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Un ritardo lungo 10 anni

Capitolo I. La via italiana alla riforma della scuola (1955-1958)

1. Un ritardo lungo 10 anni

Non si può comprendere appieno la novità rappresentata dal Comitato Centrale del Pci del 28-30 novembre 1955, senza analizzarne sinteticamente la maturazione, iniziata più di un decennio prima, nei giorni di fuoco della guerra di Liberazione.

L’evoluzione della politica scolastica comunista, che solo nel 1955 raggiunse la forma di un programma organico, fu un riflesso del graduale e contraddittorio processo di assorbimento, all’interno dei ranghi del partito, del ripensamento strategico impresso da Palmiro Togliatti tra la primavera e l’autunno del 1944. La cosiddetta «svolta di Salerno» fu infatti la premessa logica e cronologica di altre svolte, pure avvenute in contesti molti diversi, che trovarono origine in quel primo, fondamentale, cambio di passo del partito nei confronti del sistema politico e della società italiana.

Come Paolo Spriano ha dimostrato, la novità più profonda della «svolta» – che sancì, nell’immediato, l’appoggio tattico alla monarchia sabauda – consistette nel nuovo ruolo che, nel vuoto di potere creatosi con la caduta del fascismo e l’inizio della guerra civile, Togliatti attribuiva al Pci. In un contesto, quello dell’Italia liberata, fortemente segnato dall’eredità fascista e dalla pesante tutela degli Alleati, a cambiare doveva prima di tutto essere l’orizzonte strategico, l’obiettivo verso cui mobilitare tutte le forze del partito57. Il richiamo togliattiano ad una «democrazia progressiva» – termine ereditato dal bagaglio dei Fronti popolari, del VII congresso dell’Internazionale – puntava non più a «fare come in Russia», bensì a «distruggere ogni possibilità» del ritorno del fascismo, garantendo agli italiani le libertà fondamentali, introducendo le grandi masse popolari nella vita politica e puntando a spezzare «i residui feudali» e il dominio del «grande capitalismo monopolistico».

57 «Il disegno politico di Togliatti, come si va configurando in questi mesi, va commisurato in primo luogo, insistentemente, a una realtà non esaltante quale quella dell’Italia liberata: situazione economica gravissima, tutela pesante degli Alleati, loro riluttanza ad impiegare gli italiani nello sforzo bellico, forze reazionarie interne tutt’altro che vinte, anzi in fase di riorganizzazione, mentalità fascista e filofascista affiorante non solo nei ceti dominanti ma in strati intermedi, ostacoli di ogni genere all’epurazione della burocrazia e dell’esercito, disagio e insofferenza dei ceti più diseredati e colpiti dalla miseria, dalla disoccupazione, dal crescere ininterrotto del costo della vita e non ancora mobilitati dai partiti operai nella misura necessaria. C’è un fondo disincantatamente pessimistico in tutte le posizioni di Togliatti che non va mai scordato valutando la misura della sua iniziativa e persino la sua fiducia di fondo in uno sviluppo gradualmente positivo dei rapporti di forza». Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, vol.8, La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, Torino, Einaudi, 1975, p.391

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La forma organizzativa del partito avrebbe di conseguenza dovuto attagliarsi ai nuovi fini, non limitandosi più ad una funzione di «critica» e di «propaganda», ma intervenendo «nella vita del paese con un'attività positiva e costruttiva». Ciò implicava l’assunzione, accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, di una

«funzione dirigente nella lotta per la liberazione del paese e per la costruzione di un regime democratico», e dunque una forma organizzativa che trasformasse il Pci in «un partito nazionale italiano», cioè un partito che ponga e risolva il problema dell'emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione»58. Erano, quelle della

«democrazia progressiva» e del «partito nuovo», i pilastri su cui doveva basarsi un radicale allargamento dei compiti e delle fila del partito: sull’impalcatura costituita da un piccolo gruppo di rivoluzionari di professione, esso era chiamato da Togliatti a edificare una forza di massa, in grado di contribuire fattivamente e a battersi, con programmi e azioni precise, per il rinnovamento delle strutture del paese, scuola compresa.

Se tali indicazioni sortirono effetti immediati – dall’ingresso nel governo e dal ruolo di primissimo piano che i comunisti ebbero nella Resistenza, alla travolgente crescita organizzativa del partito, che passava da una decina di migliaia di iscritti del 1943 ai 501.960 del 1944, 1.770.896 del 1945, fino ai 2.252.446 del 194759, la definizione di una politica scolastica coerente doveva attendere un decennio prima di realizzarsi. Non che non vi fossero iniziative indirizzate alla formazione, ma queste rispondevano, più che a un’idea di rinnovamento della scuola nel suo complesso, a necessità immediate dell’organizzazione: al momento della transizione il partito aveva infatti un bisogno estremo di radicarsi in ogni angolo della società, e di formare i quadri adatti a questo scopo. La nascita del sistema di scuole di partito, che accolse sin da subito migliaia di allievi distribuiti a vari livelli e intensità di formazione politica, rispose principalmente a questo scopo.60 Le caratteristiche di un’organizzazione da poco uscito dalla clandestinità, concentrata fino ad allora sui problemi immediati di sopravvivenza della struttura, spinsero così la scuola sullo sfondo.

58 ibid., p.388

59 Celso Ghini, Gli iscritti al partito e alla Fgci, in Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione 1921/1979, «Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli», XXII (1982), p.237

60 «Prima che a una politica scolastica, occorreva pensare a una scuola per la politica», Anna Tonelli, A scuola di politica: il modello comunista di Frattocchie (1944-1993), Bari, Laterza, 2018, p.9

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Una volta vinta la guerra, vi furono altre impellenze, altre priorità, che contribuirono a ritardare ulteriormente la definizione di un programma di riforma organico delle istituzioni formative. In primo luogo, la necessità di conservare l’unità con gli altri partiti antifascisti. L’orizzonte strategico della «democrazia di tipo nuovo»

richiedeva infatti che si portasse a compimento il processo costituente, proseguendo nella «politica della mano tesa» nei confronti dei democristiani. La scuola era il possibile terreno di uno scontro che occorreva disinnescare ad ogni costo: nel luglio 1946, alla vigilia dell’assemblea costituente, un allarmato Ambrogio Donini consigliava la Direzione del partito di limitare il dibattito sull’istruzione ai soli aspetti del «diritto» di tutti i cittadini all’istruzione e dell’«obbligo» dello stato di provvedervi, senza entrare in altre precisazioni riguardanti la libertà di iniziativa scolastica o i contenuti dell’insegnamento.61

Stessa prudenza conteneva la mozione conclusiva del V Congresso del Pci, (29 dicembre 1945 - 7 gennaio 1946), che evitava accuratamente di affrontare il tema della scuola privata, limitando la rivendicazione al «riformare e rendere a tutti accessibile la scuola, estendendo l'istruzione obbligatoria fino alla scuola media»62. Non è dunque un caso che, tra le varie posizioni emerse nel corso del ricco dibattito congressuale, fosse premiata quella di Concetto Marchesi, fautore di una scuola di pochi, depurata dalle scorie della disoccupazione intellettuale – la «folla degli spostati» di selliana memoria – e incentrata sul latino in quanto strumento cardine della formazione dell’uomo63. Una posizione tutto sommato conservativa, in continuità con la tradizione

61 «I compagni hanno espresso il convincimento che i deputati democristiani cercheranno di far entrare, in sede di Commissione per la nuova costituzione, la questione della «libertà della scuola». Essi proporranno cioè che la nuova costituzione contenga un articolo che sottragga allo stato il dovere di provvedere all’istruzione e lo lasci alla libera iniziativa, sovvenzionando tanto le scuole di stato che le scuole confessionali. L’opinione dei nostri compagni è che – qualora questo problema venga sollevato, com’è quasi certo –noi dovremmo sostenere che la costituzione deve soltanto proclamare il diritto di tutti i cittadini all’istruzione e l’obbligo dello stato di provvedervi, senza entrare in altre precisazioni, che vanno lasciate in via amministrativa», Rapporto di Ambrogio Donini alla Direzione del Pci, 22 luglio 1946, in Archivi Fondazione Gramsci Roma, Archivio Comunista Italiano [d’ora in poi Apc], Sezioni di lavoro, Problemi della scuola, Protocollo 18631, cit. in. Adolfo Scotto di Luzio, Il Pci e la scuola laica alla Costituente. Storia di due manifesti, «Contemporanea», XXXV (2006), n.4

62 Fabio Pruneri, La politica scolastica del Pci dalle origini al 1955, Brescia, La scuola, 1999, p.186

63 Marchesi sosteneva, come molti uomini politici e accademici del suo tempo, la tesi per cui il rinnovamento della scuola italiana dipendesse in primo luogo dal ripristino della vocazione scientifica degli studi universitari, ottenibile togliendo qualsiasi valore professionale al titolo accademico ed inasprendo la selezione meritocratica all’ingresso. In questo modo «gli spostati», ossia coloro che, pur inseguendo il titolo a fini professionali, per capacità intellettuali non erano «destinati» al raggiungimento del più alto gradi di studi, sarebbero stati esclusi dall’università, restituendo così valore e qualità agli studi, vedi Concetto Marchesi, Motivi di politica scolastica, «Rinascita», II (1945), n.11.

Marchesi sostenne queste tesi, con forza, anche in sede costituzionale, giungendo, senza successo, a

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del laicismo liberale, soprattutto se confrontata con quelle espresse nella stessa sede dal filosofo milanese Antonio Banfi, favorevole alla gestione collettiva delle istituzioni scolastiche, alla professionalizzazione degli studi superiori e ad un abbandono radicale del latino in luogo di un «nuovo umanesimo» incentrato sulle scienze, tutti temi che riemergeranno solo successivamente agli anni più duri della guerra fredda.

Gli accorgimenti volti a limitare lo scontro con i democristiani dovevano infrangersi contro la ferrea volontà di questi ultimi, spinti direttamente dal Sant’Uffizio a confermare il Concordato del 1929 ed a garantire lo sviluppo delle scuole cattoliche, diffusesi ininterrottamente dalla riforma Gentile in poi64. I dibattimenti sulla «libertà della scuola» monopolizzarono la discussione in sede costituente, terminata infine con una quasi vittoria dei democristiani, che ottenevano la costituzionalizzazione dell’istituto della parità – in parte moderata dall’emendamento Corbino – mentre il Pci doveva cedere sull’art.7 cost., che portava con sé l’impegnativo richiamo alla religione quale «fondamento e coronamento dell’istruzione»65. L’attitudine compromissoria attirò al partito le critiche del mondo laico, mentre anche all’interno si levavano voci di insoddisfazione, come quella di Pasquale D’Abbiero, allora segretario del Sindacato Nazionale Scuola Media, che in una lettera indirizzata alla Segreteria del partito lamentava il «vivo disorientamento» che la condotta dei costituenti comunisti aveva diffuso tra i professori laici66. Costretto tra la minaccia di un non expedit cattolico e i malumori degli intellettuali e dei partiti laici, il Pci non riuscì ad emergere, in sede costituente, come forza portatrice di una politica scolastica originale.

Non vanno d’altronde minimizzati i tentativi di dare un impulso ad un fronte per il rinnovamento della scuola: diversi furono i comunisti – da Antonio Banfi a Mario

chiedere che la separazione tra titolo accademico e professione fosse costituzionalizzata, vedi Assemblea Costituente. Commissione per la Costituzione. Prima Sottocommissione, Resoconto sommario. Seduta 23 ottobre 1946, pp. 291-5. La tesi storiografica secondo la quale l’affidamento a Marchesi del compito di rappresentare il partito nella scrittura degli articoli della Costituzione riguardanti la scuola sia stato il frutto di una scelta conciliante verso settori politici e sociali più moderati, è condivisa tanto da Fabio Pruneri, La politica scolastica del Pci, cit., pp.185-6, quanto da Pietro Maltese, Gli intellettuali e la riforma della scuola: un dibattito sulle pagine di «Rinascita»,

«Studi sulla formazione», XII (2010), n.1/2, pp.235-53

64 Marchesi chiese che le libertà culturali fossero espunte dalla discussione costituente in quanto materia di competenza di un’assemblea legislativa, incontrando l’opposizione dei democristiani, Assemblea Costituente. Commissione per la Costituzione. Adunanza plenaria, Resoconto sommario.

Seduta 24 luglio 1946, pp. 15-6. Sul rapporto tra Vaticano e democristiani durante la fase costituente vedi Giovanni Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Milano, Jaca Book, 2008

65 Vedi art.33, comma 3 cost.: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato».

66 Adolfo Scotto di Luzio, Il Pci e la scuola laica, cit., p.694

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Alighiero Manacorda, per ricordare i più noti – che si impegnarono nella fondazione dell’esperimento didattico dei Convitti Scuole della Rinascita, sorti dall’iniziativa di alcuni nuclei partigiani, rivolti alla formazione professionale, politica e culturale degli ex-combattenti, caratterizzati da un impianto anti-nozionistico e da una forte dimensione comunitaria67. I comunisti erano inoltre stati tra i primi a promuovere la ricostituzione di un sindacalismo scolastico unitario, che con la nascita della Federazione Italiana della Scuola, aderente alla Cgil, ritrovava una sua fisionomia accanto alle altre categorie di lavoratori. I congressi dell’aprile del 1946, celebrati simbolicamente a un anno dalla Liberazione, ancora riflettevano lo spirito unitario della lotta antifascista, simboleggiato dall’elezione di due membri del Pci, Antonio Durante e Pasquale D’Abbiero, rispettivamente alla testa del sindacato dei maestri (Sindacato Nazionale Scuola Elementare, Sinascel), e dei professori di scuola media e superiore (Sindacato Nazionale Scuola Media, Snsm)68. Proprio D’Abbiero sarebbe stato uno dei promotori più convinti dell’Associazione Italiana per la Difesa della Scuola Nazionale (Adsn), nata per offrire uno spazio di dibattito e iniziativa politica agli insegnanti – laici in primo luogo – e sostenuta da un’importante fetta del tradizionale laicismo liberale, da Benedetto Croce a Guido De Ruggiero e Piero Calamandrei. Nel suo seno i comunisti si impegnarono a mettere da parte il tradizionale anticlericalismo, puntando piuttosto al rinnovamento della scuola e all’applicazione integrale del dettato costituzionale69.

67 In tutto vi furono 11 Convitti. I partecipanti, ai quali erano forniti vitto, alloggio e un salario minimo, erano scelti tra i partigiani, i patrioti che avevano combattuto contro i nazisti e i deportati. In alcuni casi, in assenza di partigiani, anche lavoratori e figli di lavoratori potevano eccezionalmente partecipare alle lezioni. Il primo convitto, preso a modello dagli altri, sorse a Milano per opera di un comitato costitutivo composto da due maestri antifascisti, Claudia Maffioli e Luciano Raimondi, dal filosofo Antonio Banfi, e da tre giovani studenti universitari, Guido Petter, Angelo Peroni e Vico Tulli.

Tutti, tranne Maffioli, erano comunisti. Vedi Fabio Pruneri, The Convitti Scuola della Rinascita (the Boarding Schools of Rebirth): an innovative pedagogy for democracy in post-war Italy (1945–1955),

«Paedagogica Historica», LII (2016), n. 1/2, pp.188-200.

68 Sulle vicende del sindacalismo scolastico un utile contributo è quello di Natale Di Schiena e Mario Mascellani, Per una storia della politica scolastica della Cgil. 1945-1973, «Quaderni di rassegna sindacale», XIII (1975), n.52/53, pp.132-47

69 Per una ricostruzione della nascita dell’Adsn vedi Angelo Semeraro, Il mito della riforma. La parabola laica nella storia educativa della Repubblica, Scandicci, La Nuova Italia, 1993, p.50. Il manifesto fondativo dell’Adsn, la cui bozza era stata preparata interamente da Pasquale D’Abbiero, forniva un programma di rinnovamento della scuola in sette punti. Di questi solo due entravano nel merito della polemica con i democristiani, incentrata sulla scuola privata e sulla libertà di insegnamento, mentre gli altri cinque delineavano un programma di sviluppo della scuola pubblica: agitazione dei problemi della riforma e del rinnovamento della scuola; lotta per l’eliminazione dell’analfabetismo e per l’effettivo ottemperamento dell’obbligo in otto anni, garantendo «ai capaci e ai meritevoli» l’accesso a una scuola di base volta «alla formazione dell’uomo e del cittadino» ; la promozione delle iniziative parascolastiche e della sperimentazione educativa; il miglioramento dell’attrezzatura scolastica; infine, l’affiancamento delle iniziative dei sindacati scolastici. Vedi Manifesto provvisorio dell’Associazione

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Una volta portati a termine il processo costituente e la nascita della repubblica, tuttavia, il quadro politico generale tornava a influire pesantemente sulle strategie del partito, impedendo che una politica scolastica si consolidasse. L’incedere della guerra fredda si risolveva, nella primavera del 1947, con l’estromissione delle sinistre dal governo e con la secca sconfitta alle elezioni politiche del 18 aprile 1948, avvenuta in un clima di esasperato anticomunismo. Le circolari prefettizie restituiscono i toni di quello che Angelo Semeraro ha definito «maccartismo scolastico», e che a partire dal 1948 colpì soprattutto maestri e professori di sinistra, malvisti da presidi, ispettori e provveditori, spesso nominati in epoca fascista e scampati all’epurazione70. Tra il 1947, con la soppressione del ministero dell’Assistenza postbellica, e il 1955, erano stati prima depotenziati e poi lasciati morire i Convitti, mentre l’Associazione pionieri italiani, rivolta all’infanzia e direttamente legata al partito, era stata oggetto di una pesante campagna diffamatoria71.

Anche sul piano sindacale, gli scioperi proclamati dopo l’attentato a Togliatti furono l’occasione per rompere il fronte unitario e isolare i comunisti, che fino ad allora avevano mantenuto una egemonia quasi totale sul movimento operaio72. Nel settore scolastico, gravato da uno spirito di categoria tutt’altro che combattivo, l’insofferenza dei cattolici e dei settori laico-moderati nei confronti delle sinistre si era già manifestata subito dopo la crisi del governo di unità nazionale. Nella primavera del 1947, Pasquale D’Abbiero veniva sostituito alla testa del Snsm da un triumvirato di indirizzo moderato, e lo stesso accadeva ad Antonio Durante, spodestato dal cattolico De Villa nel II Congresso del Sinascel (10-14 dicembre 1947). Una volta rotta l’unità nel 1948, i sindacati scolastici si staccarono dalla CGIL senza aderire alle confederazioni anticomuniste, avviando così la lunga tradizione di autonomia del sindacalismo scolastico italiano. I sindacalisti comunisti, su spinta di Pasquale

italiana per la Difesa della Scuola Nazionale, «Belfagor», I (1946), n.1, pp.751-53. Alla base dell’iniziativa comunista v’era anche la preoccupazione che, in risposta alla nomina del democristiano Guido Gonella al Ministero della Pubblica Istruzione avvenuta il 13 luglio 1946, il mondo del tradizionale laicismo liberale trascinasse la lotta per la difesa della scuola sul terreno del tradizionale anticlericalismo. Secondo Ambrogio Donini, ciò avrebbe rischiato di provocare una frattura in seno al corpo insegnante, tra cattolici e non cattolici, vedi Rapporto di Ambrogio Donini alla Direzione del Pci, cit.

70 Guido Crainz, Storia del miracolo economico, Roma, Donzelli, 1996

71 Fabio Pruneri, La politica scolastica del Pci, cit. p.359-61; cfr. Id., The Convitti Scuola della Rinascita, cit., p.197

72 Luigi Musella, I sindacati nel sistema politico, in Storia dell'Italia repubblicana, cit., pp. 857-876

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D’Abbiero e dello stesso Giuseppe Di Vittorio, decisero per restare all’interno dei sindacati scolastici pur in posizione di schiacciante minoranza73.

L’isolamento subito dai comunisti a partire dal 1948, specialmente nel settore scolastico, si rifletté inesorabilmente sulla politica del partito. In apertura del VI Congresso di partito del 1948 Togliatti individuava nel Vaticano, nella Dc, e nel

«capitale americano» gli avversari della democrazia italiana74. Era sintomatico del un nuovo clima, che la rubrica di «Rinascita» dedicata alla scuola, «Scuola italiana oggi», fosse inaugurata nella primavera del ‘48 da un articolo di Mario Alighiero Manacorda, volto a denunciare i limiti imposti al diritto di sciopero degli insegnanti, le richieste ai presidi volte a segnalare alle Prefetture il partito politico dei candidati ai Consigli scolastici provinciali, l’invio dei poliziotti nelle riunioni sindacali e l’«occupazione»

democristiana della burocrazia scolastica a tutti i livelli.75 Nello stesso articolo, il tema del maccartismo e della mancata libertà di insegnamento appariva inestricabilmente legato a quello della «politicizzazione» della scuola, ossia alla denuncia di un vero e proprio progetto di rivincita della Chiesa nei confronti del monopolio statale per come si era sviluppato nel XIX secolo76. L’articolo di Manacorda ben sintetizzava quella che, a partire dal 1948, fu la linea tenuta dal partito fino a ben oltre la metà degli anni Cinquanta, tutta incentrata sulla lotta per la libertà di insegnamento e sulla denuncia della «clericalizzazione» della scuola italiana.

Rientra in questo quadro l’opposizione al tentativo di riforma della scuola portato avanti da Guido Gonella tra il 1947 e il 1951. L’iniziale partecipazione dei comunisti all’inchiesta di iniziativa governativa, che avrebbe dovuto precedere la riforma vera e propria, in seguito alla rottura dell’unità ciellenistica, lasciò il posto ad una opposizione di carattere più intransigente77. Le critiche si concentrarono

73 «Noi quindi siamo unitari sia sul terreno confederale e di classe, che su quello di categoria. Gli atri non possono dire altrettanto, perché hanno rotto l’unità di tutte le categorie nelle quali sono in minoranza». Discorso di Giuseppe Di Vittorio al Convegno di nascita dei Gruppi unitari confederali, Roma, 7-8 gennaio 1950, cit. in Natale Di Schiena e Mario Mascellani, Per una storia della politica scolastica della Cgil, cit., p.136

74 La relazione di Togliatti, «L’Unità», martedì 5 gennaio 1948

75 Mario Alighiero Manacorda, La gioventù in potere ai clericali, «Rinascita», V (1948), n.4/5,

76 Ibid.

77 Fabio Pruneri, La politica scolastica del Pci, cit., p.326. Le critiche che il Pci portò alla riforma Gonella, riguardavano: a) la scarsità di misure a favore dell’assistenza e del sostegno ai «capaci e meritevoli»; b) la biforcazione dei percorsi postelementari, divisi tra scuole di scarico e istruzione classica; c) l’architettura della legge delega, che rinviava in diversi settori alla legiferazione governativa

77 Fabio Pruneri, La politica scolastica del Pci, cit., p.326. Le critiche che il Pci portò alla riforma Gonella, riguardavano: a) la scarsità di misure a favore dell’assistenza e del sostegno ai «capaci e meritevoli»; b) la biforcazione dei percorsi postelementari, divisi tra scuole di scarico e istruzione classica; c) l’architettura della legge delega, che rinviava in diversi settori alla legiferazione governativa