• Non ci sono risultati.

Pedagogia e politica tra Dewey e Gramsci

Capitolo II. Incalzando la Democrazia Cristiana (1958-1962)

3. Pedagogia e politica tra Dewey e Gramsci

337 Intervento di Cesare Luporini, in Afgr, Scuola e politica scolastica, Corsi e lezioni di storia della politica scolastica del Pci

338 Tristano Codignola, La guerra dei trent’anni, cit., p.147

339 Oltre a quella di Luporini, il fascicolo contiene una relazione introduttiva di Giorgio Bini e le testimonianze di Sotgiu, Manacorda, Zappa, Sciorilli Borrelli e Marino Raicich. Vedi le Lezioni sulla

"scuola unica" in Afgr, Fondo scuola e politica scolastica, Corsi e lezioni di storia della politica scolastica del Pci

122

Per quanto limitate le esperienze del Pci con l’innovazione pedagogica erano già esistite nell’immediatezza del Dopoguerra. I Convitti scuola della Rinascita, pur autonomi dal Pci, furono il frutto dell’iniziativa diretta di militanti comunisti e godettero del pieno appoggio del partito. Essi nascevano nel clima di rinnovamento della Liberazione: erano frequentati principalmente da ex partigiani, a stretto contatto con i bisogni culturali, formativi e materiali della ricostruzione economica, ed applicavano tecniche di apprendimento esplicitamente in contrasto con il nozionismo e l’autoritarismo considerati tratti caratteristici dell’epoca fascista. Pur in assenza di una coerenza con la politica scolastica del partito – che stentava allora a definirsi – vi si praticavano i metodi attivistici più noti, il manuale era sostituito da dispense, giornali e attività pratiche, si procedeva all’autogoverno della classe – a volte eccedendo in moralismo e in scarsa attenzione agli effetti traumatici della guerra sulla personalità degli studenti. 340

Quell’esperienza, in cui pure trovarono motivazione e ragioni alcuni dei futuri pedagogisti e uomini di scuola del partito – da Antonio Banfi a Mario Alighiero Manacorda341 –, si spense rapidamente tra il ’47 e il ’55 nel clima della guerra fredda, prima di fornire elementi e stimoli sufficienti ad una ricerca pedagogica autonoma tra gli intellettuali del partito e soprattutto prima di fornire materiale all’elaborazione della sua politica scolastica. Nel clima di restaurazione vissuto nei primi anni Cinquanta, e nell’arretramento culturale imposto dalla guerra fredda e dallo zdanovismo, ai partiti comunisti non restava che guardare fuori dai confini nazionali, verso Est. Per il Pci in particolare, divenne un riferimento importante il maestro sovietico Anton Semenovyč Makarenko, la cui esperienza empirica, sorta nelle difficoltà della guerra civile russa e tutta incentrata sull’importanza della comunità scolastica e dell’autodisciplina del

340 Mario Alighiero Manacorda, che era stato insegnate nel Convitto romano, ricorda di un clima di fermento educativo, in cui però si teneva poco conto della fragilità di ragazzi che avevano sofferto traumi di guerra, fin troppo basato sulla esaltazione della moralità e inflessibilità comuniste in luogo di una educazione alle emozioni ed ai sentimenti. Nei Convitti era entrato il costume dell’autocritica e della critica – spesso molto dura – introdotto dal Pci aveva istituito nelle proprie scuole di partito, e che gli ex partigiani usavano verso i propri compagni che trasgredivano le regole. Cfr. Vedi Fabio Pruneri, The Convitti Scuola della Rinascita, cit. Mario Spinella, primo vice-direttore di «Riforma della scuola»

e responsabile delle scuole di partito, nel 1956, dopo averlo inizialmente esaltato come elemento purificatore «dalle scorie dell’individualismo», avrebbe criticato il metodo della critica e dell’autocritica giudicando «nociva e controproducente ogni concessione ad una astratta e formale teoria della formazione del carattere», perorando dunque la necessità di ridurre lo spazio dedicato alle esternazioni personali cfr. Mario Spinella, Progressi e limiti delle nostre scuole centrali, «Rinascita», XIII (1956), n.7, p.391 cit. in Anna Tonelli, A scuola di politica, cit., p.72

341 Mario Alighiero Manacorda, tra i principali pedagogisti del Pci, fu insegnante nel convitto romano, dove raccolse novanta ragazzini tra i sedici e i venticinque anni. Prima di allora non si era minimamente interessato alla pedagogia. Fabio Pruneri, The Convitti Scuola della Rinascita, cit., p.196

123

collettivo, venne diffusa dalle riviste e dalle case editrici di partito, spesso in polemica con il «puerocentrismo» e lo «spontaneismo» della pedagogia attivistica.342

L’enfasi posta sulla pedagogia di Makarenko, valorizzata in un importante convegno dell’Associazione di Amicizia Italia Urss tenutosi nel 1951 a Siena343, derivava dal fatto che la sua esperienza e ipotesi di lavoro aveva acquisito un significato che andava ben oltre il contesto concreto in cui era nata e si era sviluppata.

Makarenko svolgeva infatti il ruolo di contraltare positivo nella polemica – molto politica e poco pedagogica – che il Pci mosse contro quelle ipotesi di rinnovamento pedagogico e scolastico che attingevano principalmente all’attivismo di John Dewey.

Secondo la critica di Mario Casagrande, le innovazioni nelle strutture materiali, nei metodi di insegnamento e nel rapporto con i contenuti indicate come necessarie dal filosofo e pedagogista statunitense per la costruzione di una scuola democratica, perdevano valore nel momento in cui Dewey non indicava come indispensabile per il rinnovamento scolastico la lotta di classe, intesa da Casagrande principalmente come lotta per il miglioramento delle condizioni materiali delle classi popolari e come rovesciamento della società capitalistica. A questa «politica dei due tempi» descritta da Casagrande si attagliava perfettamente la figura di Makarenko, la cui pedagogia e i cui risultati erano legati a doppio filo con il tema della transizione al socialismo, in cui l’educazione avrebbe dovuto svolgere un ruolo fondamentale.344

Date queste premesse, il rapporto tra il Pci e le nuove culture pedagogiche che andavano stentatamente creandosi un pubblico nei primi anni Cinquanta, finiva per essere ostacolato dalla politica generale del partito e del più generale dibattito

342 Makarenko (1888-1939), si formò come pedagogista durante la guerra civile russa del 1917-21, dedicandosi al recupero di ragazzi abbandonati e delinquenti minorenni. Le sue opere furono pubblicate dalle case editrici vicine al Pci. Nei primi anni Cinquanta uscirono in Italia Consigli ai genitori. L'educazione del bambino nella famiglia sovietica, a cura di G. Berti, Roma, Associazione Italia-URSS, 1950; il Poema Pedagogico, Roma, Rinascita, 1952 e Bandiere sulle torri, 2 voll., Ed. di Cultura Sociale, 1955. In una sua testimonianza successiva, Manacorda ha descritto l’accoglimento che la lettura di Makarenko suscitò tra i marxisti: «noi vi leggemmo di difficoltà ed incertezze più gravi delle nostre, vi imparammo a parlare di democrazia scolastica, del collettivo, dell'unione di istruzione e lavoro produttivo, e, soprattutto delle prospettive di gioia, prima individuali, poi collettive, poi di un popolo, poi di tutta l'umanità, come principio indispensabile di ogni vera educazione. E in particolare vi trovammo confermata la nostra diffidenza verso un attivismo puerocentrico eccessivamente individualistico, [...] quale ci pareva di trovare proposto qui in Italia dai nostro amici laici, e, con profonda ambiguità, dai cattolici eredi di una tradizione millenaria che nella fanciullezza aveva visto, anziché la spontaneità creativa, una lasciva aetas da controllare e reprimere», Mario Alighiero Manacorda, Il marxismo e l’educazione, in AAVV, La pedagogia italiana nel secondo dopoguerra. Atti del convegno in onore di Lamberto Borghi. Università di Firenze. Facoltà di Magistero. 8-9 ottobre 1986, Firenze, Le Monnier, 1987, p.72

343 AAVV, Scuola e pedagogia nell'URSS, Atti del Convegno di studi sulla scuola e la pedagogia sovietica, Siena, 8-9 dicembre 1951, a cura dell'Associazione Italia-Urss

344 Mario Casagrande, Scuola, società, democrazia, in «Società», III, 2s, 1949, p.622

124

culturale, sulle quali gravava la visione del mondo diviso in blocchi e la sottovalutazione della questione scolastica, vista come un «problema del dopo». La fondazione nel 1950 di una nuova rivista, «Scuola e città», punto di riferimento per intellettuali, pedagogisti e insegnanti laici di area liberale, ma anche libertaria e socialista, venne accolta freddamente da Lucio Lombardo Radice, che su «La voce della scuola» ne sottolineava il «democraticismo abbastanza vago» e un impegno troppo tiepido contro le forze clericali impegnate in un progressivo allargamento del loro potere all’interno della scuola statale345. Lo scambio successivo generatosi tra Lombardo Radice ed Ernesto Codignola, in cui quest’ultimo, liberale, idealista ed ex collaboratore di Gentile, accusava i comunisti di estremismo e di «servirsi dell’infanzia come di un pretesto polemico», non aiutò alla formazione di un rapporto tra il Pci e il gruppo dei collaboratori di Codignola, che da Lamberto Borghi, a Aldo Visalberghi, da Raffaele Laporta a Antonio Santoni Rugiu, da Francesco De Bartolomeis a Tina Tomasi, era mosso nella sua ricerca scientifica da una volontà di trasformazione dell’esistente viva e sentita.346

Ad allentare le distanze tra chi nella Commissione culturale del partito si occupava di scuola, e l’attivismo pedagogico italiano, intervennero rilevanti novità sul piano politico nazionale e internazionale. Mentre la morte di Stalin, l’affievolirsi dello zdanovismo e l’introduzione, da parte di Togliatti, delle opere di Gramsci all’interno della cultura italiana, andavano favorendo lo sviluppo di una riflessione pedagogica più attenta alle sovrastrutture e alla scuola nazionale come terreno di conflitto, l’ideazione della battaglia contro la «legge truffa», consentì al Pci di riallacciare un rapporto con l’area politica liberalsocialista e liberaldemocratica che, rifiutando il centrismo degasperiano, aveva permesso di vincere quella importante battaglia. Come si è visto, l’introduzione degli scritti di Antonio Gramsci consentiva al Pci di passare da una strategia politica incentrata sull’anticlericalismo e sulle urgenze materiali della scuola – dunque difensiva e frammentaria – alla costruzione di una propria visione pedagogica e di riforma generale.

345 Lucio Lombardo Radice, Recensione a «Scuola e città», «La voce della scuola», I, n.s., 15 novembre 1950, p.3

346 Ernesto Codignola rispose tramite la sua rivista all’articolo di Lucio Lombardo Radice.

Lombardo Radice rispose dapprima con una Lettera al direttore, in «Scuola e città», II (1951), n.4, poi con un lungo articolo polemico, Scuola e città (o della provincia pedagogica), apparso in «Società», VI (1950), n.4. L’intero scambio è stato ricostruito in Enzo Catarsi, «Società» e la «Provincia pedagogica», in Enzo Catarsi, Nando Filograsso e Angela Giallolongo (a cura di), Educazione e pedagogia in Italia nell’età della guerra fredda: 1948-1989, Trieste, Edizioni Goliardiche, 1999, pp.187-200

125

Accadeva però che anche nel campo scolastico, in linea con quanto era avvenuto nella lunga vicenda della pubblicazione dei Quaderni dal carcere347 la lettura del Gramsci pedagogico fosse parziale, ossia orientata all’ottenimento di obiettivi politici immediati. La necessità di scindere, nello schieramento laico, tra chi si opponeva realmente alla Dc e chi invece – come i liberali – vi scendeva volentieri a patti, e il bisogno urgente per il Pci di legarsi ad una categoria docente tradizionalista, spinsero Mario Alicata a favorire una lettura di Gramsci tutta fondata sulla sua ipotesi di riforma delle strutture scolastiche e sulla necessità di riallacciare la cultura alla vita restituendo centralità ai programmi, da rinnovare introducendovi più storia e più scienza. Pur sottolineando l’importanza per il Pci delle innovazioni dei metodi didattici introdotte dall’attivismo348, dal 1955 in avanti l’attenzione del Pci e della Sezione pedagogica dell’Istituto Gramsci fu infatti rivolta principalmente, oltre che in direzione dell’unicità della scuola dell’obbligo, al rinnovamento dei contenuti culturali e quindi dei programmi scolastici, mentre poca o nulla era l’attenzione dedicata ai metodi di insegnamento o a temi, pur presenti in Gramsci, come l’educazione permanente o un rapporto tra scuola e lavoro adatto ad una società non più statica, bensì imperniata sull’«industrialismo» e basata sul lavoro salariato.349 Molta enfasi, infine, ricevette la

347 Per questo aspetto vedi Guido Liguori, Gramsci conteso, cit., pp.89-96

348 «noi dobbiamo salutare e seguire con interesse tutti i tentativi, da qualunque parte vengano, che tendano a portare un rinnovamento in questi metodi e in queste tecniche. A questo proposito, anzi, se mi permettete una parentesi, vorrei cogliere quest'occasione per mandare un saluto e per richiamare l'attenzione del partito sull'opera silenziosa che da taluni anni il compagno Tamagnini e un gruppo di altri maestri elementari, quasi nel nostro più completo disinteresse, vanno compiendo per introdurre nella scuola elementare italiana dei sistemi di insegnamento più moderni partendo dal cosiddetto sistema delle tecniche Frenet (sic!), sul quale la discussione può essere aperta, ma la cui importanza, almeno come tentativo, non può essere misconosciuta». Mario Alicata, La riforma della scuola, cit., p.14.

349 Lo stesso Mario Alighiero Manacorda ha ricostruito il rapporto con il concetto di lavoro in Gramsci in quella prima fase dell’elaborazione comunista (1955-1962). Pur presente nella relazione di Alicata al Cc del 1955, l’introduzione del lavoro come materia e il rapporto con i lavoratori nella riforma della scuola media venne messa da parte al momento di definire i programmi del ddl Donini-Luporini sulla scuola media: «non si voleva presentare un progetto utopistico, inattuabile, e che nel contesto politico del momento avrebbe ostacolato ogni possibilità di successo: forse pesava anche il cattivo ricordo del lavoro nella scuola media cosiddetta unica di Bottai, involontaria parodia delle già intricate soluzioni della scuola sovietica». Il lavoro restava «nascosto» all’interno dell’art.19 del Disegno, tra le

«esercitazioni pratiche» da svolgere in orario pomeridiano. cfr. Mario Alighiero Manacorda, Il marxismo e l’educazione, cit., p.75. In seguito, nel corso degli anni Sessanta, Manacorda stesso sviluppò un lavoro di ricostruzione filologica della proposta pedagogica in Marx e Gramsci. In merito all’unione tra istruzione e lavoro, egli scriveva che «quel che più è caratteristico in Gramsci, e che differenzia le sue proposte (così vicine, del resto, all'esperienza sovietica da lui direttamente conosciuta nel 1922-23) da quelle delle tradizionali scuole del lavoro o attive, è [...] che [...] lo sviluppo tecnico scientifico e industriale è il fondamento reale che lo rende possibile, ma anche che il progetto pedagogico così realisticamente fondato sullo sviluppo delle forze produttive, si ricollega immediatamente all'intero sviluppo sociale. […] Se nelle pedagogie attive il lavoro era un fatto della didattica e aveva, al più, una funzione morale (e si distingueva così dalla sua tradizionale funzione professionale), in Gramsci esso è un fatto sociale: è l'atto iniziale della creazione di una società nel cui complesso (e non solo nell'istituzione scuola) istruzione e lavoro sono strettamente interconnessi, centri di studio e centri di

126

cosiddetta «teoria del conformismo dinamico», che, prevedendo una fase educativa di tipo «conformistico» – consistente nell’abituare gli studenti allo sforzo dell’assorbimento del sapere più avanzato prodotto dalla società umana – era posta in termini oppositivi rispetto alle «pedagogie spontaneistiche» tanto di origine idealistica quanto di origine pragmatista350.

Tale lettura orientata di Gramsci da parte di Alicata, rispondeva in primo luogo al contesto politico del momento, caratterizzato dalla necessità per il Pci di opporsi all’introduzione dei programmi introdotti dal Ministro della Pi Giuseppe Ermini.

Questi, se da un lato richiedevano ai maestri l’utilizzo di metodi attivistici, inserivano tali proposte «in una generale concezione metafisica e misticheggiante», basata sul principio della religione quale «fondamento e coronamento della dottrina cristiana», a scapito di quel «bagaglio di nozioni, di dati di fatto, di conoscenze positive e

produzione concrescono assieme, intellettuali e produttori vedono coordinate e non separate le loro attività, e il produttore ‘non deve cadere nella passività intellettuale’ ma deve poter diventare intellettuale, e il governato governante. Cfr. Mario Alighiero Manacorda, I comunisti, la scuola e la pedagogia, «Riforma della scuola», XXI, 1975, n.8/9. Su questi aspetti cfr. Mario Alighiero Manacorda, Il marxismo e l'educazione. Testi e documenti (1843-1964), 3 voll., Roma, Armando, 1964-1966; Id., Marx e la pedagogia moderna, Roma, Editori Riuniti, 1966 e Il principio educativo in Gramsci.

Americanismo e conformismo, Roma, Armando, 1970. Cfr. anche Antonio Gramsci, La formazione dell’uomo: scritti di pedagogia, a cura di Giovanni Urbani, Roma, Editori Riuniti, 1967. Già nel 1966 Manacorda tornò sui limiti del dibattito pedagogico interno al Pci nel periodo 1955-62, indicandone tre:

1) la ricerca della sistematicità e dell’organicità dell’insegnamento aveva spesso oscurato il valore dell’esperienza; 2) tra «l’attivismo della scuola elementare» e il «formalismo della scuola media» il Pci aveva criticato più il primo che il secondo; 3) un discorso sulla struttura delle materie e sull’interdisciplinarietà. Rivendicò invece la «non introduzione» del lavoro nella Donini-Luporini, in una società «dove il lavoro ha una posizione subalterna ed è sfruttato». Cfr. Mario Alighiero Manacorda, Ragioni di ieri, ragioni di oggi, «Riforma della scuola», XII, 1966, n.1/2

350 Secondo Manacorda «Gramsci poneva assai chiaramente il rapporto fra le nuove esigenze che l’attivismo nel senso lato, o migliore, rappresenta, e la vecchia scuola: si tratta di una lotta giusta, e la scuola obbligatoria deve essere una scuola attiva. Ma – egli aggiungeva – questa scuola attiva deve essere fondata su un principio di dogmatismo […]; e quando Gramsci parla di dogmatismo, precisa che si deve trattare di un […] conformismo, dinamico, accennando al dovere delle generazioni adulte di

‘conformare’ le nuove generazioni, e quindi sia a quelli che debbono essere il contenuto e la loro validità, sia a quello che è il rapporto tra insegnante e alunno; contenuto e rapporto che non hanno per lui niente a che fare con quelli tradizionali. […] tutti i tentativi attivistici di attuare e teorizzare il rapporto contenuto-metodo o, in questo caso il rapporto maestro discepolo, sono inficiati da un fatto:

che si limitano a considerarlo come un rapporto meramente individuale […]. Gramsci accenna esplicitamente all’interesse del ragazzo e al fatto che la scuola perde la capacità di suscitare questo interesse, perché non è legata alla vita. […] Ebbene, se non c’è questo legame della scuola con la vita, dice Gramsci, non ci può essere veramente interesse. E l’esistenza di questo interesse Gramsci la considera sempre e soltanto al livello sociale e non individuale, delle classi strumentali come complesso e non come singoli individui, dei docenti come complesso sociale e non come quelli che sono immediatamente tali. Cioè, è inutile che noi teorizziamo il problema come problema del suscitare l’interesse singolo, individuale, del ragazzetto: si tratta di avere una scuola che sia legata alla vita, una scuola che sia interessata alla società, e che alla società interessi avere in questa data forma. [...] Il non aver visto questa implicazione sociale, l’avere atomizzato il rapporto discente-discepolo, è indubbiamente un limite nella tradizione della scuola attiva». Cfr. Atti del convegno su Struttura, contenuti e metodi della scuola obbligatoria, intervento di Mario Alighiero Manacorda, in «Riforma della scuola», VIII, 1962, n.6/7.

127

scientifiche»351. Pesava in questo senso anche la lunga ritrosia mantenuta dalla Dc nell’aggiornamento dei programmi di storia, sui quali gravava come si è visto una manualistica ancora in larga parte reticente e ambigua. Era dunque sui contenuti dell’insegnamento che avveniva secondo il Pci l’«invadenza clericale», appena celata da un involucro attivistico, esso stesso negato dalla pessima preparazione cui erano sottoposti gli insegnanti352.

Va inoltre considerato il fatto che il Pci non aveva – e non avrebbe avuto per lungo tempo ancora – una base di massa tra i docenti, tale da trasferire un ragionamento critico sulla quotidianità del fare scuola all’interno dell’elaborazione del partito. Era semmai vero il contrario, e cioè che l’attitudine conservatrice di larga parte della classe docente nei confronti dell’allargamento della scolarizzazione, necessitasse da parte del Pci, nel momento di esporre la propria proposta pedagogica, di un’enfasi sull’alta qualificazione richiesta agli studenti. Si trattava infatti, e il Pci ne aveva piena coscienza, di un personale formatosi prevalentemente nei licei classici e negli istituti magistrali – che ne erano una copia dimidiata – intorno a programmi incentrati sull’umanesimo classico e su metodi di insegnamento di carattere nozionistico, votato in larga parte a una concezione dell’insegnamento inteso come missione, più che come servizio pubblico e momento di emancipazione sociale. Tale struttura professionale, se rendeva di difficile l’assorbimento e l’applicazione effettiva delle innovazioni pedagogiche introdotte da Ermini nei programmi del 1955, rendeva altrettanto sconveniente per il Pci impostare la propria battaglia sul rinnovamento dei metodi.353

351 Mario Alicata, La riforma della scuola, cit., p.89. Cfr. anche l’articolo di critica di due importanti maestri e sindacalisti comunisti dello Snase, Renato Borelli e Fausto Malatesta, I nuovi programmi per la scuola elementare, «Riforma della scuola», I, 1955, n.2

352 Secondo Alberto Alberti, futuro redattore di «Riforma della scuola», «l'obiettivo verso cui si diresse massimamente lo sforzo dei redattori di «Riforma della scuola» in quel primo periodo della vita della rivista fu quello di ‘correggere’ l'impostazione ideologica ed ascientifica dei testi scolastici allora in uso, anche in polemica con la vacuità culturale dei programmi emanati pochi mesi prima (i cosiddetti

‘programmi Ermini’». Cfr. Alberto Alberti, Bruno Ciari e «Riforma della scuola», in Enzo Catarsi (a cura di), Bruno Ciari tra politica e pedagogia, Scandicci, La Nuova Italia, 1992, p.141

353 L’impostazione attivistica dei programmi elementari era negata, secondo Alicata, dalla stessa struttura della formazione professionale dei maestri, che avveniva nell’istituto magistrale, povero

353 L’impostazione attivistica dei programmi elementari era negata, secondo Alicata, dalla stessa struttura della formazione professionale dei maestri, che avveniva nell’istituto magistrale, povero