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Il Partito e il Movimento

Capitolo IV. Sessantotto, un’occasione mancata (1968-1972)

1. Il Partito e il Movimento

Nella storiografia sulle politiche scolastiche v’è totale unanimità nel considerare il 1968 come momento periodizzante. La ragione è semplice: in quell’anno venivano a condensarsi all’interno della scuola, considerata sia come istituzione, sia come luogo fisico, processi storici che modificavano radicalmente gli equilibri politici, sociali e culturali del paese. In primo luogo, entrava prepotentemente in scena il movimento studentesco, un soggetto multiforme, a cavallo tra il sociale e il politico, diffuso nella più pervasiva e capillare delle istituzioni, in grado di innovare radicalmente il costume, nonché le forme e gli obiettivi della politica. È difficile definire storiograficamente i contorni di un fenomeno tanto complesso, dai caratteri fortemente transnazionali503 e generazionali504, in grado di coinvolgere – se inteso nella sua accezione di «lungo Sessantotto»505 – luoghi e categorie mentali molto diverse, dalla scuola, alla fabbrica,

503 Per un lavoro in ottica transnazionale che considera il Sessantotto nei suoi tratti di lungo periodo in Europa e Nord America cfr. Gerd-Rainer Horn, The spirit of ’68: Rebellion in Western Europe and North America, 1956-1976, Oxford (NY), Oxford University Press, 2007. Tra gli studiosi italiani che hanno lavorato in ottica comparativa si ricorda il classico Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Roma, Editori Riuniti, 1998. Cfr. anche A. De Bernardi, M. Flores, Il Sessantotto, Bologna, Il Mulino, 1989, che guardano agli sviluppi dei movimenti nel campo occidentale, così come il contributo di Marica Tolomelli, Il Sessantotto. Una breve storia, Roma, Carocci, 2008. Il recente saggio memorialistico di Marco Boato, tenta di presentare il fenomeno in ottica globale: Marco Boato, Il lungo '68 in Italia e nel Mondo, Brescia, La Scuola, 2018

504 Sulle interpretazioni del Sessantotto come conflitto generazionale si veda il volume di Diego Giachetti, Un Sessantotto e tre conflitti: generazione, genere, classe, Pisa, BFS edizioni, 2008, il quale insiste, riprendendo Marc Bloch, sul concetto di «generazione storica».

505 La periodizzazione del Sessantotto è al centro di un dibattito in cui emergono due interpretazioni contrastanti. C’è chi insiste su un Sessantotto «breve» dal carattere libertario e antiautoritario, anno spartiacque che viene tuttavia soffocato dal marxismo-leninismo dei gruppi. In questo gruppi cfr. Flores e De Bernardi, Il Sessantotto, cit. e il più recente Marcello Flores e Giovanni Gozzini, 1968: un anno spartiacque, Bologna, Il Mulino, 2018, ma anche il contributo di Goffredo Fofi, il ‘68 senza Lenin. Ovvero: la politica ridefinita, Roma, Edizioni e/o, 1998 e, pur con toni diversi l'importante saggio di Marco Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Francesco Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, Torino, Einaudi, 1995. C’è chi invece è portato a interpretare il fenomeno come interno a un lungo ciclo di protesta, «maggio strisciante» che attraversa l'Italia, iniziato prima e finito dopo l'anno solare 1968, che vede la politica dei movimenti collettivi degli anni successivi in perfetta continuità con l'evento 68. Si prenda ad esempio Diego Giachetti, Oltre il Sessantotto, prima durante e dopo il movimento, Pisa, BFS Edizioni, 1998. Le stesse riflessioni dell'autore nel più recente Diego Giachetti, Il '68 in Italia: le idee, i movimenti, la politica, Pisa, BFS, 2018 ma anche Giovanni de Luna, Interpretazioni della rivolta in T. D'amico, Gli anni ribelli 1968-1980, Editori Riuniti, Roma, 1998. Sul dibattito in merito alla periodizzazione del Sessantotto si vedano le riflessioni contenute in Marco Grispigni Oltre il ‘68. Per una periodizzazione della stagione dei movimenti in Italia, in Per il Sessantotto. Studi e ricerche, a cura di Diego Giachetti, Pistoia, Associazione Centro di documentazione, 1998, p. 43-48, ed anche l'introduzione di Paul Ginsborg al volume miscellaneo: AA. VV., I due bienni rossi del Novecento 1919-20 e 1968-69, Roma, Ediesse, 2006. Ortoleva, nella prefazione della riedizione del suo saggio sopracitato uscito per la pima volta nel ventennale, insiste sulla questione delle continuità e discontinuità del Sessantotto suggerendo la

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alla famiglia, alle carceri, ai manicomi, ai rapporti tra i generi, le classi sociali e le generazioni. Ai fini di questo lavoro, è utile concentrarsi sulla contestazione come fenomeno prettamente scolastico, sia perché il movimento studentesco fu uno dei soggetti principali di quel «cambiamento senza riforma» che caratterizzò la scuola secondaria italiana negli anni Settanta506, sia perché, come vedremo, fu principalmente attraverso le politiche scolastiche che il Pci intese costruirvi un rapporto e un possibile sbocco politico.

Come si è visto nel precedente capitolo, le agitazioni studentesche non furono una novità del Sessantotto: esse costellarono a più riprese tutti gli anni Sessanta, avendo come epicentro principalmente le università, ma attraversando in forme più sotterranee i vari canali in cui si divideva la scuola secondaria superiore. Fu nel 1967, momento di inizio del Sessantotto italiano, che le agitazioni assunsero la forma di un movimento a carattere nazionale. Il Sessantotto universitario maturò infatti rapidamente nel corso dell’anno, grazie a due fattori unificanti: la lotta contro la legge 2314 di Gui e gli sgomberi forzati delle occupazioni, permessi da una circolare rivolta ai prefetti dell’allora Ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani507. Esso si sviluppò poi, tra occupazioni e sgomberi, per tutto il corso del 1967 e del 1968, fino all’ottobre del 1968 quando, fallendo la prospettiva di una struttura organizzativa nazionale, i principali

«quadri» del movimento universitario decisero di fuoriuscire dalle università nell’ottica di costruire legami organici con la classe operaia e dando vita ai gruppi extraparlamentari, non prima però di aver dissolto l’Unuri e le vecchie strutture della rappresentanza studentesca.

Tale parabola ha indotto una lettura del Sessantotto, ripetuta con cadenza decennale, volta a separare un ’68 «buono» – caratterizzato da un riformistico rifiuto dell’autoritarismo accademico e sociale, dalla volontà di riformare i contenuti della didattica, dalla necessità di allargare il diritto allo studio agli studenti provenienti da classi svantaggiate e dalla richiesta di allargamento democratico della vita universitaria –, visto cioè come tappa della democratizzazione del paese, dai «cattivi» anni Settanta.

In realtà, come ha giustamente osservato Santina Mobiglia in uno dei più acuti saggi

necessità di vedere i nessi tra il 1968 e i successivi anni Settanta, riproponendo la domanda «quand'è finito il '68?».

506 Marcello Dei, Cambiamento senza riforma: la scuola superiore negli ultimi trent’anni, in Simonetta Soldani, Gabriele Turi (a cura di), Fare gli italiani: scuola e cultura nell'Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1993

507 L’accento sull’atteggiamento delle forze dell’ordine come vettore di mobilitazione è particolarmente presente Guido Crainz, Il paese mancato, cit., p.

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sul Sessantotto scolastico, «non [è esistito] passaggio dall’innocenza al peccato originale della politica rivoluzionaria. Il passaggio [fu] piuttosto da una critica

‘dall’interno’ delle istituzioni (la ‘lunga marcia’ teorizzata da Dutschke) a partire da una condizione sociale e personale concreta, a una politica separata, che recupera[va]

modelli tradizionali di organizzazione e di militanza»508. Al di là delle ragioni di tale passaggio509, sulle quali torneremo, è indispensabile individuare come originario il carattere rivoluzionario del movimento studentesco, al fine di meglio comprenderne il rapporto che intercorse tra esso e il Pci.

Accanto e in conseguenza del Sessantotto universitario, si sviluppò un Sessantotto scolastico, indubbiamente meno «fine» nella sua produzione teorica, ma che per diffusione, capillarità, intensità e persistenza incise molto più profondamente nell’istituzione scuola di quanto non fu per il suo «fratello maggiore» negli Atenei.

Solo recentemente la storiografia si è occupata del movimento studentesco delle scuole superiori, rivelando un’immagine del Sessantotto molto diversa dalla vulgata che lo rappresenta come fenomeno «borghese», effimero e inefficace.510 Gli studenti delle scuole secondarie erano già presenti nei cortei universitari dei primi mesi del 1968, ma si imposero con una loro azione autonoma a partire dall’ottobre di quell’anno, quando la rivendicazione dell’assemblea studentesca funse da collante «generazionale» tra studenti dei classici e studenti degli istituti tecnici e professionali. Il movimento, che traeva le proprie ragioni sia da anacronismi interni agli istituti e da una didattica

508 Santina Mobiglia, Il Sessantotto: l'onda lunga della contestazione, in Pier Paolo Poggio (a cura di), Il Sessantotto: l'evento e la storia, in «Annali della Fondazione Luigi Micheletti», 1990, pp.211-30

509 Secondo Mobiglia, i motivi principali che portarono alla fuoriuscita del movimento dall’ambito universitario furono: 1) la fragilità della controparte accademica, che si dimostrò incapace nel suo complesso di rinnovare la vita accademica sotto la spinta del movimento, confermando l’accusa da esso rivoltole circa il suo carattere di casta volta alla riproduzione del proprio potere. Nel momento in cui si creava un vuoto di potere (di fatto le università furono «commissariate» dalla polizia), negli studenti si rafforzava il pregiudizio sulla fondamentale irrilevanza della scuola nel cambiamento sociale.

L’università risultò così scarsamente scalfita dal movimento (la novità maggiore fu la forte immissione negli insegnamenti della contemporaneità e della sociologia); 2) l’idea costitutiva della lotta come valore e della contrattazione come disvalore (ceder un peu c'est capitoler beaocoup), delle conquiste in quanto manifestano la forza e le ragioni degli studenti, non per i contenuti singoli, di per sé mai garantiti dal recupero all'interno della logica del sistema; 3) valore ambivalente dell'assemblea, priva di meccanismi formali di decisione. La paura dell'integrazione da un lato si esprime nel voler dare parola alla maggioranza non presente nelle istituzioni rappresentative, e dall'altro si esprime nella percezione di sé come minoranza assediata dall'onnipresenza del nemico. Ibid.

510 Mi riferisco principalmente al saggio di Monica Galfré, La scuola è il nostro Vietnam. Il ’68 e l’istruzione secondaria in Italia, Roma, Viella, 2019 ed al lavoro del mio collega Lanfranco Rosso autore della tesi magistrale Le agitazioni degli studenti medi a Firenze dal Sessantotto ai Decreti Delegati (1968-1975), Università di Firenze, aa 2015-16. Rosso, nell’ambito del Dottorato in Storia Contemporanea presso l’Università di Urbino, sta attualmente lavorando alla ricostruzione delle agitazioni studentesche nella scuola superiore dal 1968 al 1980.

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dequalificata, sia dalla costante svalutazione del titolo scolastico al momento dell’impatto con il mercato del lavoro, riuscì a mettere a soqquadro il normale funzionamento delle classi, in costante osmosi con l’organizzazione della protesta di fabbrica: gli scioperi e i picchetti, gli interventi a lezione, le assemblee svolte infrangendo i regolamenti, i cortei interni, il rifiuto delle interrogazioni e delle giustificazioni, l’affissione dei giornali murali e i ciclostilati, l’intervento nelle assemblee di «esterni non esperti», la richiesta di scrutini aperti, la contestazione dei manuali, dei carichi e degli orari di studio, divennero in tutto il paese pratica diffusa e quotidiana.

Con questa intensa e prolungata spinta giovanile, che riemerse a più riprese nel corso di tutta la prima metà degli anni Settanta, si dialettizzò tutta l’istituzione scuola, a partire da una minoranza di insegnanti – che tentò di tradurre il proprio impegno politico e sindacale sul piano della didattica – fino ai «piani alti» del Parlamento e del Ministero della Pi, come testimoniano i provvedimenti «sperimentali» ottenuti nel corso del 1969 dal movimento: la riforma degli esami di maturità, la sperimentazione degli istituti professionali volta alla parziale parificazione con gli altri istituti superiori, la liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie, il parziale riconoscimento della assemblea degli studenti.511

Il 1968 non fu però cruciale solo per essere «l’anno degli studenti». Le elezioni politiche che si tennero nel maggio posero infatti le basi del mutamento degli equilibri politici che avrebbe caratterizzato tutti gli anni Settanta. Dalle elezioni uscì infatti vittoriosa la sinistra, con un’ulteriore avanzata del Pci (26,90%) e del Psiup (4,45%), mentre, accanto ad una sostanziale tenuta della Dc e del Pri, risultava sconfitta l’ipotesi della riunificazione socialdemocratica, nata dalla fusione Psi-Psdi, che racimolava solo il 14,48%, perdendo il 5,46% dei voti. Se si considera che il 1968, con la ripresa delle lotte aziendali e della lotta per la riforma delle pensioni e per l’abolizione delle gabbie salariali, mostrava già i segni vistosi di quella che sarebbe stata la ripresa della conflittualità sociale degli anni successivi, si comprende come «l’originaria impostazione del centrismo doroteo perdeva la sua plausibilità e richiedeva vistose

511 Rispettivamente il d.l. 15 febbraio 1969 n.9, la legge 27 ottobre 1969 n. 754, la legge 13 dicembre 1969 n. 910. Secondo Giovanni Gozzer, attento osservatore di parte cattolica: «In questa situazione sembrò che non ci fosse altra via di uscita se non quella di tentare sortite a livello parlamentare, sostanzialmente con una tacita intesa tra i partiti al governo e le stesse opposizioni di estrema sinistra (anzi piuttosto sotto il pungolo di queste), sulla base di testi dichiaratamente provvisori presentati in commissione o concordati sottobanco». Cit in. Sofia Ventura, La politica scolastica, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 141.

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correzioni. La questione comunista tornava così all’ordine del giorno e richiedeva di definire un nuovo modus vivendi con essa»512.

Si sviluppavano a partire da quell’anno due processi contrapposti: da un lato l’ipotesi, elaborata da parte di Moro e vista con favore dalle correnti della sinistra democristiana, di un «rapporto dialettico» e un «impegnativo confronto» con il Pci, visto come possibile interlocutore sul terreno parlamentare. Lo stesso avveniva all’interno del Psi-Psdi, dove Giacomo Mancini, nel luglio 1969, guidava la formazione di una maggioranza favorevole all’apertura verso il Pci, il che provocava l’immediato distacco della destra socialista, che andava a fondare il Psu, fino a recuperare, nel 1971, il vecchio nome di Psdi. D’altra parte, entrava in crisi l’idea di centro-sinistra come formula di governo che avrebbe dovuto «programmare» lo sviluppo secondo un piano, ipotesi che Nenni al XXXVIII Congresso socialista proponeva di abbandonare per concentrarsi sulle battaglie settoriali. «Oltre alle spinte

‘micro-corporative’ e di ‘sottogoverno’, si aggiungevano infatti le esigenze di redistribuzione del reddito mosse principalmente dal sindacato». Si operava allora quello che è stato definito «il passaggio dalla illusione del piano all’era delle spinte»513. La nuova posizione assunta dal Pci all’interno del sistema politico dava vita ad «un lavorio di convergenze parlamentari, estese sempre più frequentemente al Pci» i cui risultati in termini di riforme settoriali furono notevoli, se si considera che in quegli anni furono varati l’ordinamento regionale, lo Statuto dei lavoratori e la riforma delle pensioni514.

Se dunque per il Pci le porte del governo erano ancora precluse, le condizioni per ottenere sul piano parlamentare un esito riformatore che includesse la scuola, facendo leva sul conflitto sociale, non lo erano affatto. Il Sessantotto conferiva infatti alla questione scolastica una centralità nel dibattito politico di massa senza precedenti nella storia del paese e il Pci poteva godere di un rinnovato peso all’interno dell’arco parlamentare. Perché quest’esito fosse realizzabile, però, occorreva canalizzare parte delle forze vive del movimento studentesco in direzione dell’ottenimento della riforma della scuola, una condizione che non era semplice realizzare, date le forme spurie che

512 Piero Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, cit. p.410

513 Giuliano Amato e Luciano Cafagna, Duello a sinistra: socialisti e comunisti nei lunghi anni

’70, Bologna, Il Mulino, 1982, p.90

514 Piero Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, cit., p.426

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esso aveva assunto e soprattutto date le difficoltà che il partito aveva ereditato nel rapporto con le nuove generazioni.

Il rapporto tra movimento studentesco e Pci nel corso del ’68 è stato ricostruito in maniera puntuale per quanto riguarda i suoi aspetti più politici515, mettendo la reazione del Pci a confronto con quella di altri partiti comunisti europei516, mentre molto poco è stato scritto circa la relazione tra il partito e il mutamento delle sue politiche scolastiche in conseguenza della ribellione giovanile. Non è possibile tuttavia isolare i due ambiti, poiché le differenze politiche che intercorrevano tra il Pci e il vasto mondo militante che prese vita nel Sessantotto influirono in maniera determinante sugli esiti della politica scolastica del partito. In estrema sintesi, la differenza strategica fondamentale che venne apertamente alla luce nel corso del 1968 riguardò le modalità di superamento del capitalismo come modo di produzione predominante. Il Pci aveva specificato la propria «strategia delle riforme» da più di un decennio, prevedendo, attraverso una combinazione di lotta istituzionale e di lotta sociale, l’ottenimento graduale di modifiche strutturali dell’ordinamento politico e sociale italiano, allo scopo di produrre gradualmente le condizioni per la transizione verso il socialismo. Il movimento studentesco, i cui leader si erano in parte formati nello stesso Pci, era invece mosso da una impazienza rivoluzionaria che opponeva alle lotte per le riforme la «contestazione globale» al sistema capitalistico, e che trovava in Che Guevara e nei Viet minh, più che in Togliatti, i propri modelli costitutivi.

Tale differenza era già in nuce nel 1967, come testimoniava lo stesso Claudio Petruccioli, fiduciario del Pci all’interno dell’Ugi e segretario Fgci, che nel marzo del 1967, in un incontro nazionale della giovanile comunista, affermava come

«[…] non ci sorprende che ai giovani si presenti una alternativa radicale: accettare o cambiare tutto e subito. Non risulta cioè evidente una via di lotta organizzata per trasformare progressivamente la propria condizione e la società. […] Noi avvertiamo l’attenzione con cui le masse giovanili guardano al Pci, individuando in esso e nelle forze sociali che esso esprime i soli possibili protagonisti del rinnovamento della società italiana, e avvertiamo anche […] il disappunto per il fatto che il rinnovamento non è così immediato e radicale come si vorrebbe517»

515 Alexander Höbel, Il Pci di Longo e il ’68 studentesco, in «Studi storici», XLV (2004), n.2, pp.419-459

516 Molto utile a questo proposito il lavoro di Giulia Strippoli, Il partito e il movimento. Comunisti europei alla prova del Sessantotto, Roma, Carocci, 2013

517 Relazione di Claudio Petruccioli, Segretario nazionale della Fgci, in I giovani liberi nella scuola, nel lavoro, nella vita, protagonisti della politica costruiscono una nuova società, assise nazionale dei giovani comunisti, Roma, 4 marzo 1967, Roma, 1967, pp.3-25

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Il commento di Petruccioli edulcorava una realtà che in un documento interno della Fgci appariva in termini più espliciti: là si sottolineava un «ulteriore aggravamento» del rapporto con le nuove generazioni, in cui si notava «una specie di rancore» verso il Pci, cui si aggiungevano «il vizio estremistico e la tentazione della globalità», ossia l’affermazione «dell’impossibilità di cambiare la parte se non si cambia il tutto»518. Tale differenza fondamentale era stata esplicitata in quello che è stato definito «il momento forse più importante nel rapporto Pci-movimento», ossia nell’incontro che il segretario del Pci Luigi Longo aveva avuto il 19 aprile 1968 con alcuni studenti iscritti al Pci ma parte integrante del movimento, Luigi Moretti, Renato D’Agostini e Alberto Olivetti, oltre a Oreste Scalzone della Fgci519. L’incontro, dal

518 Note sulla situazione della Fgci, inviate da G.F Borghini Ai membri della Commissione Giovanile della Direzione Naz. Del Pci, 10 marzo 1967, Apc, 1967, Istituti e organismi vari, mf. 0544, pp. 391-407

519Alexander Höbel, Il Pci di Longo e il ’68 studentesco, cit., pp. 435-39. È utile riportare stralci di quel dibattito. Moretti: «[…] come militanti ci siamo trovati in una situazione molto critica all’interno del movimento studentesco […] le nostre analisi erano senz’altro carenti per permetterci una valutazione immediata del suo significato politico: eravamo abituati infatti […] a restare sul piano rivendicativo e all’interno di quella che era la logica delle forze politiche rappresentative […] via via che il movimento studentesco assumeva un carattere politico […], ci siamo accorti che […] per noi comunisti era molto difficile trovare uno spazio di manovra che si attestasse sulla linea del nostro partito.

Ci siamo trovati in una situazione di isolamento individuale; e non ci siamo riqualificati all’interno del movimento come militanti del partito, ma sulla base di un’adesione personale […]. Spesso, per talune posizioni assunte dal partito, la nostra partecipazione al movimento studentesco si è posta in termini di contrasto […]. Ci siamo ritrovati nel movimento a combattere fianco a fianco con delle forze con le quali il dibattito a livello di partito era stato impedito […]: alludo sia a ‘fuoriusciti’ che ad ‘espulsi’.

Quelli che pensavamo fossero elementi emarginati hanno ritrovato uno spazio, […] ed abbiamo dovuto fare i conti con questa forza sopportando addirittura il peso di una certa diffidenza nei confronti dei comunisti. Ivi, p.436. Se Moretti lamentava «una scarsa discussione nel Pci proprio sui temi centrali nel movimento: la ‘rivoluzione culturale’, cinese, l’esperienza cubana, i fermenti in America Latina, e più in generale i problemi della «strategia rivoluzionaria» rispetto a cui è emersa invece «una certa usura nella vita del partito, la cui linea rischiava di caratterizzarsi […] in senso riformistico», Olivetti sottolineava come il movimento studentesco si qualificasse «come un movimento politico, con una

Quelli che pensavamo fossero elementi emarginati hanno ritrovato uno spazio, […] ed abbiamo dovuto fare i conti con questa forza sopportando addirittura il peso di una certa diffidenza nei confronti dei comunisti. Ivi, p.436. Se Moretti lamentava «una scarsa discussione nel Pci proprio sui temi centrali nel movimento: la ‘rivoluzione culturale’, cinese, l’esperienza cubana, i fermenti in America Latina, e più in generale i problemi della «strategia rivoluzionaria» rispetto a cui è emersa invece «una certa usura nella vita del partito, la cui linea rischiava di caratterizzarsi […] in senso riformistico», Olivetti sottolineava come il movimento studentesco si qualificasse «come un movimento politico, con una