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Il piano della discordia

Capitolo II. Incalzando la Democrazia Cristiana (1958-1962)

1. Il piano della discordia

Nella vasta produzione storiografica sulle politiche scolastiche italiane, il 22 luglio 1958 – giorno della presentazione del Piano Decennale della scuola al Consiglio dei Ministri– spicca per il suo valore periodizzante. Il ddl di finanziamento, presentato dal Aldo Moro, ministro dell’Istruzione del II Governo di Amintore Fanfani, con i suoi 1386 miliardi di lire di incremento dei fondi per scuola e università, invertiva in parte la rotta rispetto all’assenza progettuale che aveva caratterizzato i governi precedenti nel campo educativo e provava a dare risposte concrete alle carenze strutturali della scuola pubblica italiana, sulla quale premeva un’aumentata domanda di istruzione. Che fosse un ministero democristiano a incaricarsi di pianificare la crescita della scuola statale, dopo anni di provvedimenti particolaristici e di corto respiro, non era un fatto di poco conto: esso andava a incrinare l’immagine di una Dc interessata unicamente alle fortune della scuola privata confessionale, sfidando i laici sul loro stesso campo.

Il provvedimento interveniva in un quadro in cui i segnali della domanda di cambiamento si erano già da tempo manifestati a più livelli224. La coscienza della

224 Già all’inizio degli anni Cinquanta le inchieste parlamentari condotte dal socialdemocratico Roberto Tremelloni legavano miseria, disoccupazione e bassi livelli di istruzione generica e professionale, i cui livelli erano definiti «inverecondi». Secondo l’inchiesta l’84,9% delle forze di lavoro risultava sprovvisto di istruzione o in possesso appena dell’istruzione elementare; il 70% dei disoccupati erano manovali senza qualificazione alcuna e solo un operaio su dieci oltre i 40 anni era in possesso della licenza elementare. Vedi Giorgio Chiosso, I cattolici e la scuola dalla Costituente al centrosinistra, Brescia, La scuola, p.120. Nonostante l’incremento della quota di bilancio statale destinata alla scuola pubblica, realizzatosi durante gli anni Cinquanta (12% del 1958 contro il 9,7% del 1952), le strutture scolastiche erano ancora largamente insufficienti ad accogliere l’incremento di frequentanti. Nella media e nell’avviamento gli iscritti erano saliti dai 281.989 dell’anno scolastico 1954-6 ai 759.190 di dieci anni più tardi con un incremento di circa il 100% mentre nello stesso periodo negli istituti secondari di secondo grado si passava dai 288.269 ai 474.426 frequentanti (+65%) con una crescita percentualmente più significativa per gli indirizzi 759.190 di dieci anni più tardi con un incremento di circa il 100% mentre nello stesso periodo negli istituti secondari di secondo grado si passava dai 288.269 ai 474.426 frequentanti (+65%) con una crescita percentualmente più significativa per gli indirizzi di tipo tecnico e professionale. Di fronte a questa esplosione di iscritti l’aumento delle aule, che pure v’era stato, mostrava ancora carenze in notevoli proporzioni, stimate nel 41% rispetto al fabbisogno delle scuole elementari, nel 40% a livello di scuole secondarie inferiori, nel 28,6% e nel 17,5% rispettivamente per i tecnici e le scuole dell’istruzione classica cfr. Per l’analisi delle questioni edilizie pp.8-19 della relazione di Pedrazzi al IV convegno amici e collaboratori del Mulino (Bologna 29-30 novembre 1958) in Luigi Pedrazzi (a cura di), Iniziative di governo e problemi della scuola secondaria, Bologna, Il Mulino, 1958. I maestri erano passati da 122mila del 1945 a 180mila con un incremento del 47,3%, mentre gli insegnanti secondari erano diventati nel 1955 oltre 77mila, ma si trattava per la maggioranza di personale non di ruolo, assunto senza concorso, e spesso addirittura sprovvisto dell’abilitazione all’insegnamento, cfr. Luigi Ambrosoli, La scuola in Italia dal dopoguerra ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1982, p.154. Per le cifre riguardanti i professori e Giovanni Gozzer, Sviluppo della scuola e piano decennale, Roma, Uciim,1959, pp.52-65 per quanto riguarda i maestri.

In termini di output l’evasione dell’obbligo – pur avendo ricevuto, come anche l’analfabetismo, un

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vastità delle discriminazioni e la necessità di superarle intervenendo in maniera strutturale sugli ordinamenti e sui contenuti della scuola pubblica italiana, anche grazie – come si è visto – ai segnali provenienti dall’estero, andava inoltre manifestandosi in strati sempre più larghi dell’intellettualità italiana, determinando l’emergere di quella che Giorgio Chiosso ha definito la «cultura della riforma»225. Tra i cattolici, a partire dalla Settimana sociale di Trento dell’autunno del 1955, si era timidamente manifestato un dissidio tra riformatori e conservatori intorno ai due temi della postelementare e della scuola statale, emerso poi in forma pubblica nel corso del conflitto sindacale del 1955-6.226 Influiva inoltre il favore internazionale di cui andava

drastico ridimensionamento – si aggirava intorno a cifre ancora elevate. Nella scuola elementare le stime della rispettiva Direzione generale indicavano in 30-40.000 unità annue (e cioè tra il 4% e il 5%) gli evasori totali, mentre nelle scuole dagli 11 ai 14 anni frequentava il 60% della rispettiva coorte d’età, anche se il 29% di questi erano in ritardo con gli studi. Un’immagine, questa, che contrastava col netto avanzamento del tasso di passaggio al primo anno delle scuole secondarie superiori, salito al 31%, e che rappresentava al tempo stesso la fragilità della scolarità di base e la tendenza all’affollamento dei livelli di scolarità più elevati, specchio a sua volta di uno scarso assorbimento della manodopera qualificata nel tessuto produttivo. Anche nella stessa fetta di scolarizzati sussistevano situazioni di profonda disparità: le migrazioni verso il Nord del paese e il processo di industrializzazione – in atto nella seconda metà degli anni Cinquanta anche in alcune zone del Sud –, facevano sì che le scuole di avviamento registrassero un notevole incremento tra gli iscritti, tanto da superare nel complesso la popolazione della scuola media: nell’anno scolastico 1960-1 la distribuzione dei frequentanti la scuola preadolescente era la seguente: 45,7% media (684.377), 48,9% avviamento (730.800 unità), 5,4% postelementare (79.996 unità). Vedi Giorgio Chiosso, I cattolici e la scuola, cit., p161. Nonostante questa crescita, era evidente la «vocazione umanistica» dello Stato che, mentre spendeva oltre 64mila lire all’anno per ogni alunno di scuola media, ne destinava soltanto 43mila per ciascun iscritto all’avviamento al lavoro. Anche nell’istruzione secondaria di secondo grado, la maggior cura riservata ai corsi liceali rispetto alle corrispondenti scuole tecniche e professionali era documentata, tra l’altro, dalle vistose differenze in ordine alla condizione giuridica degli insegnanti: infatti se nell’area classica i docenti di ruolo si aggiravano complessivamente intorno al 50%, negli istituti medi superiori tecnici e professionali la presenza del personale di ruolo risultava appena del 33% per i primi e del 26% per i secondi. cfr. U.A.

Grimaldi, Aspirazioni sbagliate nella scuola italiana, in «Il Mercurio», n.115, 1956

225 Giorgio Chiosso, I cattolici e la scuola, cit., p.175

226 Del fronte riformatore facevano parte i dirigenti dell’Uciim, in particolare Gesualdo Nosengo, fortemente contrario ad incanalare vero una scuola senza sbocchi i figli dell’Italia rurale e più propenso ad una soluzione unitaria per la nuova scuola media. Nosengo riteneva che i cattolici, pur impegnandosi a rivendicare la libertà per la Chiesa di istituire proprie scuole, si dovessero spendere soprattutto nell’animare la scuola statale sulla linea di quella «presenza cristiana» definita negli ambienti dei Laureati Cattolici fin dagli anni Trenta e nel cui ambito si era formato il primo nucleo dirigente dell'Uciim. Sul lato opposto stavano, il rettore dell’Università Cattolica Padre Agostino Gemelli, i pedagogisti rappresentanti del cattolicesimo gentiliano come Mario Casotti e soprattutto i dirigenti dell’Aimc, convinti che per garantire l’obbligo alla massa crescente di iscritti occorresse istituire la sesta, settima e ottava classe elementare affidandola alla cura dei maestri. Vedi Giorgio Chiosso, I cattolici e la scuola, p.159. Le posizioni rinnovatrici presenti nell’Uciim furono amplificate dal Fronte della scuola, composto principalmente da professori delle scuole secondarie, che si era mobilitato nella primavera del 1955 sui problemi dello stato giuridico e che nell’inverno dello stesso anno si era scagliato contro la decisione dell’allora ministro della Pi, il socialdemocratico Paolo Rossi, di estendere la postelementare a tutte le province tramite circolare. Le critiche piovute sulla postelementare convinsero il ministro ad istituire una commissione di studio sulla scuola del preadolescente, la quale nel settembre 1956 produsse, dopo 5 mesi di lavoro, una netta bocciatura della postelementare – ridotta, in posizione marginale, a soluzione temporanea – ed una preferenza per una scuola media a carattere unitario e non predeterminante per il successivo svolgimento degli studi. Era quello un risultato importante che evidenziava l’esistenza di un fronte riformatore a carattere inter-ideologico: oltre ai laici Lamberto

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godendo l’apertura dei sistemi scolastici, specialmente in quei settori intellettuali addentellati all’industria pubblica e privata italiana e fortemente influenzati dai modelli keynesiani. Questa tecnocrazia, alla cui formazione culturale in molti casi avevano concorso le grandi fondazioni culturali statunitensi227, puntava a risolvere il problema dello sviluppo economico italiano nella produzione di quadri dirigenti ed intermedi in grado di guidare e sorreggere con le competenze tecniche le trasformazioni produttive in essere228.

Borghi e Guido Calogero, si espressero contro la postelementare il pedagogista cattolico Vincenzo Sinistrero e rappresentanti dei Centri didattici nazionali come Giovanni Gozzer, Aldo Agazzi e Camillo Tamborlini. Vedi Giorgio Chiosso, I cattolici e la scuola, cit., p.185

227 Non va sottovalutata in questo senso l’influenza diretta delle grandi fondazioni culturali statunitensi (Carnegie, Rockfeller, Ford), e delle rappresentanze diplomatiche degli USA, che sceglievano spesso i loro interlocutori all'interno degli istituti di formazione e ricerca, stimolando la partecipazione degli studiosi italiani ai programmi di collaborazione transatlantica. Le collaborazioni – spesso a doppia valenza, culturale e diplomatica – pur rivolte alla formazione di quadri intellettuali di sicura fede atlantista, ebbero l’effetto non secondario di stimolare negli ambienti accademici una domanda di riforma dei sistemi formativi verso il modello americano. Fu infatti attraverso la cultura di tipo economico e tecnico espressa da istituzioni quali l’Iri, la Svimez e il Censis (per il mondo cattolico), o dai centri studi coinvolti nei programmi americani come «il Mulino» o le «Edizioni di Comunità», che giunse a manifestarsi la penetrazione delle forme di organizzazione scientifica e culturale statunitense all’interno del dibattito italiano. Per una ricognizione di lungo periodo sull’ingresso del modello accademico americano in Italia cfr. Andrea Mariuzzo, Mito e realtà d’oltreoceano. L’Italia e il modello accademico americano nel Novecento, «Memoria e ricerca», aprile 2015. Sulla strategia generale di penetrazione culturale statunitense negli ambiti scientifico-accademici cfr. John Krige, American hegemony and the Postwar Reconstruction of Science in Europe, Mit Press, Cambridge (Ma,), 2016, mentre per quanto riguarda la città di Bologna, sede del gruppo de «il Mulino» e della succursale della Johns Hopkins University cfr. Frédéric Attal, Le modèle universitarie américain en Europe dans l’après-guerre: le cas de l’Italie, in Les universités en Europe du XIIIe siècle à nos jours, sous la direction de F. Attal, J. Garrigues, T. Kouamé, J.-P. Vittu, Paris, Sorbonne, 2005, pp.225-236.

228 Il risultato più influente di quella cultura furono due studi, commissionati nel 1959 dal Ministro della Pi, Giuseppe Medici all’Associazione per lo Sviluppo Dell’Industria nel Mezzogiorno (Svimez), sul fabbisogno di manodopera qualificata nella produzione di merci e di servizi. Svimez, Mutamenti della struttura professionale e ruolo della scuola: previsioni per il prossimo quindicennio, Giuffré, Roma, 1961 e Id., Trasformazioni sociali e culturali in Italia e loro riflessi sulla scuola, Svimez, Roma, 1962. Gli studi furono redatti su incarico del Ministero della Pi nell’ambito di un programma promosso dall’Ocse. Se ne occupò una commissione composita: ci furono, oltre a Giovanni Gozzer, l’ingegnere Gino Levi Martinoli, ex manager della Olivetti e fratello di Natalia Ginzburg, Giuseppe De Rita e Pietro Longo, che nel 1964 fondano il Centro studi di investimenti sociali (Censis), gli statistici Gastone Miconi, Mario Milano, Tommaso Salvemini e Isidoro Franco Mariani. Il risultato fu una previsione abnorme: a fronte di una crescita economica sostenuta del 4,5% annuo e di un aumento complessivo dell’occupazione del 14% (concentrata esclusivamente nell’industria e nei servizi), l’indagine prescriveva un aumento del 140% dei quadri superiori, del 127% dei quadri intermedi, del 120% dei capi subalterni e del personale qualificato, e una diminuzione corrispondente (-56%) dei lavoratori generici. Poiché i dirigenti e i quadri intermedi dovevano essere provvisti di una laurea o di un diploma di scuola secondaria superiore, ne derivava che, nel quindicennio 1960-1975, l’Italia avrebbe dovuto disporre di 3.500.000 diplomati e laureati in più. Cfr. Luigi Ambrosoli, La scuola in Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., p.94-95. La previsione dello SVIMEZ si rivelò in seguito completamente infondata. Secondo Marzio Barbagli, si trattò di un errore di percezione dovuto ai seguenti fattori: a) il periodo '51-'61 fu il primo dalla fine dell'800 in cui si era riusciti a riassorbire per lo meno la disoccupazione dei laureati; b) in molti paesi d'Europa si viveva un'effettiva penuria di forza lavoro intellettuale, per cui la classe dirigente italiana era stata influenzata su questo tema dagli organi dell'OECE; c) la particolare euforia con cui fu vissuto il miracolo economico; d) l'ideologia dello SVIMEZ, che metteva in risalto come l'istruzione per tutti fosse non solo giusta ma economicamente conveniente, fu fatta propria dai gruppi politici della sinistra ai fini di ridurre il carattere discriminatorio

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Il Piano Decennale godeva dunque di riflesso del clima intellettuale di cambiamento che procedeva dallo stesso mondo cattolico229 e che avrebbe avuto ulteriore sviluppo nel principio della programmazione scolastica sancito dalla legge stralcio 1073 del 24 luglio 1962. Una parte della storiografia230, muovendo principalmente da documenti di fonte ministeriale, ha però legato in un rapporto di co-implicazione troppo diretto il Piano del 1958 alla successiva stagione della programmazione scolastica e delle riforme, senza considerare le reticenze del provvedimento, specchio a loro volta della solidità di quelle forze sociali e politiche in grado di porre un freno alla democratizzazione delle strutture sociali del Paese, né tantomeno le caratteristiche della cultura del partito di governo, quella cattolica, più incline alla continuità che alla rottura.

Se infatti non va taciuto il carattere di novità del Piano, esso tuttavia presentava grosse lacune nello sforzo di bilancio, nei finanziamenti occulti agli istituti privati e nell’assenza di un’organica riforma della scuola che ne orientasse le direzioni di spesa.231 Quell’ambiguità era il riflesso più generale del clima politico segnato da trasformazioni economiche e sociali profonde, che conferivano al vecchio schema politico centrista una latente instabilità, dalla quale la Dc poteva uscire o lasciandosi tentare da soluzioni autoritarie, o allargando la base sociale della maggioranza parlamentare verso la sinistra e dunque verso quella larga fetta delle classi popolari da questa organizzata. Dopo le elezioni del maggio 1958, segnate dal crollo delle destre e dalla crescita di Dc e Psi, il nuovo Governo guidato da Amintore Fanfani sembrava indirizzato verso la seconda strada, essendosi presentato con un programma dal carattere più riformista rispetto a quelli dei governi precedenti. L’accordo di governo siglato con i socialdemocratici preludeva – almeno nelle intenzioni del capo del governo e segretario della DC – ad un’apertura a sinistra nei confronti dei socialisti, per i quali il «patto d’azione» con il Pci si era risolto in un semplice «patto di consultazione» dopo i fatti d’Ungheria.

del sistema scolastico italiano. Vedi Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia (1859-1973), Bologna, Il mulino, 1976, pp.305-351.

229 Redattore materiale del Piano fu Giovanni Gozzer, messo a capo dell’Ufficio studi e programmazione della Pubblica amministrazione, cattolico dall’approccio laico, cosmopolita e manageriale alle questioni scolastiche

230 Mi riferisco in particolare alle interpretazioni di Daria Gabusi, La svolta democratica nell'istruzione, cit. e di Angelo Bianchi, Luciano Pazzaglia e Roberto Sani, Scuola e società nell'Italia unita, cit.

231 Così secondo l’analisi di Tristano Codignola, Nascita e morte di un piano: tre anni di battaglia per la scuola pubblica, Firenze, La Nuova Italia, 1962, p.69, e secondo i fabbisogni dettati dallo Svimez.

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Le intenzioni di apertura a sinistra di Fanfani, con le quali anche il Ministro della Pi Aldo Moro era concorde, dovevano però contemperarsi con l’esistenza di un fronte apertamente contrario, che si alimentava del veto dei vescovi232, dell’indisponibilità americana – che non cambiò affatto nell’immediato con il passaggio della presidenza al democratico John F. Kennedy –233 e dell’ostilità manifesta degli industriali italiani nei confronti di qualsiasi apertura che amplificasse l’attivismo fanfaniano in campo economico.234 Il tentativo di Fanfani venne così rigettato non solo dalle sinistre, che ne consideravano il programma ancora fortemente influenzato dalla «destra economica»235, ma anche e soprattutto da quella parte della Dc che rischiava di perdere peso nella vita del partito. Il riformismo di governo fanfaniano si era infatti sviluppato parallelamente al tentativo di trasformare la Dc in un moderno partito di massa sotto la guida di Fanfani stesso, innescando la reazione degli elementi contrari al suo disegno. La reazione interna alla Dc si manifestò con la nascita di una nuova corrente, quella dei dorotei, e le dimissioni nel gennaio 1959 dello stesso Fanfani da presidente del Consiglio e da segretario del partito. L’evoluzione del partito cattolico da partito di notabili a partito di massa, sfociava nella forma di una grande organizzazione fondata sull’equilibrio tra correnti, concepite non su base ideologica, bensì come strumento di mobilitazione di un consenso ramificato di tipo clientelare.236

Se nell’immediato il Pci assunse nei confronti del Governo Fanfani un atteggiamento ostile237, negli organismi direttivi ci si interrogava sul comportamento da tenere di fronte all’apertura a sinistra della Dc, cui i risultati elettorali fornivano un carattere di ineluttabilità. In una riunione della Direzione del partito, nel settembre 1958, Gian Carlo Pajetta tracciava un programma di riforme improrogabili che avrebbe dovuto costituire il prezzo della collaborazione del Pci – a partire dalla non opposizione – con un governo di centro-sinistra: la creazione di una legislazione posta a tutela degli operai, l'istituzione delle regioni, la nazionalizzazione dei monopoli, un

232 Piero Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Torino, Utet, p.48. Cfr. anche Augusto D'Angelo, Moro, i vescovi e l'apertura a sinistra, Roma, Studium, 2005

233 Francesco Bello, Fabio Luca Cavazza e il veto americano nella formazione del centrosinistra italiano, «Il Mulino», n.2, agosto 2015, p.193

234 Piero Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, cit., pp.140-44. Fanfani nel 1956 aveva creato il Ministero delle Partecipazioni Statali e sottratto alla Confindustria il controllo delle aziende Iri, che passavano dal 1 gennaio 1958 sotto controllo ministeriale.

235 Luigi Pintor, Il programma di governo liquida le riforme di struttura, «L’Unità», 28 giugno 1958

236 Luigi Musella, Formazione ed espansione dei partiti, in Storia dell'Italia Repubblicana, vol.2, Torino, Einaudi, 1995, p.179

237 Pintor, Il programma di governo liquida le riforme di struttura, cit.

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piano economico che desse garanzie e risposte precise, l'elaborazione di una legislazione sanitaria e assistenziale confacente alle esigenze del momento e la riforma del sistema scolastico238. Tale posizione, che andò maturando tra i dirigenti del Pci fino ad essere assunta all’inizio del 1960 quale linea ufficiale del IX Congresso, tendeva a distinguere il blocco rappresentato dalla Dc tra settori conservatori e quelle

«forze cattoliche progressive», che – ad essi uniti da un artificiale «interclassismo» – vedevano però «la necessità delle riforme da noi proposte e si decidono ad agire per attuarle»239.

La necessità di stabilire il contatto con le forze cattoliche era andata maturando già dal 1955 tra i dirigenti del partito che più si occupavano di scuola, un settore che più di altri esponeva il Pci al contatto con «gruppi sociali non proletari», gli insegnanti, nei cui sindacati e nelle cui associazioni professionali l’egemonia cattolica si intrecciava con un alto grado di corporativismo. Si può collocare a cavallo di quell’anno l’abbandono di un posizionamento fondato unicamente sull’anticlericalismo, che lasciava il posto alla ricerca di proposte concrete sulle quali fondare l’unità con quelle «forze cattoliche progressive» presenti nella scuola. Se la critica alla Settimana sociale di Trento era stata di carattere puramente anticonfessionale240, il Comitato Centrale del novembre 1955 aveva individuato nelle

238 Massimiliano Marzillo, L'opposizione bloccata. Pci e centro-sinistra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, p.24

239 Togliatti, in occasione del IX Congresso del gennaio 1960, promosse la costituzione di una

«nuova maggioranza democratica» nel paese, che, rompendo con il centrismo, comprendesse in una coalizione di governo quella parte della DC disposta a portare avanti le «riforme di struttura». La proposta era in primo luogo rivolta alle forze cattoliche, con le quali il Pci si dichiarava disposto a una collaborazione anche indiretta, purché venissero a cadere «quelle barriere artificialmente erette per la guerra fredda», ossia l’esclusione dei comunisti dalla maggioranza di governo. Mentre verso i socialisti si manteneva aperta la polemica sulla necessità di non rompere l’unità di classe, sviluppando insieme

«nuova maggioranza democratica» nel paese, che, rompendo con il centrismo, comprendesse in una coalizione di governo quella parte della DC disposta a portare avanti le «riforme di struttura». La proposta era in primo luogo rivolta alle forze cattoliche, con le quali il Pci si dichiarava disposto a una collaborazione anche indiretta, purché venissero a cadere «quelle barriere artificialmente erette per la guerra fredda», ossia l’esclusione dei comunisti dalla maggioranza di governo. Mentre verso i socialisti si manteneva aperta la polemica sulla necessità di non rompere l’unità di classe, sviluppando insieme