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Considerazioni sulla stampa periodica

1.4 Caratteri della presenza della danza nella stampa italiana del Ventennio

1.4.3 Considerazioni sulla stampa periodica

Si sarà certamente notato come i discorsi condotti nei paragrafi precedenti riguardassero sostanzialmente la stampa quotidiana.

Ora, sebbene le considerazioni relative alle cronache di spettacolo possano essere considerate valide anche a proposito dei periodici, è indubbio che questo tipo di testata presenti delle caratteristiche sue proprie che vale la pena di affrontare rapidamente.

È innanzitutto necessario sottolineare la maggiore libertà nella scelta e nell’organizzazione dei contenuti che connota i periodici (soprattutto quelli generalisti) rispetto ai quotidiani, in modo particolare per ciò che concerne la possibilità di fare ricorso, spesso in maniera davvero massiccia, all’illustrazione e, molto più significativamente, alla fotografia.

Se è infatti noto come la stampa quotidiana del periodo fascista si serva ampiamente della componente iconografica, spesso chiaramente con fini propagandistici, per ciò che concerne la danza sono invece i periodici il luogo in cui si tende a sfruttare maggiormente la possibilità di ritrarre e offrire allo sguardo del lettore l’immagine di corpi in movimento:

come abbiamo già avuto modo di rilevare in altra sede a proposito del periodico «Comoedia»96, per lungo tempo le fotografie di danzatori e danzatrici hanno avuto lo scopo di mostrare la danza sottolineandone soprattutto l’eventuale bizzarria ed eccezionalità, quasi fosse una curiosità a cui riservare il tempo di un’occhiata o, per converso, una fonte di suggestione alla quale rivolgere uno sguardo più affascinato che attento.

Simili immagini fotografiche appaiono spesso corredate di didascalie sintetiche, accattivanti e scherzose, quasi che l’ostensione stessa del corpo necessitasse di un commento che fosse non solo essenziale sul piano informativo, ma anche capace di giustificare, ricorrendo all’ironia, una presenza che, come quella del corpo, portava con sé un innegabile fattore di perturbante problematicità.

Se ci soffermiamo su alcuni esempi, vediamo che non di rado si riserva una certa attenzione all’attività delle ballerine in erba, allieve, ad esempio, delle scuole dei grandi teatri lirici, come nel caso della seguente didascalia, posta a corredo di una fotografia pubblicata su «La Domenica del Corriere» del 1 novembre 1931, in cui alcune piccole allieve dell’Opéra di Parigi sono ritratte nei banchi di scuola:

Non basta, nemmeno per fare la ballerina, aver buoni garretti e agili piedi: ci vuole anche per quelle preziose testoline un po’ d’ortografia, un pizzico di grammatica e, perfino, qualche nozione d’aritmetica… Per questo le scuole di ballo annesse ai grandi teatri comprendono, insieme con i “passi” più vari, queste terribili scienze. I “topolini” dell’Opera di Parigi, ossia le ballerinette in erba, si applicano con grazia sorridente – almeno nella fotografia – ai loro esercizi: e, contrasto singolare, il malizioso gonnellino candido freme sui banchi severi…97

Si tratta di un testo breve ma in realtà piuttosto complesso, in cui l’attenzione all’originalità si fonde con lo scetticismo, mascherato da toni paternalistici, verso l’effettiva utilità, per le future danzatrici, di acquisire anche un «pizzico» di istruzione: per simili fanciulle, sempre graziose e sorridenti (caratterizzate dunque da un’attitudine prettamente femminile, poco affine – sembrerebbe dirsi qui – alla serietà e all’impegno richiesti dallo studio), l’attività intellettuale non può che essere un’imposizione e un sacrificio, al punto che, in conformità con la già citata visione della danza come bisogno corporeo e anti-culturale, non ci si lascia sfuggire l’occasione di ricordare, fissando lo sguardo sulle gambe di queste fanciulle, come

96 Ci permettiamo di citare a tal proposito: Taddeo, Giulia, Prove di critica: la danza in “Comoedia” tra illustrazione e approfondimento, «Studi Medievali e Moderni», anno XVII, n. 2, 2013, pp. 193-222.

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Anonimo, Le gambette e le testoline [didascalia], «La Domenica del Corriere», anno XXXIII, n. 44, 1 novembre 1931.

l’esercizio del pensiero non possa che essere precluso a chi, come gli artisti della danza, risponde solo alle basse logiche del proprio corpo.

Non sempre, tuttavia, le didascalie assumono toni di questo tipo: talvolta, infatti, esse assumono un’importanza significativa nel veicolare informazioni di cui i lettori erano con ogni probabilità sprovvisti.

Nel caso di «Comoedia», ad esempio, esse costituiscono spesso un’integrazione testuale importante, come accade nel caso delle parole che accompagnano il collage fotografico dal titolo «Clotilde e Alessandro Sakharoff a Bruxelles» (15 luglio 1923):

Sono due russi che l’America rimanda all’Europa accompagnati dalla fama di impareggiabili mimi. La fama dice che essi siano l’immagine stessa dell’armonia musicale nella sua più eletta espressione.

Dal giorno in cui Yvette Guilbert à scelto Bruxelles come sede del suo “Istituto di musica, di canto e di arte decorativa teatrale”, la capitale del Belgio è diventata la meta di un pellegrinaggio artistico europeo. I Sakharoff vi sono giunti – buoni ultimi – dall’America. In questa orgiastica confusione di ritmicismo e di fox-trott, Alessandro e Clotilde Sakharoff si presentano per gusto e spirito come due artisti della danza veramente eccezionali. Essi verranno fra poco in Italia per studiare da vicino nei nostri musei l’arte del 400 e del 500 che vogliono far rivivere in una serie di danze classiche. Essi hanno già incaricato il M.o Tirabassi, Direttore dell’Istituto di Musicologia di Bruxelles, di preparare per loro motivi di danze dell’epoca.98

L’intento, in questo caso, sembra essere interamente informativo, dacché anche mediante il ricorso a immagini sapientemente commentate si rivelava possibile, in quegli anni, contribuire alla sprovincializzazione del gusto italiano che, in ambito coreico, risultava ancora profondamente arretrato.

Non ci dilunghiamo per il momento nella presentazione di altri esempi: è però importante, nell’ottica della metodologia che abbiamo fin qui proposto, rendersi conto del fatto che anche testi apparentemente marginali e poco significativi come le didascalie possono contribuire alla creazione di quel panorama di visioni, giudizi e modi di pensare che costituisce lo sfondo culturale di riferimento su cui si staglia qualsiasi discorso sull’arte della danza in senso stretto.

Tornando ora alla questione delle immagini di danza all’interno della stampa periodica, ci si accorge come, col tempo (e in modo particolare a partire dalla fine degli Anni Venti), la

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Anonimo, Clotilde e Alessandro Sakharoff a Bruxelles [didascalia], «Comoedia», anno V, n. 14, 15 luglio 1923.

qualità delle fotografie diventerà però davvero ragguardevole, tanto che l’immagine, in particolare attraverso la tecnica del collage, assumerà un peso sempre più rilevante nella stampa periodica, che, complice anche la progressiva affermazione del rotocalco, tenderà progressivamente a fornire dei veri e propri racconti visivi destinati a lettori-spettatori99. Trattare queste tematiche nello specifico ci condurrebbe fuori dai limiti di questo lavoro, ma è comunque importante notare che la sempre maggiore diffusione dell’immagine fotografica nella stampa periodica si sposa perfettamente non solo col desiderio, tanto problematico quanto in realtà profondamente sentito, di vedere il corpo danzante, ma anche con quella reticenza, già sottolineata in precedenza, nel parlare di danza: si ha cioè come l’impressione che i periodici tentino spesso di adempiere al proprio dovere informativo sostituendo, attraverso l’immagine, il discorso verbale sulla danza ed evitando in tal modo il confronto con le difficoltà e i pregiudizi connessi alle pratiche di scrittura di argomento coreico.

Al di là di questa indiscutibile capacità di ricorrere alla fotografia come strumento di informazione e al contempo di suggestione, non si può però non rilevare come la stampa periodica si riveli un ambito di sicuro interesse anche in ragione delle differenti modalità di pensare e di dire la danza che in essa sembrano a più riprese convergere.

La libertà nella selezione e nell’organizzazione dei contenuti si traduce dunque nella possibilità di accogliere, ad esempio in periodici di argomento teatrale come «Comoedia» e «Scenario», voci e discorsi sulla danza spesso letteralmente antipodici, che si differenziano non solo in termini di tipologie testuali impiegate (dal pezzo di colore, teso magari a fornire dettagli e indiscrezioni sul ‘dietro le quintÈ di un allestimento ballettistico particolarmente atteso, all’ampia e argomentata cronaca di spettacolo, fino alla dissertazione di carattere storico ed estetico) ma anche per visioni estetiche connesse alla danza, spesso radicalmente diverse fra loro eppure compresenti in una medesima testata.

Ancora una volta l’esempio di «Comoedia» (e più avanti di «Scenario», che seguirà una tendenza analoga) è emblematico, soprattutto per quanto riguarda i primi Anni Trenta, cioè, quando il periodico milanese diviene uno dei luoghi del confronto fra classicisti (come Paolo Fabbri) e modernisti (Anton Giulio Bragaglia e Marco Ramperti) della danza.

L’idea che, a differenza di quanto accade nel caso dei quotidiani, una testata periodica possa accogliere in maniera relativamente continuativa e articolata dei contributi di argomento coreico costituisce, ancora una volta in termini di condizioni produttive, un passaggio fondamentale in vista della costituzione di uno sguardo specialistico che possa trovare espressione in periodici interamente dedicati alla danza.

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Su questo punto si rimanda almeno De Berti, Raffaele – Piazzoni, Irene (a cura di), Forme e modelli del

Si tratta ad ogni modo di un processo che necessita di tempi lunghi e di mutamenti su larga scala, capaci di penetrare non solo nell’ambito dell’editoria e del giornalismo in senso stretto, ma di coinvolgere anche la pratica di ideazione, produzione e fruizione della danza. In seguito vedremo infatti approfonditamente il caso di alcuni periodici sulla danza usciti, come numeri unici, tra gli Anni Trenta e gli Anni Quaranta (come la rivista «La danza» ideata diretta da Paolo Fabbri Walter Toscanini rimasta al numero unico di saggio del 1932) che, seppur per ragioni e con modalità differenti, testimoniano dell’incapacità del tessuto culturale italiano, ancora a quell’altezza cronologica, di accogliere con solido ed effettivo interesse questo tipo di pubblicazioni.