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La battaglia per la scuola media unica

Capitolo II. Incalzando la Democrazia Cristiana (1958-1962)

2. La battaglia per la scuola media unica

La riforma della scuola media fu l’elemento qualificante della politica scolastica del Pci dalla fine del 1955 al termine del 1962289. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, la scuola – per non dire le scuole – tra gli 11 e i 14 anni, assunsero un’importanza via via maggiore non solo nel dibattito specialistico, ma anche tra l’opinione pubblica. Una crescente domanda sociale si scolarità si scontrava allora con una struttura discriminante, principalmente nei confronti dei ceti popolari e, tra questi, degli abitanti delle zone rurali e periferiche del paese. La concezione gentiliana di un canale di élite per la formazione della classe dirigente, il liceo ginnasio, pur modificata dall’intervento di Bottai, restava sostanzialmente intatta: permaneva infatti una suddivisione delle istituzioni formative a livello 11-14 anni e una netta distinzione degli sbocchi tra scuola media con il latino, scuola di avviamento, scuola d’arte e postelementare. Mentre nella prima – dove si accedeva con un esame di ammissione e in molti casi si pagavano le tasse – si insegnavano materie «formative» come italiano, latino, storia, geografia, matematica, una lingua straniera, religione, disegno, ed economia domestica (per le ragazze), la scuola di avviamento e la scuola d’arte – accessibili gratuitamente e senza esami – erano scuole chiuse, rivolte a scopi eminentemente «pratici» e «immediati», le quali fornivano accesso unicamente alle scuole tecniche biennali o a successivi corsi di addestramento professionale. La postelementare infine, affidata ai maestri, costituiva una vera e propria prosecuzione della scuola elementare senza sbocco alcuno, e trovava spazio soprattutto nei piccoli centri e nelle campagne290.

288 Vedi Scuola e monopoli, «Riforma della scuola», VIII (1962), n.4

289 Una ricostruzione del periodo nella prospettiva della storia dell’educazione si trova in Fabio Pruneri, Il Pci e la riforma della media unica, in «Nuovo bollettino Cisre», 2013, n.1, p.43-51

290 La postelementare era stata introdotta durante il fascismo per permettere l’adempimento dell’obbligo in quelle località ove era assente la scuola media o l’avviamento professionale. Sebbene fosse stata dichiarata inadeguata, per via giuridica, all’adempimento dell’obbligo, la postelementare venne permessa in via sperimentale, diffondendosi in tale forma anche negli anni Cinquanta. Nel 1955, il Ministro della Pi Giuseppe Ermini estese, con circolare della Direzione generale dell’istruzione elementare l’istituzione della sesta, settima e ottava elementare a tutte le province, mentre, per inderogabili esigenze di bilancio, si impediva la costruzione di nuove scuole di avviamento. Alla postelementare si applicavano i programmi elementari emanati per decreto dallo stesso Ermini, mentre l’insegnamento sarebbe stato affidato ai maestri, il che inasprì la reazione, a carattere in parte

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Sin dal Comitato centrale del novembre ’55 il Pci si era proposto come obiettivo l’unificazione dei vari percorsi in un’unica scuola media, che fornisse a tutti i giovani, indiscriminatamente, la stessa base culturale. Secondo l’ampia relazione di Mario Alicata – di netta impronta gramsciana – la natura di classe della scuola del preadolescente si realizzava nella tendenza ad affidare i giovani delle classi popolari ad un sistema di addestramento professionale spesso inadeguato, abbandonato ad una selva di enti, aziende e istituzioni, esposto a vere e proprie speculazioni e privo di una guida formativa.291 L’«impronta sociale di classe» dell’avviamento si realizzava nella

«specializzazione minuta» che al giovane veniva così fornita «cristallizzando fin dall’inizio le sue attitudini e le sue capacità», quando occorreva «creare un unico tipo di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovinetto fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere e di controllare chi dirige». 292

La proposta di realizzare una scuola di base unica intercettava proposte e suggestioni simili emerse nell’Uciim cattolica già dai tempi della Settimana di Trento e del Fronte unito della scuola. Diversamente da quella cattolica, però, la proposta comunista si innestava su di una concezione del mondo laica e storicistica, intorno alla quale andavano organizzati i contenuti, ossia i programmi, fondati sulla sostituzione del latino con le scienze naturali e sulla valorizzazione del metodo storico. La «questione del latino»293, ossia la polemica sulla sostituibilità dello studio della lingua classica nei

corporativo, del «Fronte della scuola», composto dai soli professori delle scuole medie. Cfr. Antonio Banfi, A proposito della postelementare, «Riforma della scuola», I, 1955, n.1

291 Mario Alicata, La riforma della scuola, Roma, Editori Riuniti, 1956

292 Ivi, p.42. Il classismo nella scuola, secondo Gramsci era dovuto al fatto che «ogni gruppo sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato a perpetuare una determinata funzione tradizionale, direttiva o strumentale». Ibid.

293 La «questione del latino» aveva, secondo Alicata, ritardato lo sviluppo di una linea di riforma adeguata ai tempi. Essa, pur non riguardando solo il Pci, aveva caratterizzato il dibattito sviluppatosi durante il V Congresso del 1945, tra Concetto Marchesi, da un lato, favorevole al mantenimento del latino e Antonio Banfi, dall’altro, favorevole alla sua eliminazione dai programmi. Non vi era stata allora una netta presa di posizione all’interno del partito. Aveva contribuito al disorientamento il diffondersi del mito di un Gramsci «latinista», basato sull’idea – del tutto erronea – per cui il pensatore sardo avesse indicato nel latino l’insostituibile cardine di una formazione «disinteressata» del cittadino.

Tale mito era stato costruito dallo stesso Marchesi nel 1945, precisamente nel periodo precedente al V Congresso del Pci. Nel numero 9-10 di «Rinascita» Togliatti aveva fatto pubblicare uno stralcio dei Quaderni di Gramsci incentrato sulla critica alla riforma Gentile. L’articolo riportava un brano della nota 2 del Quaderno 12, in cui Gramsci annotava le virtù formative del latino nel contesto della scuola casatiana, «espressione di un modo tradizionale di vita intellettuale e morale, di un clima culturale diffuso in tutta la società italiana per antichissima tradizione». Gramsci notava come «il latino non si studia per imparare il latino», bensì come «elemento di un ideale programma scolastico», in quanto riassumeva in sé «una serie di esigenze pedagogiche e psicologiche»: (a) si presta ad essere dissezionato come un corpo storico; b) favorisce l'astrazione e il ritorno al particolare; c) obbliga alla distinzione e all’identificazione delle parole e dei concetti, all’utilizzo della logica formale, al riconoscimento della

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programmi della scuola media, era stata risolta dagli studiosi e dai pedagogisti dell’Istituto Gramsci recuperando a pieno il concetto di «nuovo principio pedagogico»

sviluppato da Gramsci nei Quaderni dal carcere. Nella sua relazione Mario Alicata distingueva tra «un umanesimo fossile retorico formalistico e quell’umanesimo vero, che, oltre che sulla conoscenza del mondo classico» non poteva non basarsi «su una visione scientifica (non scientista) della realtà naturale ed umana, sulla comprensione razionale dei fenomeni naturali e sociali, sull’acquisizione di una coscienza civica e nazionale democratica». Era l’idea di un «umanesimo moderno» che avrebbe dovuto

«presiedere alla riforma dei programmi e dei metodi di insegnamento, sia nella scuola dell’obbligo, sia in tutti gli altri gradi e ordini dell’ordinamento scolastico italiano».294 Altro elemento caratteristico della proposta comunista era l’unitarietà verticale tra scuola elementare e scuola media, entrambe concepite come un unico progetto formativo rivolto ai ragazzi dai 6 ai 14 anni, per cui occorreva intervenire tanto sui programmi295, quanto sulla preparazione degli insegnanti.296

contraddizione degli opposti ed all’analisi dei distinti; d) consente la percezione del movimento storico di una lingua nel suo insieme». In un articolo successivo di Concetto Marchesi, Motivi di politica scolastica, «Rinascita», II (1945), n.11, il celebre latinista riprendeva Gramsci per propugnare, in vista del Congresso, una media unica che prevedesse lo studio del latino. Così facendo Marchesi tradiva in parte il pensiero gramsciano, secondo il quale quello che era stato un formidabile strumento formativo delle classi dirigenti italiane – il latino – era entrato già da tempo in contraddizione con lo sviluppo storico della società italiana ed in particolare con il peso crescente nella vita nazionale che avrebbero dovuto avere le masse lavoratrici. Il giudizio che Gramsci ne dava nei Quaderni era implacabile:

mantenendo il latino come principio pedagogico «il governo fascista favorisce un processo di degenerazione: le scuole di tipo professionale prendono il sopravvento sulla scuola formativa». A suo avviso occorreva spezzare il dualismo tra una scuola «disinteressata» ad uso e consumo delle classi dominanti ed una scuola professionale per i lavoratori: per Gramsci «la tendenza democratica […] non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni ‘cittadino’ può diventare

‘governante’ e che la società lo pone, sia pure ‘astrattamente’, nelle condizioni generali di poterlo diventare». Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi, 1975, p.1547

294 Mario Alicata, La riforma della scuola, cit., p.45. Nella pratica, si proponeva un avvicinamento tra la scuola media e quella di avviamento, abolendo il latino e introducendo le scienze naturali nella scuola media; riducendo nell’avviamento gli orari dei programmi, sfrondando principalmente le materie professionali e le esercitazioni pratiche; determinando un nucleo fondamentale di insegnamenti comuni (lingua italiana, matematica, scienze naturali, storia e geografia, lingua straniera, educazione civica);

rendendo possibile il passaggio al secondo e terzo anno di entrambe le scuole, previo esame integrativo di latino – in un senso – e di scienze naturali – nell’altro; garantendo l’apertura ai licenziati dell’avviamento professionale delle scuole cui solo i licenziati di scuola media avevano fino ad allora avuto diritto di accesso. Ivi, p.79

295 Il Pci nel 1955 ingaggiò una battaglia serrata contro i cosiddetti «programmi Ermini» emanati per l’elementare (e la postelementare) nello stesso. Questi, pur richiedendo agli insegnanti l’utilizzo di metodi attivistici, secondo il Pci soffocavano tali proposte «in una generale concezione metafisica e misticheggiante», basata sul principio della religione quale «fondamento e coronamento della dottrina cristiana», a scapito di quel «bagaglio di nozioni, di dati di fatto, di conoscenze positive e scientifiche».

Mario Alicata, La riforma della scuola, cit., p.89. Cfr. anche l’articolo di critica di due importanti maestri e sindacalisti comunisti dello Snase, Renato Borelli e Fausto Malatesta, I nuovi programmi per la scuola elementare, «Riforma della scuola», I, 1955, n.2

296 L’impostazione attivistica dei programmi elementari era negata dalla stessa struttura della formazione professionale dei maestri, che avveniva nell’istituto magistrale, povero nell’impostazione

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L’occasione per la realizzazione pratica della riforma della scuola di base, si presentò nel settembre ’58, con la presentazione al Senato del Piano decennale di Fanfani e Moro. Il Piano, denso di lacune e privo di una visione organica della scuola, nel suo essere «una spesa senza riforma» offriva un importante spazio di manovra per un partito, come il Pci, che già da tempo possedeva una prospettiva di trasformazione della scuola dell’obbligo. Alicata, giocando d’anticipo sul governo democristiano, convocava dunque «con la massima urgenza» una riunione della Sottocommissione scuola, incaricando Natta di redigere una bozza di riforma della scuola di base, da tutti ritenuta quella più urgente da affrontare.297 La bozza venne rapidamente arricchita e presentata in Senato, dove giaceva il Piano decennale, il 21 gennaio 1959, primi firmatari Ambrogio Donini, Cesare Luporini e Paolo Fortunati298. Il ddl – il primo nella storia repubblicana a prevedere l’unificazione della scuola media – disponeva in quarantadue articoli la costituzione di una scuola unitaria di otto anni distinta in due

scientifica della professione, considerato un feudo della scuola confessionale e una brutta copia del liceo classico, essendovi prevalente, in forma dimidiata rispetto al primo, lo studio della filosofia sulla psicologia e la pedagogia. Alicata ne proponeva la riforma, tramite l’allungamento da quattro a cinque anni, il rafforzamento delle materie generali, l’attenzione alla pedagogia e alla psicologia «non solo sotto il profilo teorico, ma anche come didattica e metodica», e la previsione di un anno di tirocinio teorico pratico, al quale anche i docenti di scuola secondaria per i quali era prevista la preparazione universitaria avrebbero dovuto sottoporsi. Mario Alicata, La riforma della scuola, cit., pp.81-2. Nello stesso periodo Maria Venturini, maestra componente della Sezione pedagogica dell’Istituto Gramsci, proponeva di istituire un corso pre-universitario di due anni, successivo all’istituto magistrale, che prevedesse una partecipazione alla vita concreta della scuola. A questo andava aggiunto un anno di tirocinio, passato in parte negli istituti scolastici, in parte «nell’industria e nell’agricoltura, per evitare la frattura fra la scuola e il mondo economico e del lavoro, che è una delle più gravi iatture dell’ordinamento attuale» Ivi, pp.117-8. Nella redazione del programma elettorale del 1958 tuttavia, la Commissione culturale propose una formula più aderente alla relazione di Alicata, consistente nel solo anno di tirocinio dopo la frequenza di un liceo unitario a indirizzo pedagogico cfr. Proposte dei comunisti per una riforma democratica della scuola, cit., pp.27-8. Per i professori si prevedevano due soluzioni: la sostituzione degli Istituti superiori di magistero con differenti sezioni, o l’articolazione, all’interno delle facoltà universitarie, di corsi specifici a carattere professionalizzante e di un titolo di livello universitario corrispondente, cfr. Mario Alicata, La riforma della scuola, cit., pp.117-8

297 La riunione venne convocata per il 17 novembre 1958, ma la bozza di riforma venne consegnata da Natta solo il 23 novembre. Vedi Convocazione d’urgenza dei componenti della sottocommissione scuola del 17/11/58 in Afgr, Scuola e politica scolastica, Organismi nazionali, e Progetto di scuola obbligatoria fino al 14° anno del 23/11/1958 in Afgr, Scuola e politica scolastica, Organismi nazionali.

Il progetto originario, costituito da 14 articoli e da un allegato contenente la ripartizione oraria delle materie, delineava i tratti essenziali di una scuola gratuita, robusta nei sussidi alle famiglie disagiate e incentrata, nel piano di studi, sulle scienze, la storia e lo studio della lingua italiana. La paternità del progetto venne attribuita a Natta nel 1979, da Mario Alighiero Manacorda, durante una lezione di Storia della politica scolastica del Pci: «Alicata – ricorda Manacorda – mi ingiunse di redigere un progetto. Io ero ancora pieno dei testi di Marx, del lavoro che facemmo nel lavoro delle edizioni «Rinascita», ancora non mi ero reinserito nella scuola, dissi: «No, io non conosco la prassi parlamentare, io non ho in mente di cosa sia un progetto di legge, fallo fare a Natta». Infatti Alicata chiamò Natta e l’estensore del progetto primitivo è stato il compagno Natta». Vedi la Testimonianza di Mario Alighiero Manacorda in Afgr, Scuola e politica scolastica, Lezioni e corso sulla politica scolastica del Pci

298 Senato della Repubblica, Disegno di Legge (Istituzione della scuola obbligatoria statale dai 6 ai 14 anni), n.359, III Legislatura, 21 gennaio 1959

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corsi, uno elementare di cinque anni e uno medio di tre, ciascuno dei quali caratterizzato da un piano di studio fondato sul recupero del rapporto tra scuola e vita e aderente alle necessità formative degli studenti299. Nel ciclo medio inferiore la bocciatura era sostituita dalla creazione di classi di recupero. La bozza del progetto di legge si spingeva fino ad indicare minuziosamente i programmi delle singole discipline – secondo l’idea per cui la definizione dei contenuti formativi dovesse avere forza di legge e andasse quindi interamente affidata al Parlamento – organizzate intorno al concetto di «nuovo umanesimo», ossia sulla conoscenza razionale della natura e degli sforzi compiuti dall’uomo nel trasformarla (la ricerca scientifica) e sulla vicenda parallela dell’uomo organizzato in società (la storia). Tale riforma del «principio educativo» richiedeva la soppressione del latino come materia qualificante l’istruzione media, sostituito da uno studio più qualificato della lingua nazionale, messa in rapporto al dialetto locale e allo studio di una lingua straniera. E la realizzazione di una scuola assolutamente unica, tanto orizzontalmente che verticalmente, priva di opzioni predeterminanti le scelte di vita o di apprendimento successive. Come già detto, uno degli aspetti più importanti della riforma era la volontà di integrare più che selezionare, sostenendo lo sforzo delle famiglie meno abbienti con la gratuità dei sussidi didattici, borse di studio e altri tipi di aiuto, ma soprattutto attraverso la sostituzione dell’esame di licenza elementare, delle ripetenze e degli esami di riparazione con doposcuola, classi di recupero e classi differenziali, intese quali forme di recupero degli alunni in difficoltà.

Il progetto comunista contribuiva a polarizzare un dibattito che – per quanto confinato ad un ambito specialistico – già da tempo agitava le donne e gli uomini di scuola. Il fronte cattolico, fin dalla Settimana sociale di Trento, si era sommessamente diviso sulla questione dell’unicità della scuola media300. La polemica era poi divampata

299 Il primo ciclo del primo corso (I e II elementare) prevedeva la conoscenza dell’ambiente sociale e naturale che circonda il fanciullo, attraverso osservazioni guidate dal maestro, la lingua italiana, l’aritmetica e il gioco, disegno, lavoro e altre attività pratiche. Il secondo ciclo del primo corso (III, IV e V elementare) prevedeva lo studio della lingua italiana, dell’aritmetica, delle scienze fisiche e naturali, della storia e della geografia, del disegno, del canto e dell’educazione fisica. I programmi del II corso (scuola media) comprendevano lo studio della lingua e della letteratura italiana; la storia e la geografia;

la lingua straniera; la matematica; le scienze fisiche e naturali; il disegno; il canto e la musica;

l’educazione fisica, tutti minuziosamente descritti nel loro sviluppo dalla I alla III classe. Dai programmi erano state espunte le esercitazioni di lavoro, pure presenti all’interno della relazione di Alicata del 1955.

300 Del fronte riformatore facevano parte i dirigenti dell’Uciim, in particolare Gesualdo Nosengo, fortemente contrario ad incanalare vero una scuola senza sbocchi i figli dell’Italia rurale e più propenso ad una soluzione unitaria per la nuova scuola media. Nosengo riteneva che i cattolici, pur impegnandosi a rivendicare la libertà per la Chiesa di istituire proprie scuole, si dovessero spendere soprattutto

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nell’inverno 1955-56, quando il Ministro della Pi, il socialdemocratico Paolo Rossi, aveva disposto tramite circolare l’estensione della postelementare – affidata ai maestri – a tutte le province, scatenando così la reazione del Fronte della scuola – composto principalmente da professori. Le critiche piovute sulla postelementare avevano convinto il ministro ad istituire una commissione di studio sulla scuola del preadolescente, la quale nel settembre del 1956 si espresse nettamente per una scuola media a carattere unitario e non predeterminante per il successivo svolgimento degli studi, che implicava una netta marginalizzazione della postelementare, ridotta a soluzione temporanea301. La soluzione unitaria emergeva come realtà in altri paesi, dalla grundskola svedese di nove anni a cicli coordinati, alle varie declinazioni della

«scuola politecnica» dei paesi socialisti, alle classi «di orientamento» o «di osservazione» francesi, fino, alle modern secondary schools che nel Regno Unito si andavano affiancando alle strutture precedenti. Veniva così sospinta negli ambienti laici, in particolare dalla cosmopolita «Scuola e città», e diventava maggioritaria in Adsn (poi in Adesspi), venendo poi assunta nel 1958 nel programma del Psi302. Nel tentativo di attenuare le contraddizioni che anche nel mondo cattolico si andavano aprendo sul tema della scuola media, e incalzato dai comunisti, il ministro della Pi Giuseppe Medici si premurò di presentare un progetto governativo che rispondesse alle necessità di sviluppo della società e del sistema produttivo italiano, senza però scontentare i settori più conservatori. Il risultato fu l’ampia Introduzione al piano di sviluppo della scuola, la quale, pur assumendo la realtà economica come parametro dei mutamenti organizzativo gestionali della scuola e riflettendo le suggestioni della sociologia dell’educazione di stampo nordamericano, restava ancorata ad un’idea di scuola ricca di «canali di scarico», molto simile al disegno Gonella303. Non a caso sul

nell’animare la scuola statale sulla linea di quella «presenza cristiana» definita negli ambienti dei Laureati Cattolici fin dagli anni Trenta e nel cui ambito si era formato il primo nucleo dirigente dell'Uciim. Tra i conservatori c’erano il rettore dell’Università Cattolica Padre Agostino Gemelli, i pedagogisti rappresentanti del cattolicesimo gentiliano come Mario Casotti e soprattutto i dirigenti dell’Aimc, convinti che per garantire l’obbligo alla massa crescente di iscritti occorresse istituire la sesta, settima e ottava classe elementare affidandola alla cura dei maestri. Vedi Chiosso, I cattolici e la scuola, cit., p.159

301 Ivi, p.185. Nella Commissione Rossi, l’opzione unica era stata promossa da un fronte di carattere interideologico: oltre ai laici Lamberto Borghi e Guido Calogero, si espressero contro la postelementare il pedagogista cattolico Vincenzo Sinistrero e rappresentanti dei Centri didattici nazionali come Giovanni Gozzer, Aldo Agazzi e Camillo Tamborlini

301 Ivi, p.185. Nella Commissione Rossi, l’opzione unica era stata promossa da un fronte di carattere interideologico: oltre ai laici Lamberto Borghi e Guido Calogero, si espressero contro la postelementare il pedagogista cattolico Vincenzo Sinistrero e rappresentanti dei Centri didattici nazionali come Giovanni Gozzer, Aldo Agazzi e Camillo Tamborlini