvia, Il Novecento, in Sasportes, José (a cura di), Storia della danza italiana. Dalle origini ai giorni

provocare né una rivoluzione nelle pratiche coreiche né tantomeno un ribaltamento del gusto, tuttavia esso si pose fin da subito come un’esperienza (che più avanti tenderemo a definire sempre più nei termini di incontro col nuovo o, meglio, con l’Altro) della quale quanti parlavano di danza sulla carta stampata non potevano non tenere conto; cercheremo infatti di dimostrare che, al di là di polemiche, miopie e cattiva informazione, l’incontro e l’assimilazione di una danza altra comportò, seppur lentamente, un cambiamento nelle esigenze e nelle competenze di quanti, in maniera più o meno raffinata, si occupavano di danza e balletto su quotidiani e periodici del tempo.

Sebbene rimanga il balletto (che, come vedremo, cercherà dapprima di produrre una sorta di

risposta italiana ai Ballets Russes e poi vedrà una più decisa affermazione con Aurel M.

Milloss) l’ambito a cui si farà più frequentemente e riccamente riferimento sui giornali, è anche il caso di ricordare che lo sdoganamento e, soprattutto negli Anni Trenta, il culto del corpo veicolato dall’ideologia fascista esercitarono un peso non irrilevante sia sulle pratiche coreiche (si pensi alla voga delle danze classiche che grande successo riscossero per tutto il Ventennio, Jia Ruskaja in testa), sia rispetto a una certa visione, nella stampa, della corporeità e, in particolare, delle possibilità del corpo: l’idea che la danza potesse esprimere dei contenuti interiori, sentimentali e (eventualmente) intellettuali, inizia in questo momento, complice anche l’arrivo di danzatrici e danzatori liberi e pur con tutte le reticenze del caso, a trovare un certo riscontro sui giornali, laddove in precedenza una simile eventualità sarebbe stata probabilmente bollata come il ridicolo tentativo di discettar con i piedi.

Muovendosi essenzialmente attorno a poche questioni – dalle caratteristiche che deve avere un balletto alle potenzialità del corpo danzante (specie se femminile), passando per i rapporti fra danza musica e scenografia – la stampa del ventennio fascista custodisce un arcipelago di discorsi sulla danza fortemente sconnesso e, al contempo, attraversato da profonde linee di forza che, in seguito, ci consentiranno di sviluppare una riflessione sull’argomento che si propone di essere il più possibile organica e coerente.

A questo punto, definito con chiarezza il nostro oggetto di ricerca, è opportuno affrontare nel dettaglio le questioni relative a quella metodologia che, menzionata in precedenza, ci pare possa rivelarsi particolarmente prolifica rispetto allo studio che intendiamo condurre, cominciando a parlare, ovviamente, del corpus di fonti su cui questo lavoro si costruisce.