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Inevitabili frontiere: noi e gli altr

2.2 Balli e ballett

2.2.1 Sguardi dall’Ottocento

Lo scopo dichiarato di questo affondo sulla stampa di argomento coreico della seconda metà dell’Ottocento, è quello di procedere a una campionatura di esempi atti a fornire qualche indicazione di massima circa le modalità di fruizione, rielaborazione e concettualizzazione dello spettacolo di danza (e segnatamente del ballo di stampo classico-accademico) allora più diffusamente praticate. Per questa ragione rinunciamo sin da subito a qualsiasi tentativo di ricognizione sistematica delle fonti146 e, parallelamente, ci limitiamo a ricordare, come si

146 Le considerazioni contenute in questo paragrafo si basano essenzialmente sullo spoglio delle seguenti

testate periodiche: Gazzetta musicale di Milano (1861-1903); Il Piccolo Faust: notiziario teatrale illustrato (1861-1900); Il Teatro illustrato (1881- 1892); Il teatro italiano (1875-1880); Il Trovatore (1869-1880 e 1891-

è già prontamente fatto altrove147, che il confronto con cronache e commenti del secolo XIX, specie se legati a pubblicazioni periodiche di settore, non può prescindere dal considerare l’alto grado di parzialità (quando non di faziosità) di simili contributi, spesso connessi agli interessi di editori musicali e agenzie teatrali.

Quello che pertanto cercheremo di fare – fermo restando che un certo tasso di faziosità connota ogni testo giornalistico e che, pertanto, spetta allo studioso adottare un adeguato atteggiamento demistificante – sarà intrecciare visioni e parole provenienti da luoghi e testate differenti, al fine di individuare qualche punto in comune sul quale fondare le nostre considerazioni.

Dal momento che la maggior parte dei testi che stiamo per prendere in esame è costituito da cronache di spettacolo (essendo questa, soprattutto nei periodici di argomento teatrale e musicale, la tipologia discorsiva maggiormente frequentata per parlare di danza), ci sembra che la nostra analisi debba partire ricordando quello che, secondo quanto dicevamo anche nel capitolo precedente148, ci sembra essere il fine ultimo del testo cronachistico, vale a dire la registrazione – possibilmente arricchita di opportune argomentazioni – del successo ottenuto dall’evento spettacolare di volta in volta preso in considerazione. È proprio enucleando e commentando le ragioni di successo (e, parallelamente, di insuccesso) dello spettacolo coreografico che i cronisti muovono per condurre le proprie analisi dell’azione scenica e, soprattutto, per esprimere dei veri e propri giudizi di merito su di essa, in tal modo fornendoci non soltanto un’idea più o meno dettagliata di quanto effettivamente accaduto in scena, ma anche assumendo una posizione rispetto al gusto e alle pratiche coreiche dominanti.

In linea di principio ci pare di poter dire che, almeno a partire dagli anni sessanta dell’Ottocento (e quindi in concomitanza con la quasi completa unificazione della penisola italiana), le cronache tendano progressivamente a suggerire quella che può essere considerata una sorta di formula di successo per lo spettacolo coreografico: per rispondere infatti alle esigenze di un pubblico sempre più smanioso di novità, i cronisti rilevano a più riprese come sia necessario per il coreografo dar prova di fervida inventiva, tentando non solo di ordire un’azione dalla trama semplice e facilmente comprensibile senza l’ausilio massiccio della mimica (in verità ritenuta per lo più una noiosa ginnastica «di pugni e di

1894); L’arpa. Giornale letterario, artistico, teatrale (1861–1868; 1870–1882; 1885–1891); Teatri arti e

letteratura (1861–1863).

147 Si veda Lo Iacono, Concetta, Maria Giuri e il suo pubblico nell’età del Ballo Excelsior, in Pappacena,

Flavia (a cura di), Recupero, ricostruzione, conservazione del patrimonio coreutico italiano del XIX secolo, Roma, Chorégraphie, 2000, pp. 125–150.

ginocchi»149), ma anche facendo ampio ricorso alla danza pura mediante l’inserimento di

ballabili numerosi e sempre variati.

Il saper creare sequenze di danza capaci di mettere in risalto il valore del corpo di ballo grazie a figurazioni ed evoluzioni coreografiche complesse e, soprattutto, sempre diverse, è infatti ritenuto un elemento fondamentale non solo per riuscire ad apprezzare l’abilità, l’avvenenza e il fascino delle danzatrici (la cui fisicità doveva essere opportunamente messa in evidenza dai costumi, ai quali si richiede di mostrare il più possibile il corpo e al contempo di conservare un certo buon gusto), ma anche per potenziare ulteriormente la cornice scenografica dell’intera azione danzata, spesso peraltro impreziosita dalla presenza di effetti scenotecnici di vario tipo (dalle fontane zampillanti vera acqua ai crolli di strutture e praticabili, fino alle famigerate luci di bengala).

Apice della riuscita di uno spettacolo, quando non causa di vero e proprio fanatismo nel pubblico, è poi la performance della prima ballerina che, negli ultimi anni dell’Ottocento, si caratterizza sempre più per forza e vigoria fisica eccezionali, le quali però non debbono andare disgiunte, per far sì che si possa parlare di un’interprete d’eccezione (una diva), anche da indubbie capacità interpretative.

Vediamo dunque da vicino, anche per iniziare a coglierne il sapore, qualche esempio di cronaca che, in maniera come vedremo abbastanza insolita, sembra ravvisare nello spettacolo di cui parla gran parte degli elementi testé elencati.

Il 17 marzo 1866, ad esempio, sul periodico bolognese «L’Arpa: giornale letterario, artistico, teatrale» viene riportato (secondo l’allora diffusissima pratica delle cosiddette spigolature) qualche stralcio di una cronaca comparsa sulla ben più nota (e quindi più autorevole e accattivante) rivista «Omnibus» e relativa al ballo Zoraide o la schiava circassa andato in scena al Teatro San Carlo di Napoli con le coreografie di Lorenzo Viena.

In essa si rileva che:

Questo nuovo ballo ha fatto furore per due essenzialissime ragioni: per quanto è semplice l’argomento, tanto sono ricchi i ballabili […] Nel primo atto, una “danza moresca”, poi “un passo orientale”, indi una “gitana”, in seguito una “festa caratteristica dei pirati”, poscia un “passo a due”, infine una “danza delle odalische” nella stanza del bascià (sic!), e cala la tela, vedendosi due navi in combattimento, con la distruzione di una di esse […] La graziosa ballerina [Caterina Beretta, n.d.A] ora imita un passeggio, ora batte le note coi piedi, ed ora voluttuosamente accenna ai palpiti di un cuore ardente. Non sembri strano, ma se una volta si

149

Si vedano le considerazioni di Antonio Ghislanzoni sulla «Gazzetta musicale di Milano», anno XXI, n. 23, 7 ottobre 1866.

diceva in caricatura che “i piedi palpitano”, nella Beretta divenne una realtà […] La “gitana” è un noto passo spagnuolo, ove tutte le ballerine si dimenano indecentemente. La Beretta non fa nulla di tutto ciò: il decoro è il suo primo scopo, e viene con esso a dimostrare che […] ogni arte deve prendere il suo tipo dal bello, dall’ideale e dal vero […] La “festa dei pirati” è un gran ballabile nuovo e originalissimo, che sarebbe bastato solo a creare un ballo. Fra le corifee, in quattro costumi diversi, tra i pirati armati di fucili, tra moretti e morettine graziosissime, irrompono sei furibondi beduini, che accennano ad assalire i fucilieri e a dar sopra alle donne, e poi vengono invece perseguiti e fugati dai pirati medesimi. I beduini coi loro movimenti inclinati e di fuga, suonando i loro barbari piattelli a tempo di musica, producono un effetto prodigioso.150

Si vede chiaramente come in questo ricco commento, che ha peraltro il non comune merito di tentare di descrivere nel dettaglio la scena e l’azione dei corpi danzanti, compaiano praticamente tutti gli elementi che citavamo in precedenza, dalla centralità riservata ai momenti danza pura (peraltro minuziosamente elencati grazie alla menzione, del tutto simile a quella riportata nel libretto, dei ballabili dello spettacolo), al furore suscitato dall’interprete d’eccezione (capace non solo di fondere tecnica ed espressività ma anche, come molte altre dive dell’epoca151, di mostrarsi al contempo casta e ammaliatrice), il tutto passando per vivaci e pittoresche scene di gruppo in cui trovano posto anche effetti speciali come il combattimento delle navi con cui si chiude l’azione.

È poi interessante notare, insieme agli elementi che ottengono il plauso del cronista, come queste parole riflettano anche la qualità dell’attenzione che si riserva allo spettacolo: la menzione staccata e capillare dei ballabili, insieme all’impiego di un termine-chiave come

furore e alla perizia nel descrivere i momenti maggiormente spettacolari (le esibizioni di

Beretta e la scena dei pirati), ci fanno pensare a una fruizione dello spettacolo essenzialmente discontinua e altalenante, in cui l’interesse e il coinvolgimento sensoriale ed emotivo dello spettatore si concentrano attorno ai pezzi di bravura e ai passaggi più spettacolosi.

Viene emergendo, cioè, una modalità di relazione con lo spettacolo essenzialmente emotiva e basata su una stimolazione massiccia della dimensione sensoriale che, mediante un susseguirsi di colpi di scena ed effetti sorprendenti, mira a condurre chi guarda fino alla

150

Anonimo, Zoraide o la schiava circassa, ballo del coreografo Lorenzo Viena, con musica del maestro

Giaquinto, rappresentato al Teatro S.Carlo di Napoli la sera dell’11 marzo, «L’Arpa: giornale letterario,

artistico, teatrale», anno XIII, n. 29, 17 marzo 1866.

151 Qualche anno prima, giusto per fare un esempio, a proposito di Olimpia Priora si parlava di «vereconda

voluttà che è il sommo pregio della grazia». Cfr. Anonimo, Olimpia Priora a Genova, «Teatri, arti e letteratura», 13 maggio 1861.

perdita del controllo e al raggiungimento di quello che, con un impiego quasi etimologico del termine, viene definito come stato di entusiasmo.

È questa la modalità di fruizione che ci sembra evocata quando, ad esempio, si definisce lo spettacolo di danza come «un quadro che ti abbaglia, cala la tela e il sogno è finito»152 o, ancora, come un

insieme, una fantasmagoria di sete, di rasi, di ori, di luce elettrica e di bengala, di tripodi fumanti, di stendardi di bandiere, di fiamme e di bagliori, fra cui si vedono agitarsi piume, fiori, manti rabescati, veli, paggi, dame, cavalieri, garzoni armati e fanciulle inghirlandate, muse, geni, uomini cupi vestiti tutti di ferro e ragazze sorridenti vestite appena quel tanto che basta a mettere in rilievo che sono vestite di niente…153

Indipendentemente dall’innegabile slittamento (e, secondo molti commentatori del tempo, l’involgarimento) dei gusti di un pubblico sempre più avido di novità e di quello che – mutuando la nota formula di Sasportes che abbiamo già impiegato154 – chiameremmo «virtuosismo e spettacolarità», sarebbe tuttavia ingenuo ritenere che il ballo teatrale di fine Ottocento non facesse fatica a soddisfare le esigenze delle platee, in primis quella del Teatro alla Scala, cui di volta in volta si presentava.

Da un esame delle cronache, infatti, non si può non rilevare come, in maniera quasi paradossale, siano proprio gli elementi di successo fin qui rintracciati a trasformarsi spesso nella causa della caduta rovinosa di parecchi lavori, soprattutto di quelli che non risultavano sostenuti da una sapiente orchestrazione delle varie componenti sceniche ma che, come sembrerebbe accadere di frequente, rivelavano piuttosto l’improvvido ricorso a moduli spettacolari il cui impiego, se da un lato richiedeva l’investimento di denari non sempre disponibili, dall’altro si traduceva sovente nella creazione di macchine sceniche dal funzionamento farraginoso e dallo sfarzo solo apparente, non di rado ai limiti del ridicolo. Insieme ai quei lavori che sembrano «peccare di lungaggini insulse e di poca originalità nelle danze»155, rivelandosi dunque lenti e noiosi, appaiono infatti di ben poco gradimento anche tutti quegli allestimenti che non riescono a trovare un’opportuna soluzione a quello abbiamo già definito come problema dell’organicità: a fronte di spettacoli coreografici

152 Anonimo, Bollettino teatrale. Torino, «Il Trovatore», anno XVII, n. 12, 24 marzo 1870. Il riferimento è a

una messa in scena del ballo La Devadacy (cor. Ippolito Monplaisir) alla Scala.

153 Pinella, [senza titolo], «Piccolo Faust», 30 gennaio 1881. Il riferimento è a una messa in scena del ballo Armida (cor. Ferdinando Pratesi) alla Canobbiana.

154 Cfr. infra, p. 81 e sgg. 155

Cfr. Anonimo, Ultime notizie, «Gazzetta Musicale di Milano», anno XXIV, 3 gennaio 1869. Il riferimento è al debutto scaligero del ballo Semiramide del Nord (cor. Ippolito Monplaisir).

programmaticamente concepiti come zona di convergenza fra pratiche, saperi e professionalità diversi, non sono numerosi i lavori in cui sia ravvisabile, pur nella costitutiva molteplicità, una visione relativamente unitaria e capace di tenere insieme, senza offesa per l’occhio e – si sottolinea spesso – per l’intelletto dello spettatore, mimi e ballerini, corpo di ballo e solisti, azione e soggetto, musica e scenografia.

All’origine della disorganica e inefficace realizzazione di molti balli è spesso da ravvisarsi, secondo i cronisti, la scelta di soggetti illogici, mal articolati, difficilmente comprensibili e non rispondenti, sebbene minutamente illustrati nel libretto (a proposito del quale si sottolinea spesso polemicamente il fatto che sia appannaggio solo di chi può permettersi di acquistarlo) a quanto accade effettivamente in scena, dove, di riflesso, l’azione complessiva si presenta sovente come un affastellarsi di «colori messi a casaccio, cambiamenti di scena senza motivo, effetti grossolani e plateali, luce elettrica a profusione… e punto senso comune»156.

Quello della mancata corrispondenza fra scena e libretto, evidentemente corroborando il diffuso pregiudizio circa l’esteriorità e la vacuità dello spettacolo coreografico, costituisce un difetto comune a molti allestimenti di ballo già negli anni sessanta e settanta dell’Ottocento, quando, ben prima della definitiva affermazione (certo legata alla messa in scena di Excelsior del 1881) della proposta spettacolare di Luigi Manzotti (che, come vedremo, declina a suo modo simili questioni sagomandole su un modello di organizzazione drammaturgica in tutto simile a quello della féerie), il ballo italiano inizia a dare preoccupanti segni di stanchezza creativa e, non secondariamente, produttiva.

È allora interessante notare, ad esempio, come in uno stesso anno, il 1874, vadano in scena alla Scala due lavori che, per quanto legati ai nomi di coreografi differenti (Ferdinando Pratesi e Pasquale Borri), presentano comunque agli occhi dei commentatori caratteristiche analoghe in termini di fallace articolazione del soggetto e di gratuità delle soluzioni sceniche adottate.

Se allora, fedele al piglio caustico e irriverente che le è proprio, la rivista milanese «Il Trovatore» apre così l’articolo dedicato al ballo L’Ostentazione:

Chi ha veduto ed aperto il libretto del ballo ragionevole del coreografo Pratesi, avrà veduto che s’è una prefazione al Cortese Spettatore, nella quale questi è avvertito che «le perenne lotta del male e del bene, delle passioni e del dovere, dell’istinto di conservazione con quello distruttore, è l’inesauribile tema donde (sic!) il coreografo ha attinto il soggetto». (Il coreografo non ha veramente torto: il tema è tanto inesauribile, che lo si è già veduto

centinaja di volte al Fossati, al Politeama, al Dal Verme ed ora al Teatro alla Scala) – Modestamente poi il suddetto coreografo dice che «a linee affatto semplici e nitidamente sviluppate» (vedrete che nitidezza) «ha accoppiato talune delle risorse della moderna coreografia, quest’arte che, primeggiando su tutte le altre plastiche pel prestigio di cui può disporre, deve appunto per questo contenersi nei limiti della logica e della ragionevolezza (almeno relative), né degenerare in spettacoli senza criterio e senza scopo,» In fatti (sic!) la logica, la ragionevolezza, il criterio, lo scopo di questo ballo sono veramente meravigliosi!157

dal canto suo, invece, a proposito del ballo Deyellah, la «Gazzetta musicale di Milano» rileva che:

Il nuovo ballo Deyellah del coreografo Borri rappresentato alla Scala è un ballo come tanti altri, vale a dire un pretesto più o meno logico e grammaticale a far vestire dieci volte le ballerine, a far andare su e giù una dozzina di scene, a far sbracciare i mimi e le mime ed a far sgambettare quelle di rango francese e quelle al rango italiano o meneghino.158

Serpeggia dunque nelle parole di molti cronisti una vera e propria insofferenza nei confronti di quei balli che, non poggiando su un tema coerentemente (e, di preferenza, sinteticamente) sviluppato ma puntando tutto su una smidollata e non di rado raffazzonata spettacolarità, sembrano così palesemente irridere al buon senso del pubblico (il quale tuttavia non pare sempre avvedersene) al punto da presentarsi come un puro pretesto, un mero espediente nelle mani dei quei coreografi che, ancora una volta dalle colonne della «Gazzetta musicale di Milano», Salvatore Farina definisce come «giganteschi nani della coreografia d’oggi, tutta fuochi di bengala e nudità infinitamente varie di ballerine»159.

Nei confronti dello spettacolo coreografico emerge così un giudizio ambiguo e stratificato, che se da un lato si dimostra difficilmente incline ad accogliere apertamente – quantomeno all’interno delle cronache, vale a dire in uno spazio in cui ci si assume pubblicamente la responsabilità del proprio dire – il ricorso all’eccesso palese e immotivato, dall’altro continua comunque ad apprezzare quelle stesse componenti (scenografie sfarzose, ballabili variati, ballerine dai corpi in bella mostra, musica vivace e ritmata) che, qualora non sapientemente dosate e curate, potevano risultare fonte di biasimo, irritazione e, soprattutto, insuccesso.

157 L’Istoriografo, L’Ostentazione – Azione molto mimica in sette scene…(troppo brutte) del coreografo Ferd. Pratesi, con musica del m° Marenco, «Il Trovatore», anno XXI, n. 2, 12 gennaio 1874,

158

Farina, Salvatore, Rivista milanese, «Gazzetta musicale di Milano», anno XXIV, n. 8, 22 febbraio 1874.

Questa sorta di attitudine censoria, sempre pronta ad alzare la voce laddove le sembri infranto un quantomai difficilmente definibile limite di ragionevolezza e buon gusto, va forse a intrecciarsi, da un lato, con il problema delle effettive possibilità produttive – e, pertanto, realizzative – dei teatri italiani alla fine dell’Ottocento e, dall’altro, con quello del fascino proibito esercitato dallo spettacolo coreografico in un’Italia che ancora per molti decenni faticherà a riconoscere alla danza il crisma dell’arte e, in particolare, di arte del

corpo.

I cronisti si dimostrano perfettamente consapevoli del fatto che la componente eminentemente spettacolare, senza dubbio capace di imprimere un indelebile marchio ai balli del tempo, si lega a filo doppio agli investimenti che le imprese teatrali sono disposte a compiere in termini di costumi, scenografie e macchinerie: in un sistema produttivo ancora fortemente impresariale e in cui il sostegno pubblico è, quando non del tutto inesistente, perennemente incerto, è evidente, per quanti sulla stampa si occupino di danza, che la qualità, il buon gusto e, in generale, la riuscita di un allestimento debbano essere valutati non soltanto in termini assoluti, ma anche in relazione ai denari che per esso sono stati spesi, affiancando così a valutazioni di carattere squisitamente estetico anche considerazioni di natura prettamente economica.

Ci si chiederà dunque di continuo, ricorrendo a un argomento che verrà peraltro adottato anche dai più acerrimi detrattori del balletto, se la qualità di scene, costumi e di quelle che sovente appaiono come «trovate spettacolose di un effetto meschino e talvolta burlevole»160 corrispondano agli sforzi economici compiuti per la loro realizzazione, così come, altrettanto di frequente, si plauderà a quelle fantasmagorie che dimostrino, celebrandola, la «splendidezza dell’Impresa»161.

Non risulta allora difficile riconoscere che quella sorta di sfocato e al contempo rigido ideale di spettacolo coreografico che abbiamo evocato fin qui si nutre in realtà non solo delle considerazioni connesse alla natura e alle caratteristiche del ballo in quanto forma d’arte, ma è sostenuto anche da una visione dell’evento spettacolare come prodotto dotato di un livello qualitativo empiricamente definito e costantemente riparametrato.

È anche all’interno di questa sorta di logica produttiva che i cronisti, ben lunghi dal dilungarsi in raffinate discettazioni estetiche, giungono a enucleare gli elementi di riuscita dello spettacolo e a definirne gli standard qualitativi (come la varietà dei ballabili o la vivacità della musica, la raffinatezza cromatica dei costumi o il perfetto funzionamento della scenotecnica), il tutto nell’orbita di una relazione con la scena largamente consumistica e

160

Cfr. Antonio Ghislanzoni in «Gazzetta musicale di Milano», anno XXI, n. 23, 7 ottobre 1866.

disimpegnata che, nel conservare – quasi a mo’ di basso continuo – una visione della danza

come prodotto, prende implicitamente e strategicamente le distanze da una pratica, il ballo,

che per quanto incardinata all’interno del sistema capitalistico dello spettacolo teatrale, resta comunque animata da una profonda e inestirpabile incoercibilità connessa alla viva presenza dei corpi danzanti.

Sebbene, infatti, le modalità di ideazione, messa in scena e fruizione del ballo teatrale risultino così profondamente permeate dalle dinamiche produttive vigenti da generare spesso lavori prevedibili e standardizzati, le cronache lasciano tuttavia trapelare il senso di una quantomai carnale piacevolezza della visione che, seppur immancabilmente diversa per ogni spettatore, ci sembra costituire non soltanto la ragione ultima della sostanziale persistenza del ballo italiano, nonostante l’evidente fase di declino che andava attraversando, per tutto l’Ottocento, ma ci pare essere anche all’origine di quell’urgenza di stabilire una soglia minima di compattezza tematica e coerenza realizzativa che abbiamo già visto.