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Alle prese con la Programmazione

Capitolo III. Fughe in avanti (1963-1968)

1. Alle prese con la Programmazione

Con la legge 1073 del 24 luglio 1962 istitutrice del principio della «programmazione»

scolastica, la scuola italiana entrava ufficialmente nell’era del centrosinistra. Con questa formula non si intendono unicamente i governi basati su una maggioranza composta da socialisti e democristiani, che in quanto tale sarebbe apparsa a più riprese nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Il centrosinistra propriamente detto, le cui vicende e i cui risultati sono al centro dell’attenzione della storiografia da ormai due decenni, caratterizzò piuttosto quei governi sorretti da tale maggioranza e collocabili tra il IV Governo Fanfani del 21 febbraio 1962 e il III Governo Moro, chiusosi il 25 giugno 1968 nel pieno della contestazione studentesca. Quelle formule di governo si fondarono sulla speranza, via via più flebile, che attraverso una programmazione tesa a restringere gli squilibri storici del Paese, e con il consenso di larghe maggioranze sociali, fosse possibile garantire all’economia ed alla società italiane uno sviluppo e una crescita sostenute nel tempo. Tale principio venne trasposto in campo scolastico dalla legge 1073/62, che richiedeva al Ministro della Pi la presentazione di un Piano organico di riforme, ma solo dopo che un’inchiesta facesse il punto sui problemi della scuola e sulle possibili soluzioni da mettere in campo per risolverli. A tal fine venne istituita una Commissione di Indagine composta da trentuno membri, sedici dei quali parlamentari e quindi «tecnici» in materia di scuola, alla quale partecipò anche il Pci con tre dei suoi eletti (Natta, Donini e Raffaele Sciorilli Borrelli).

La Commissione di indagine si trovò ad indagare un contesto scolastico in rapido mutamento, in cui andava diffondendosi in vasti strati della popolazione l’idea della scuola come canale di mobilità sociale e come diritto democratico375. Quella spinta che negli anni Cinquanta aveva allargato l’utenza delle scuole medie e in particolare l’avviamento professionale, nel decennio successivo invase le scuole superiori e le università, in forme non sempre univoche ed anzi spesso contraddittorie. Nel corso

375 Già negli anni cinquanta Lamberto Borghi e Aldo Visalberghi vedevano diffondersi un’esigenza di istruzione – quantomeno nelle zone più dinamiche del paese – man mano che aumentavano le possibilità economiche di far proseguire gli studi ai propri figli. Cfr. L. Borghi, Le scuole e l’educazione a Ivrea, in G. Cives, Cento anni di scuola dall’unità ad oggi, Roma, Armando, 1967, pp. 217-61; A. Visalberghi, Scuola e metodi attivi nell’Italia d’oggi, in Ivi, pp. 265-98. Per quanto riguarda la diffusione dell’idea di scuola come strumento democratico cfr. A. L’Abate, La mobilità sociale scolastica in Italia, in «Scuola e città», n. 3, marzo 1967 e M. Gattullo, Riforme scolastiche e scuola di massa, in «Inchiesta», n. 4, 1971.

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degli anni Sessanta la popolazione delle scuole secondarie superiori passava dai circa 706.000 iscritti dell’anno scolastico 1959/60 a 1.732.000 iscritti del 1971/72, secondo tassi di crescita che sarebbero rimasti sostenuti nel corso del decennio successivo.

Centinaia di migliaia di nuovi studenti – e studentesse – andarono ad ingrossare quegli ordini scolastici, in particolare il tecnico ed il professionale, più in linea con il mercato del lavoro, trasformando la costituzione materiale della scuola italiana che, almeno nel suo profilo demografico, andava orientandosi verso una cultura di tipo tecnico-scientifico376. Anche le Università si ingrossavano, passando dai 268.181 iscritti del 1960/61 ai 681.731 di dieci anni dopo, con una crescita concentrata principalmente nel gruppo letterario, (e dunque trainata dall’insegnamento scolastico come principale sbocco lavorativo).377

A questa espansione quantitativa corrispondeva una scuola affetta dal dualismo tra cultura umanistica e cultura tecnologica e dal primato del classicismo, fortemente selettiva in particolare nei confronti degli studenti provenienti da famiglie a basso reddito, che affollavano i corsi tecnici e professionali. Alla selettività della scuola italiana contribuivano in primo luogo quelli che la sociologia, allora scienza emergente, chiamava meccanismi palesi di selezione: la struttura «a canne d’organo»

ereditata dal periodo fascista, costituita da rami divisi e non comunicanti, permetteva di selezionare via via gli elementi più «idonei» – provenienti dai licei – ad accedere

376 Per analizzare i mutamenti incorsi nella scuola secondaria superiore ho abbondantemente attinto alla tesi di laurea magistrale di Giordano Lovascio, E la «seconda ondata» passò: storia della mancata riforma «globale» dell’istruzione secondaria superiore in Italia (1968-1972), Università di Firenze, 2016. La caratteristica principale del mutamento scolastico fu la crescita del ramo tecnico professionale, che arrivava a contare agli inizi degli anni Settanta quasi il 60% del totale degli iscritti. I settori che trainarono di più furono i professionali, che triplicò nel periodo, e gli istituti tecnico industriali, che crebbero ininterrottamente fino al 1966-67, iniziando a decrescere ma attestandosi comunque sui 230-240 mila iscritti. Tra liceo scientifico e classico si consumava inoltre un passaggio di testimone, con gli iscritti al primo che accrebbero il loro peso dal 9,5% nel 1951 al 16,2% nel 1971, mentre il secondo passava nello stesso periodo dal 28,8% all’11,8% del totale. I magistrali, già ingrossati, non crebbero molto rispetto ad altri settori essendo il mercato del lavoro dei maestri già saturo, mentre crebbero tanto in proporzione i licei artistici e gli istituti d’arte, che decuplicarono tra il

’51 (4.000 iscritti) e il ’71 (44.000 iscritti), pur restando intorno al 2,5% del totale. Dal punto di vista di genere, negli anni Sessanta si modificò sostanzialmente anche la proporzione tra i sessi nella scuola superiore: nel 1960-61 la percentuale di iscritte sul totale ammontava a poco più del 35%, ma a metà del decennio esso si avvicinava già al 40, limite superato all’inizio degli anni Settanta, fino ad arrivare negli anni Ottanta al sostanziale equilibrio tra i sessi. I dati sono tratti da Istituto nazionale di statistica, L’Italia in 150 anni. Sommario di statistiche storiche 1861-2010, cap. VII, Istruzione, Italia, ISTAT, 2011. Cfr. anche le tabelle 1 e 2 presenti in M. Dei, Cambiamento senza riforma: la scuola secondaria superiore negli ultimi trent’anni, in S. Soldani, G. Turi (a cura di), Fare gli italiani. Vol. II. Una società di massa, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 88 e 91.

377 Istat, L’Italia in 150 anni, cit., p.356. cfr. le tabelle 1, 2 e 3 presenti in Luciano Governali, L’università nei primi quarant’anni della Repubblica italiana 1946-1986, Bologna, Il Mulino, 2018, pp.301-3

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ai livelli più alti del sistema scolastico (ed alle professioni cui questo dava accesso), lasciando tutti gli altri su binari morti, privi di sbocchi successivi. Il tema degli accessi universitari, sui quali al Pci e più in generale alla sinistra si erano aggiunte alla fine degli anni Cinquanta le pressioni della tecnocrazia cattolica, delle associazioni di categoria e di settori dell’industria, era stato timidamente affrontato con la «piccola liberalizzazione» del 1961 e con altri provvedimenti minori. La legge n. 685 del 21 luglio 1961, presentata in Parlamento da un largo schieramento di forze comprendente anche il Pci, aveva aperto l’accesso alle sole facoltà corrispondenti. Si trattava però di un’apertura molto limitata: secondo il testo finale della legge, sarebbe stato il ministero a decidere il numero massimo di accessi dagli istituti tecnici per ogni anno accademico, dopo aver consultato i consigli di facoltà. Restavano inoltre esclusi dalla liberalizzazione i vari tipi di istituto professionale, che durando meno di cinque anni non fornivano un diploma equivalente a quello tecnico o liceale. Va infine ricordato che fino al 1977, l’accesso ai licei classici sarebbe rimasto vincolato alla frequenza del corso opzionale di latino alle medie, secondo quanto disponeva la legge istitutiva della scuola media unica.378

Accanto alla struttura formale del sistema scolastico, altri meccanismi, dal carattere meno evidente perché non codificato, contribuivano a mantenere ampie sacche di esclusione. Per tutto il decennio persistettero infatti larghe percentuali di evasione dell’obbligo scolastico, legate alle effettive disparità di accesso alla scuola, ai ritardi frutto delle provenienze familiari ed alle resistenze culturali più o meno coscienti dello stesso personale scolastico. Nonostante il varo della legge istitutiva della scuola media unica, la sua applicazione, a detta dei protagonisti di allora, portava a un «bilancio

378 Prima della «piccola liberalizzazione» solo il liceo classico dava accesso a tutti i percorsi universitari, mentre lo scientifico, il magistrale e in misura ridottissima l’istituto tecnico davano possibilità di accesso secondarie. L’art. 2 della legge n. 685 specificava le nuove possibilità di accesso:

alla Facoltà di scienze agrarie si accedeva dagli istituti tecnici corrispondenti; a Matematica e Scienze naturali da istituti tecnici industriali, nautici, agrari e per geometri; a Economia e commercio da istituti tecnici commerciali e per geometri, industriali, nautici e agrari; alle Facoltà di lingue e letterature straniere dell’Istituto universitario di Venezia e dell’Istituto superiore orientale di Napoli si poteva accedere da tutti gli istituti tecnici (compresi quelli femminili e dalle scuole di Magistero professionale per la donna); a Ingegneria da istituti tecnici industriali, per geometri e nautici; a Scienze statistiche, demografiche e attuariali da tecnici commerciali e per geometri, nautici, industriali e agrari; all’Istituto universitario navale di Napoli, infine, si poteva accedere dagli istituti tecnici agrari, industriali, nautici, commerciali e per geometri. Secondo Marzio Barbagli ebbero un ruolo fondamentale nel passaggio della piccola liberalizzazione le pressioni delle associazioni di categoria dei periti tecnici e industriali, che richiedevano l’accesso diretto alle facoltà corrispondenti come ingegneria o architettura, in un momento in cui sul mercato del lavoro non era stato temporaneamente assorbito il fenomeno della disoccupazione dei diplomati, cfr. Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale, cit., p.454-61.

Accanto alla «piccola liberalizzazione» del 1961 va ricordata la legge 5 luglio 1964, n.625 che disponeva la liberalizzazione dell'accesso agli istituti tecnici per i licenziati dalla scuola di avviamento.

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fallimentare».379 Ancora nel 1969, solo il 50,3% dei sedicenni possedeva la licenza media, mentre a cinque anni dall’istituzione della scuola media unica solo il 5,4% degli alunni poté usufruire dei servizi di doposcuola.380 Scuole e facoltà erano sovraffollate e difficilmente raggiungibili, spesso per l’incapacità di far fronte all’afflusso di nuovi iscritti sia in termini edilizi sia in termini di personale.381 Mentre una serie di studi condotti sui tassi di abbandono e sulle origini sociali di diplomati e laureati, avvertivano come all’aumento quantitativo delle iscrizioni non corrispondesse forzatamente una diminuzione delle disparità sociali che, al contrario, rischiavano di acuirsi,382 con il contributo di una cultura docente, spesso conservatrice e ancorata a modelli statici.383

La situazione di oggettiva arretratezza in cui si trovava tutto il settore dell’istruzione superiore, veniva ormai percepita come un grave impedimento allo sviluppo da settori importanti della tecnocrazia vicina agli ambienti di governo. Come si è visto, a partire dal ministero Medici del 1959 – poco prima che l’ipotesi di centrosinistra si affermasse – il governo aveva dato impulso a una serie di studi volti a legare – e possibilmente

379 Dopo tre anni di scuola media unica, di «bilancio fallimentare» parlava Aldo Visalberghi, di

«scuola media ancora da fare» Raffaele Laporta, di «insegnamento ancorato come nel passato agli aspetti umanistici a scapito di quelli tecnici e scientifici» Lamberto Borghi. Vedi il fascicolo n.4-5 del 1966 di «Scuola e città». Cfr. anche Mario Ronchi, La scuola dell’obbligo tra riforma e controriforma,

«Rinascita», n.28, luglio 1966

380 Istat, L’Italia in 150 anni, cit. Cfr. anche, Daria Gabusi, La svolta democratica, cit., p.171

381 Era allora diffuso nel del paese il problema dei doppi e tripli turni, con grosse differenze geografiche: se a livello nazionale esso riguardava il 28% degli alunni, al sud la percentuale saliva fino al 41,8% cfr. Gabusi, La svolta democratica, cit., p.352. Rispetto al fabbisogno di insegnanti, Vincenzo Rienzi, segretario del Sindacato Autonomo Scuola Media Italiana (SASMI), intervenendo sulla rivista

«Vita» sui risultati del primo ciclo triennale di scuola media unica, avvertì come, con i livelli di crescita che si prospettavano, nel 1974-75 ci sarebbe stato bisogno di 140 mila docenti e di 15 mila aule in più di quelle esistenti. E. Lombardi, Non abbandonano il latino. Primo bilancio della scuola media unica, in «Vita», n. 360, marzo 1966.

382 Il tasso complessivo di abbandono nelle superiori rimase stabile: scesero i tassi di abbandono di classici, scientifici e magistrali, ma si alzarono molto quelli degli istituti tecnici, cioè del percorso che aveva visto il massimo della crescita e delle nuove iscrizioni provenienti dalle classi popolari, cfr.

Mario Gattullo, Scolarizzazione, selezione e classi sociali tra scuola secondaria superiore e università.

Le indagini speciali ISTAT, in «Scuola e città», n. 1, gennaio 1989. All’università, al di là del rigonfiamento del gruppo letterario, le percentuali di iscrizioni tra i vari gruppi di materie rimase nel corso del decennio piuttosto stabile, segno di un funzionamento possente dei meccanismi selettivi: il gruppo medico nel 1971 si trovava a un solo punto percentuale di differenza con il 1955. Ibid. Come dimostrava uno studio effettuato nelle scuole dell’obbligo di Sesto San Giovanni condotto nell’anno scolastico 1967-68 i figli di contadini ed operai erano sottorappresentati tra i diplomati, gli studenti universitari e i laureati e le donne provenienti dalle stesse classe sociali si ritrovavano più svantaggiate rispetto ai maschi della stessa estrazione, cfr. T. Aymone, Ricerca sul condizionamento sociale al risultato scolastico nella scuola dell’obbligo di Sesto San Giovanni 1968, 1971, pp. 8-10, cit. in Daria Gabusi, La svolta democratica, cit., pp. 195-6.

383 Su questo aspetto, oltre alla denuncia, ben documentata, contenuta in Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana cfr. anche Marzio Barbagli e Marcello Dei, Le vestali della classe media: ricerca sociologica sugli insegnanti, Bologna, Il Mulino, 1969

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quantificare – la necessaria crescita del sistema formativo allo sviluppo economico in atto. Ai due studi della Svimez, voluti direttamente da Medici, si aggiunsero il Censis di De Rita e il gruppo di studiosi della rivista «Il Mulino», che ebbe più degli altri un ruolo fondamentale nell’importazione di tecniche, visioni e modelli nordamericani nel dibattito politico e accademico italiano.

La Svimez in paticolare ebbe un ruolo fondamentale nel sottrarre la scuola al suo statuto di istituzione separata e nel legarla allo sviluppo della società nel suo complesso, favorendo l’abbandono delle politiche di «contenimento» della pubblica istruzione. Al contempo, essa contribuì a diffondere nella classe politica l’idea che – come avrebbe ironicamente ricordato Marzio Barbagli – bastasse che l’istruzione

«venisse piantata, attecchisse, crescesse sana e robusta perché tutti i mali dell'uomo sarebbero finiti, le tirannidi crollate, la miseria, la disoccupazione e il sottosviluppo scomparsi».384 L’«ideologia Svimez», secondo cui lo sviluppo economico e la formazione di manodopera qualificata si sarebbero autoalimentati in una spirale crescente, avrebbe influito per tutto il decennio e in maniera ambivalente sulla visione degli attori della politica scolastica, compresa la Commissione di indagine, cui i suoi principali ispiratori presero parte.

Quest’ultima lavorò dall’autunno del 1962 all’estate del 1963, non limitandosi a uno studio descrittivo, ma proponendo una serie di soluzioni di rinnovamento del sistema scolastico, che destarono l’interesse di tutto l’arco politico. Rientrando nella finalità di questo lavoro, è per noi utile analizzare il lavoro della Commissione di indagine utilizzando la lente offertaci dalle analisi del Partito comunista italiano. Quest’ultimo aveva mantenuto forti riserve sia sull’opportunità di un’indagine – che avrebbe ritardato l’azione di governo tesa a riformare la scuola385 –, sia sull’impostazione di fondo, sullo sviluppo e sui risultati dell’inchiesta. Nelle valutazioni della Commissione Nazionale Scuola del partito si rilevava «il prevalere di una tendenza tipicamente tecnicista», per cui le varie proposte della Commissione di indagine, al di là della loro singola validità, nell’insieme non andavano oltre ad un «automatico accoglimento di una linea spontanea di espansione», priva cioè di un «programma educativo organico capace di instaurare un nuovo rapporto tra scuola e società».386 Nonostante le critiche,

384 Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale, cit., pp.11-2

385 Dina Bertoni Jovine, Un passo avanti e uno indietro, «Riforma della scuola», VIII (1962), n.8-9

386 Nota alle federazioni riguardante i risultati della Commissione di Indagine, in Apc, 1963, Commissione culturale, mf. 0429, p.2276

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la Sezione culturale si prodigò particolarmente per far conoscere i risultati dell’inchiesta, dedicandole interamente il primo fascicolo di «Riforma della scuola»

del 1964 e dando indicazioni alle federazioni per una distribuzione capillare della rivista, a conferma dell’importanza dello studio condotto dalla Commissione.387 La relazione veniva indicata come avanzata sul piano dell’edilizia scolastica, con un’ipotesi di programmazione fondata non sul numero di aule, ma sul parametro indubbiamente più flessibile del posto-alunno, basata sul fabbisogno indicato dagli Enti locali e finanziata da una Azienda per l’edilizia scolastica sotto il diretto controllo del Mpi. Essa inoltre introduceva elementi collimanti con l’elaborazione comunista per quanto riguarda l’Università – come l’introduzione della figura dei professori aggregati, la previsione di titoli di studio professionali di titoli accademici, l’introduzione dei dipartimenti – e il reclutamento degli insegnanti – con la previsione di un biennio di preparazione universitaria per i maestri e di corsi speciali presso le facoltà letterarie e scientifiche per la formazione degli insegnanti secondari, coordinati da una Scuola superiore di magistero. Deludenti risultavano invece le indicazioni riguardanti la «scuola materna o di grado preparatorio» – la cui istituzione a livello statale era pur prevista dagli accordi del governo di centrosinistra – e la scuola secondaria superiore – che manteneva, pur modificata, la struttura «a canne d’organo».388

I problemi principali della relazione della Commissione di indagine provenivano però dall’esterno del testo e riguardavano il mutato contesto politico in cui essa andava a

387 Nota alle federazioni: numero di «Riforma della scuola» dedicato alla Commissione di indagine in Apc, 1963, Commissione culturale, mf. 0429, p.2280. cfr. anche il fascicolo monografico di «Riforma della scuola», X (1964), n.1. Così Alessandro Natta nell’editoriale: «Non si deve certo disconoscere che sotto il profilo dell’accertamento e della conoscenza dello stato reale della scuola, il lavoro della Commissione ha dato un contributo positivo. Da esso è venuta la conferma netta, drammatica della crisi strutturale del nostro sistema scolastico, ma in sostanza si è trattato di un’opera di approfondimento, di precisazione, di scavo su dati di fatto ch’erano già stati alla base della battaglia di denuncia, da parte delle forze democratiche, della condizione intollerabile della nostra scuola e delle responsabilità delle classi dirigenti e dei governi democristiani». Per Natta però «il programma di sviluppo, che viene in tal modo ipotizzato, obbedisce ad una visione meccanica, ad una concezione di tipo spontaneo dell’espansione dell’organizzazione scolastica. Non ci sembra nemmeno di poter dire che le linee del piano obbediscano alle necessità economico-produttive […]. Ciò che manca è in realtà un preciso rapporto tra scuola e società, tra scuola ed economia» in Alessandro Natta, Ancora al di qua della riforma, «Riforma della scuola», X (1964), n.1

388 Il rimando è al fascicolo monografico di «Riforma della scuola» del gennaio 1964. Vale la pena citare i contributi, di grande interesse, con cui i comunisti affrontarono l’analisi della relazione della Commissione di indagine: Dina Bertoni Jovine (scuola dell’obbligo); Luciano Biancatelli (formazione degli insegnanti); Novella Sansoni Tutino: (edilizia scolastica); Lucio Lombardo Radice (università);

Romano Ledda (istruzione professionale); Mario Alighiero Manacorda (rapporto scuola privata e scuola pubblica); Francesco Zappa (commento delle prospettive che riguardano gli ordinamenti e gli indirizzi culturali).

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collocarsi. Già nel 1962 il nascente centrosinistra alternava a segnali incoraggianti, episodi di segno opposto. La nazionalizzazione delle industrie elettriche, pur approvata, era stata accolta dall’Italia moderata e imprenditoriale come un cedimento alla «sovietizzazione» dell’economia ed alla «conflittualità permanente» degli scioperi del 1959-63, producendo una modalità di indennizzo che ebbe effetti nefasti sull’indirizzo dell’economia italiana389. La legge urbanistica di Sullo, strumento utile a governare l’espansione urbana, veniva sepolta da una campagna incentrata sul pericolo di «nazionalizzazione» della casa, mentre l’istituzione della cedolare d’acconto sui titoli azionari veniva depotenziata nel 1964 dall’approvazione, voluta dalla Dc, della cedolare secca, che favoriva chi aveva redditi elevati e voleva mantenere l’anonimato e incentivando di fatto l’evasione fiscale.390

Si trattava dei sintomi dell’involuzione che l’accordo tra democristiani e socialisti stava subendo sul nascere. Già all’indomani delle elezioni dell’aprile 1963 – il cui il Pci cresceva, il Psi perdeva una piccola percentuale, mentre la Dc lasciava più di quattro punti alla destra – Moro decideva di porre al centro dell’accordo programmatico col Psi l’anticomunismo. Per non perdere ulteriori voti a destra, egli decise di dare fiato a quelle «esigenze tattiche che, come segretario della Dc, gli imponevano di ricostruire l’unità del partito» e lo costringevano «a costruire una coalizione di centrosinistra, senza politica di centrosinistra»391. La torsione a destra del quadro politico fu fin da subito evidente, favorita dal clima della «congiuntura»: il

Si trattava dei sintomi dell’involuzione che l’accordo tra democristiani e socialisti stava subendo sul nascere. Già all’indomani delle elezioni dell’aprile 1963 – il cui il Pci cresceva, il Psi perdeva una piccola percentuale, mentre la Dc lasciava più di quattro punti alla destra – Moro decideva di porre al centro dell’accordo programmatico col Psi l’anticomunismo. Per non perdere ulteriori voti a destra, egli decise di dare fiato a quelle «esigenze tattiche che, come segretario della Dc, gli imponevano di ricostruire l’unità del partito» e lo costringevano «a costruire una coalizione di centrosinistra, senza politica di centrosinistra»391. La torsione a destra del quadro politico fu fin da subito evidente, favorita dal clima della «congiuntura»: il