• Non ci sono risultati.

Una politica per l’Università

Capitolo III. Fughe in avanti (1963-1968)

2. Una politica per l’Università

Tra i settori dell’istruzione quello universitario appariva come il meno toccato dai processi di modernizzazione. A fronte di una crescita degli iscritti, si registrava un vero e proprio immobilismo delle strutture: posto uguale a 100 il numero di studenti nell’anno accademico 1913-14, esso era salito a 406 nel 1958-59. Nello stesso lasso di tempo quello dei professori di ruolo era salito da 100 a 155. I professori incaricati – nel 1913 un quarto di quelli in ruolo – erano aumentati del 150% rispetto a professori ordinari e straordinari messi insieme. Su 14792 assistenti, solo 4762 erano in qualche modo retribuiti, il resto erano volontari409. La lezione ex cathedra, in aule affollatissime, le dispense consegnate agli studenti, il contatto con il professore limitato al momento dell’esame, l’impossibilità di condurre esercitazioni pratiche di laboratorio, erano la normalità per centinaia di migliaia di studenti.410

«un’alternativa di linea, che investa le scelte di fondo e i rapporti della scuola con la società, e che insieme si articoli in proposte concrete, per tutto l’arco dei problemi», superando non solo il «piano Gui», ma le stesse conclusioni della Commissione di Indagine. Il documento puntava a criticare il Piano Gui non tanto sulle scelte quantitative di spesa – giudicate insufficienti – quanto sugli aspetti qualitativi delle sue politiche, secondo tre criteri: il principio della priorità della spesa per la scuola commisurata al fenomeno dell’espansione scolastica; la riaffermazione del legame tra programmazione e riforma, e dunque tra sviluppo e processo organico di rinnovamento, senza che il «Piano» si limitasse ai soli aspetti quantitativi; ad un rapporto tra scuola e società inteso «non in senso passivo e limitato», ossia come funzione dello sviluppo economico produttivo (modello Svimez), «ma in senso positivo ed aperto, guardando alla scuola come ad uno dei centri fondamentali di trasformazione dei rapporti sociali»; il principio dell’unità tra cultura e professione.

409 Comitato di studio dei problemi dell'università italiana, Una politica per l’università: atti del convegno di Bologna del 2-4 aprile 1960, Bologna, Il Mulino, 1961, pp.13-4

410 Illuminante, per quanto riguarda il gruppo Letterario, la testimonianza di Domenico Starnone, iscrittosi all’università nel 1962: «All’università il mio percorso è stato casuale. All’inizio pensavo di fare ingegneria, poi mi sono iscritto a lettere. Ho cominciato a frequentare le lezioni, ma le aule erano così gremite che restavo sempre sulla soglia, in piedi, tra altri che sgomitavano. […] Da dove stavo io non si sentiva niente, non si vedeva nemmeno com’era fatto il professore. Dopo un po’ ho ceduto.

Preferivo restare a casa, leggere, scrivere, o correre a fare lezioni private [...] bisognava comprare i libri e le dispese universitarie utili per gli esami. Ventuno. Li ho fatti a uno a uno incontrando i professori per la prima volta quanto entravo nell’aula e mi sedevo molto scomodamente da un lato di una cattedra

151

Tale contesto di particolare arretratezza fu tra i primi ad essere oggetto delle proposte avanzate dalla tecnocrazia, le cui speranze furono destate dall’avvento del centrosinistra. Il gruppo de «Il Mulino» fu – se si escludono le solitarie pressioni di Adriano Buzzati Traverso411 – quello più attivo nell’attività di lobbying rivolta al governo per l’ottenimento di una riforma della scuola e dell’università che ne garantisse uno sviluppo all’altezza delle sfide imposte dalla modernità, nella convinzione che la vecchia linea filo-clericale del contenimento della scuola pubblica e dello sviluppo favorisse la crescita del Partito Comunista. Privilegiando tale orientamento, gli intellettuali de «Il Mulino» funsero da think tank per l’amministrazione Usa in Italia, lavorando in stretto contatto con il dipartimento di Stato e le big foundation statunitensi, fornendo studi e informazioni sulla struttura sociale Italiana, giungendo finanche a spingere perché l’amministrazione Usa appoggiasse i governi di centrosinistra come argine al Pci412. A partire dall’importante convegno dell’aprile 1960 Una politica per l’Università – al quale partecipò lo stesso Traverso – e dagli studi condotti sul sistema formativo italiano, la rivista bolognese introdusse il modello accademico statunitense all’interno del dibattito degli «esperti», influenzando le soluzioni proposte dalla Commissione di Indagine.

Le novità si condensarono nella relazione da quest’ultima presentata al ministro Gui il 24 luglio 1963413. Anche il Pci, nonostante i dubbi rivolti contro «il prevalere di una tendenza tipicamente tecnicistica», individuava in quella riguardante l’Università la parte «di più notevole interesse» per cui occorreva «vigilare e battersi», guardando con positività ad aspetti che sarebbero stati più in là molto dibattuti, come la separazione tra diploma e laurea o il mantenimento di un certo grado di selettività negli accessi dalle scuole superiori.414 Le resistenze maggiori alla relazione della

lunga, a un passo dall’orlo di un’alta pedana. Le aule erano sempre buie, le lavagne alle spalle degli insegnanti mi parevano precipizi, non ricordo nessuna faccia docente, nessuna voce, solo qualche cognome di titolare: ma i titolari di cattedra interrogavano raramente, ad esaminare erano gli assistenti di cui non sapevo nemmeno i cognomi». Domenico Starnone, Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso, Milano, Feltrinelli, 1995, p.91

411 Francesco Cassata, L’Italia intelligente, cit., pp.145-92

412 Francesco Bello, Fabio Luca Cavazza e il veto americano nella formazione del centrosinistra italiano, «Il Mulino», agosto 2015, n.2, pp.189-200. Cfr. anche Id, Fabio Luca Cavazza, La Nuova Frontiera e l’apertura a sinistra in Italia, Napoli, Giannini Editore, 2016

413 Ivi furono introdotte innovazioni come il dipartimento (italianizzato dal termine anglosassone department), la previsione di nuovi livelli di qualificazione come il diploma professionale – da ottenere in «istituti aggregati» alle facoltà, e il dottorato di ricerca, il potenziamento dei collegi, la riforma degli accessi e della governance universitaria.

414 Circolare della sezione culturale alle segreterie delle federazioni del Pci e alle loro sedi e ai compagni della Commissione scuola nazionale in Apc, 1963, Sezioni di Lavoro, Culturale, mf 0429, p.2276. Il Pci, che partiva già da un’elaborazione risalente alle Proposte del 1958, assumeva gli elementi

152

Commissione provenivano in questo caso direttamente da ambienti interni all’Accademia stessa: già nel dicembre 1962 l’Associazione nazionale professori universitari di ruolo (Anpur) e la Conferenza dei rettori (Crui), espressero parere sfavorevole alla proposta di istituire i professori aggregati, mentre il Cnel ed il Cspi, cui Gui aveva chiesto di esprimere un parere, bocciarono la relazione della Commissione di indagine sui punti qualificanti della pur timida democratizzazione degli ordini di autogoverno, dell’istituzione del dipartimento, della creazione del ruolo degli aggregati e della fissazione degli obblighi e delle incompatibilità dei professori di ruolo415. Lo scarso accoglimento delle proposte della Commissione rifletteva il corporativismo di una cultura abituata a pensare l’università come corpo separato più che come servizio pubblico – da salvaguardare nelle sue gerarchie, privilegi e abitudini, rispetto all’afflusso crescente di studenti. Lo testimoniava il sondaggio condotto dal Comitato di studio dei problemi dell’università italiana – promosso da «Il Mulino» – tra i docenti universitari, ove si annotava che

sulla questione del sovraffollamento i più, senza neppure prendere in esame se sia possibile o auspicabile mutare i termini attuali della situazione e schierandosi per la soluzione più facile, sostengono una drastica riduzione del numero degli studenti, suggerendo l'adozione del numero chiuso, forme diverse di prove di ammissione, rigorose eliminazioni dopo un certo

innovativi della relazione con qualche critica: già da tempo la politica scolastica del partito concordava con l’introduzione di una maggiore professionalizzazione nella funzione e dunque nei programmi dell’università, separando tra titoli professionali e titoli scientifici; approvava l’istituzione della figura dei professori aggregati, nonché con l’introduzione del dipartimento al posto degli istituti mono-cattedra; si guardava con qualche critica alla proposta di liberalizzazione degli accessi; troppo timida era considerata l’apertura degli organi di autogoverno dell’università a tutte le componenti accademiche; negativa la non previsione del pieno tempo e delle incompatibilità per i professori;

insufficiente la volontà di programmazione, che andava affidata, in particolare per l’apertura di nuove sedi, un organo individuato dal Pci nel Comitato Nazionale Universitario (Cnu). Sulla liberalizzazione degli accessi la proposta della commissione di indagine prevedeva una serie di esami integrativi da sostenere qualora l’indirizzo scolastico di provenienza non fosse coinciso con quello di ingresso all’università. Il Pci, che accettava il principio, temeva che in sede legislativa tale obbligo sarebbe stato imposto ai soli studenti dei tecnici. Per quanto riguarda gli ordini di autogoverno, mentre la commissione prevedeva l’inserimento di una rappresentanza simbolica dei rappresentanti degli studenti, degli assistenti e dei professori non di ruolo, il Pci propendeva per una composizione più democratica ottenuta su base elettiva. Le critiche maggiori tuttavia puntavano il dito sull’assenza del principio della programmazione centralizzata delle sedi; sulla natura del presalario, da utilizzare come strumento di programmazione degli accessi in alternativa al numero chiuso, sulla necessità di concentrare i dottorati di ricerca in sedi specializzate; sulla vaghezza dell’apertura delle università ai lavoratori, che per Lombardo Radice doveva ricalcare il modello sovietico, basato su di una legislazione lavorativa di favore per gli studenti lavoratori e sulla specializzazione dei docenti. Lucio Lombardo Radice, Università e ricerca scientifica, «Riforma della scuola» 1964, n.1

415 Marino Raicich, Sulla commissione di indagine e piano Gui (un anno di politica scolastica),

«Belfagor», 20, gennaio 1965, pp.93-4. Cfr. anche Luciano Governali, L’Università nei primi quarant’anni della Repubblica, cit., pp.110-1

153

numero di esami falliti, senza peraltro adeguatamente analizzare le modalità e soprattutto le conseguenze di tali provvedimenti416

Con il rifiuto di istituire la figura dei professori aggregati da parte di Anpur e Crui e l’impostazione «selettiva» veniva a crearsi una polarizzazione tra i professori ordinari e il resto delle componenti accademiche. Se infatti fino al 1961 le rivendicazioni del mondo accademico si erano manifestate in forma unitaria attraverso il Comitato interuniversitario per la riforma417, già a partire dall’ottobre 1962 le organizzazioni degli ordinari e quelle delle componenti minori (studenti, assistenti e incaricati), prendevano vie separate, fino all’uscita dell’Anpur dal Comitato interuniversitario agli inizi del 1963.418

La divaricazione si rese evidente con la pubblicazione, il 31 maggio 1964, del Piano Gui, che conteneva le Linee direttive lungo le quali sarebbero state riformate scuola e università. Gui, nella sua relazione, aveva infatti accolto molte delle critiche di Cnel e Cspi, depotenziando la novità dei dipartimenti – indicati come facoltativi;

pensando il diploma e gli «istituti aggregati» come uno percorso parallelo per sfollare le facoltà e fungere da bacino di raccolta del «sovrappopolamento» che secondo molti professori affliggeva l’università vera e propria; concependo infine un allargamento della rappresentanza non come una democratizzazione degli organi già esistenti alle componenti accademiche minori, ma come creazione di consulte e commissioni parallele con poteri meramente consultivi.419 Nei due congressi di quell’anno, Anpur si espresse in senso abbastanza favorevole al progetto Gui420, mentre Anpui, Unau e

416 Comitato di studio dei problemi dell’università italiana, La popolazione universitaria, v.1, Bologna, il Mulino, 1960

417 Mi riferisco alle mobilitazioni del gennaio e dell’ottobre 1961, incentrate sull’insufficienza cronica delle strutture e dunque dei finanziamenti all’Università e sulla mancanza di programmazione nazionale cfr. Anpur, Unau, Unuri, Per la riforma ed il finanziamento dell’università italiana, 26 gennaio 1961 e Anpur, Anpui, Unau, Unuri, Fusi, Documento per le manifestazioni nazionali del 27-28 ottobre 1961, Roma, 1961.

418 Una ricostruzione è in Romano Ledda, Cinque nodi da sciogliere per affrontare i guai dell’Università, «Rinascita», 23 febbraio 1963

419 Luciano Governali, L’università nei primi quarant’anni, cit., pp.112-3

420 Anpur accoglieva i dipartimenti se intesi come organi facoltativi a discrezione dei consigli di facoltà, e lo stesso criterio si proponeva per l’istituzione dei dottorati; l’idea che l’università fornisse tre titoli differenti era accolta con favore a patto il diploma fosse considerato un percorso parallelo alla laurea, e non sequenziale, chiarendo quindi la sua natura di serbatoio di sfollamento delle facoltà vere e proprie; si chiedevano infine maggiori margini di autonomia gestionale e decisionale degli organi locali, oltre alla richiesta di dotare il Consiglio nazionale rappresentativo delle università degli stessi poteri del Cnel. Anpur, Osservazioni sul capitolo concernente l’università della Relazione sullo stato della pubblica istruzione in Italia e linee direttive del piano di sviluppo pluriennale della scuola per il periodo successivo al 30 giugno 1965, atti del XIX congresso nazionale, Bologna 17-19 dicembre 1964, Roma, 1965, cit. in. Luciano Governali, L’università nei primi quarant’anni, cit., pp.115-16

154

Unuri lanciarono in giugno una «Giornata nazionale sulla democratizzazione e il finanziamento dell’Università», incentrata sull’allargamento a tutte le componenti degli organi decisionale delle università; l’istituzione dei dipartimenti in luogo dei vecchi istituti – senza «inaccettabili» soluzioni intermedie; l’implementazione di un diritto allo studio che consentisse «l’ingresso all’università dei giovani appartenenti ai ceti popolari»; il rifiuto degli Istituti aggregati e del diploma di laurea basato su una preparazione puramente tecnico-specialistica, quando era «ormai incontestabile» lo stretto legame tra sviluppo economico, sociale e culturale della comunità nazionale.421

In questa situazione il Pci mentre sosteneva apertamente le istanze dell’Unuri, rafforzava la propria posizione all’interno dell’Ugi, ove la «questione comunista», si era ormai risolta con il pieno riconoscimento dei delegati comunisti. Al Congresso Ugi di Bologna del 1962, all’interno del Consiglio di Goliardia entravano infatti quattro membri del partito (il segretario della Fgci Achille Occhetto, insieme al sardo Eugenio Orrù, Claudio Sabattini di Bologna e Claudio Petruccioli, che diventava uno dei tre vicepresidenti dell’Ugi), ma già l’anno successivo i comunisti conquistavano il 24%

del consiglio di Goliardia con ben 18 delegati, mentre nel 1964 Claudio Petruccioli, diventava il primo universitario comunista ad entrare nella giunta dell’Unuri.422 Nel 1964 l’Unuri era infatti guidata da una nuova maggioranza formatasi in base all’accordo, ben visto dal Pci, tra l’Ugi, ormai saldamente in mano alle federazioni giovanili di Pci, Psi e del Psiup, e la cattolica Intesa423. L’accresciuta influenza della sinistra nell’Unuri, come anche l’evolvere oggettivo della situazione nelle facoltà, generava dunque una convergenza di posizioni tra questa e il Pci, e un distanziamento via via più marcato delle prese di posizione studentesche dalle Linee direttive e dal disegno di legge governativo che ne sarebbe scaturito, il ben noto progetto di legge

«ventitrequattordici».424

La situazione era però molto meno lineare di quanto apparisse. Con un’intensità crescente nel corso del decennio, le università furono investite da un fermento che solo in parte era captato dalle rappresentanze ufficiali. Nelle facoltà – quelle di Architettura

421 Anpui, Unuri, Unau, Giornata nazionale sulla democratizzazione e il finanziamento dell’Università, 18 giugno 1964 in Apc, 1964, Sezioni di lavoro, Culturale, mf 0519, p.2714. Il punto più alto della protesta prima della presentazione del ddl governativo furono i quattro giorni di sciopero indetto tra il marzo e l’aprile 1965 preceduti dallo sciopero degli incaricati del dicembre 1964, cit. in Luciano Governali, L’università nei primi quarant’anni¸ cit., p.116

422 Piero Pastorelli, L’Unione goliardica italiana, cit., p.114

423 L’accordo programmatico, «Nuova generazione», 16 febbraio 1964, n.5.

424 A partire dal 1964 il Pci dava ampio spazio alle posizioni dell’Unuri sulle proprie riviste di partito cfr. Università democratica, «Rinascita», 19 dicembre 1964, n.60

155

in testa – si sperimentavano le prime occupazioni e cresceva un malessere nei confronti di una didattica desueta che non consentiva di affrontare temi – come la riforma urbanistica – di scottante attualità. Le richieste di ammodernamento e apertura dell’accademia si intrecciavano con una riflessione più profonda sul ruolo degli intellettuali o dei «tecnici» nella società, sulla loro autonomia dai potentati economici e sull’incapacità delle istituzioni formative a fornire tale «sapere critico». In questo contesto, alle occupazioni seguivano le preoccupazioni dei rettori e della stampa moderata e i primi provvedimenti repressivi, dagli sgomberi alla minaccia, avvenuta a Milano, di interrompere l’anno accademico425.

Le istanze e le forme di protesta studentesche erano appoggiate dal Pci attraverso la stampa comunista e i suoi rappresentanti politici, con prese di posizione importanti come quella di Pietro Ingrao contro il rettore della Sapienza di Roma Ugo Papi, definito «monarca assoluto […] eletto da un ristrettissimo ‘corpo speciale’ (270 professori di ruolo)», all’indomani dell’evento più importante del pre-Sessantotto, l’omicidio, nell’aprile 1966, dello studente socialista Paolo Rossi, da parte di un gruppo di neofascisti, e la successiva protesta generalizzata.426 Nonostante le apparenze, però, la cinghia di trasmissione tra partito e corpo studentesco, l’Ugi, era ormai logora: alla fine del 1966 essa registrava un «enorme distacco e vuoto fra azione e intenzioni politiche delle dirigenze universitarie e reale movimento di base».427 Le forme di rappresentanza studentesca, direttamente dipendenti dalla politica dei partiti, non erano in grado di rappresentare appieno quel nuovo protagonismo giovanile. Lo stesso Pci, di fronte alle proposte di riforma dell’Ugi e dell’Unuri – in senso

«sindacale» o «per delegati» – avanzate dalla sinistra dell’organizzazione studentesca, continuava a sostenere un’organizzazione «parlamentaristica», che rifletteva gli equilibri tra i partiti, con l’eccezione del solo Petruccioli, fedele al partito ma tentato dai fermenti che andavano crescendo nelle università.428 Era lo specchio di un partito che – pur essendo un riferimento elettorale importante, come le elezioni del 1968 avrebbero dimostrato – andava perdendo presa organizzativa tra i più giovani: la Fgci – che negli anni ‘Sessanta si occupava direttamente dell’organizzazione comunista tra

425 Per una efficace rassegna degli accadimenti delle università italiane prima del Sessantotto cfr.

Guido Crainz, Il paese mancato, cit., pp. 208-15

426 Pietro Ingrao, Lotta all’Università, «Rinascita», 7 maggio 1966. La vicenda è ricostruita in Crainz, Il paese mancato, cit., p.213.

427 Il documento della direzione dell’Ugi è in Irsifar, GC, b. 1. Cit. in Crainz, Il paese mancato, cit., p.209

428 Piero Pastorelli, L’Unione goliardica italiana, cit., p.20

156

gli studenti medi e universitari – passava dai 430.906 membri del 1955, ai 230.000 del 1960, ai 155.000 del 1966, ai 68.648 del 1969, affrontando una dispersione degli iscritti molto più rapida di quella che caratterizzava lo stesso Pci.429

Per arginare la perdita di capacità organizzativa della realtà giovanile – che si sarebbe manifestata con evidenza nel 1967 –, lungo il decennio dei Sessanta, e con più forza a partire dal 1964, il Pci scelse di accentuare il suo intervento politico in ambito scolastico, in linea con quanto già era avvenuto all’inizio del decennio. Ciò non avvenne però attraverso un potenziamento della presenza politica e organizzativa del partito nelle mobilitazioni. Dalle carte emergono semmai le carenze dell’organizzazione interna della Sezione culturale – su cui era intervenuta la Segreteria del partito –430, i ritardi nella preparazione dei disegni di legge431 – spesso presentati dopo quelli governativi – e l’assenza di una mobilitazione autonoma del partito sul modello di quella messa in campo da Alicata nel 1961.432 L’azione del Pci si concentrò dunque, prevalentemente, sul rafforzamento dei propri militanti dentro Ugi e sull’elaborazione di proposte di legge. In quest’ambito, per ciò che concerne l’università, il partito si fece portavoce delle istanze delle componenti accademiche minori e in particolare degli studenti. Già nel 1963, all’indomani delle elezioni politiche, i senatori comunisti presentavano tre ddl riguardanti i professori aggregati, la democratizzazione degli organi di autogoverno universitario e il presalario433, per

429 Rino Ferri, L’organizzazione giovanile. 1945-1968, in Il Partito Comunista Italiano. Struttura e storia dell'organizzazione, 1921/1979 a cura di Massimo Ilardi e Aris Accornero, in «Annali della fondazione Giangiacomo Feltrinelli», XXI (1982), n.1, pp.767-782. Per le statistiche successive al 1960 cfr. Paolo Franchi, L’organizzazione giovanile. 1968-1979, in Il Partito Comunista Italiano. Struttura e storia dell'organizzazione, cit., pp.783-800. Cfr. anche Gianmario Leoni, I giovani comunisti e «il partito». La Fgci dal 1956 al 1968, in «Italia Contemporanea», 2012, n.267, p.184, tab.1

430 In una lettera indirizzata a Natta e risalente al 25 febbraio 1965, Gianfranco Ferretti lamentava l’assenza di quadri all’interno della Sezione culturale. La Sezione ricadeva interamente sulle spalle di Rossanda, Francesco Zappa, che era anche responsabile di «Riforma della scuola» e Luigi Berlinguer, il quale era però contemporaneamente impegnato in Parlamento e come responsabile del partito in Sardegna. Ferretti proponeva di reintrodurre Romano Ledda all’interno della Sezione. Apc, 1965, Sezioni di lavoro, Culturale, mf 0528 p.2437. La Segreteria intervenne prontamente chiedendo a Berlinguer di non dimettersi da parlamentare – come lui stesso aveva proposto – ma di concentrarsi maggiormente sul lavoro di scolastico a Roma. Fu inoltre ripristinata la presenza di Romano Ledda all’interno della Sezione culturale in quanto dirigente aggiunto al lavoro nella scuola. Apc, 1965,

430 In una lettera indirizzata a Natta e risalente al 25 febbraio 1965, Gianfranco Ferretti lamentava l’assenza di quadri all’interno della Sezione culturale. La Sezione ricadeva interamente sulle spalle di Rossanda, Francesco Zappa, che era anche responsabile di «Riforma della scuola» e Luigi Berlinguer, il quale era però contemporaneamente impegnato in Parlamento e come responsabile del partito in Sardegna. Ferretti proponeva di reintrodurre Romano Ledda all’interno della Sezione. Apc, 1965, Sezioni di lavoro, Culturale, mf 0528 p.2437. La Segreteria intervenne prontamente chiedendo a Berlinguer di non dimettersi da parlamentare – come lui stesso aveva proposto – ma di concentrarsi maggiormente sul lavoro di scolastico a Roma. Fu inoltre ripristinata la presenza di Romano Ledda all’interno della Sezione culturale in quanto dirigente aggiunto al lavoro nella scuola. Apc, 1965,