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Dal 2000 ad oggi: anni in bilico tra la dipendenza dal potere politico e le spinte riformiste per una liberalizzazione del sistema mediatico cinese

La situazione dell’ultimo decennio non sembra particolarmente migliorata in questo senso, anche se l’argomento diventa sempre più controverso e delicato, soprattutto perché si presta facilmente a cliché e luoghi comuni. Anche prendendo in considerazione le testimonianze dei numerosi inviati delle maggiori testate occidentali, che oggi hanno modo di lavorare in Cina, sembra davvero complesso ricostruire un discorso chiaro ed esaustivo su quella che è oggi la situazione dei giornali e della stampa. Fino alla fine degli anni ‘80, gli esperti occidentali hanno considerato il giornalismo cinese, in sostanza, inesistente. Una specie di prolungamento del braccio governativo, che sembrava non avere altro ruolo se non quello di portavoce del Partito Comunista. Del resto, le notizie che venivano ufficializzate al resto mondo attraverso le agenzie di stampa cinesi erano interamente controllate e condizionate dagli organi del governo.

Solo all’inizio del 2000 si erano registrati i primi veri tentativi di rendere il sistema della stampa cinese indipendente dal controllo del potere politico. Questo processo di apertura, però era stato tutt’altro che pianificato: si trattava invece di una conseguenza, in principio sottovalutata, delle riforme economiche del decennio precedente.

Nel 2000 iniziò quella che venne poi definita anche come “la rivoluzione dei giornali commerciali”: questi ultimi riuscirono in parte a svincolarsi dai finanziamenti da parte del Partito e iniziarono ad acquisire una certa libertà. Furono i primi passi nella creazione di un giornalismo indipendente e d’inchiesta, alla stregua di quello occidentale, che servirono da aspirazioni a molti altri giornali, non solo nazionali ma anche regionali. Gli obiettivi di questo movimento erano svincolare la stampa dal controllo del Partito, conquistare un

modello d’informazione libera, far si che venissero rispettati i diritti di libertà di pensiero e di espressione. Questi giornali intendevano rivolgersi solo ad una élite di intellettuali e di businessman.

I vertici del governo, che non avevano mai dimostrato la sincera intenzione di liberalizzare il sistema d’informazione pubblica, cercarono piuttosto dichiaratamente di controllare e limitare questo nuovo fenomeno, senza tuttavia ostacolarlo del tutto. I giornali di stampo economico erano visti come un veicolo importante per transitare la Cina verso i nuovi obiettivi di sviluppo e partecipazione internazionale.

Negli anni successivi gli stessi giornalisti, editori, direttori, si sono mossi piuttosto “rumorosamente” per rivendicare un’ancora maggiore autonomia.

“L’hanno fatto in modo disorganizzato, sperimentale, senza avere mai la certezza di come sarebbe andata a finire per loro. Ma l’hanno fatto in modo tutto sommato costante, spesso usando la strategia del “segnare punti sulla linea di campo”, metafora tratta dal pingpong che allude all’arte di pubblicare servizi in perfetto equilibrio tra ciò che lecito e ciò che è illecito scrivere. Per questo sono d’accordo con chi descrive il rapporto tra censura e giornalisti come un inseguimento tra gatto e topo. Se la cronaca non ci riportasse casi drammatici, potrebbe quasi sembrare un gioco.”27

All’interno di questo “gioco di equilibri” si è venuta a delineare una strana tendenza: è aumentata la tolleranza verso commentatori, intellettuali, blogger e giornalisti poco conosciuti, che hanno espresso critiche moderate nei confronti del potere politico, mentre ci sono stati controlli rigidissimi sulle pubblicazioni dei giornalisti e delle testate più conosciute (e quindi con una maggiore influenza sull’opinione pubblica), che hanno tentato di far luce su tematiche più sensibili. Fino ad arrivare, come è ormai noto, all’uso di “pene esemplari” e a vere e proprie condanne nei loro confronti.

Tra i giornalisti che si sono mossi sullo sfondo di questi avvenimenti, troviamo nomi anche molto importanti. Una delle figure di maggior rilievo è sicuramente quella di Li Datong.                                                                                                                

Nato nel 1952 nel Sichuan, Li Datong aveva iniziato a lavorare come giornalista per il

China Youth Daily nel 1979. Nel 1989 aveva partecipato alle manifestazioni pro

democrazia in Piazza Tiananmen, e questo gli era costato la condanna del Partito e l’espulsione dal giornale. Reintegrato nel 1995, aveva deciso di fondare il giornale “冰点” (Bing dian, in inglese Freezing Point), supplemento settimanale del China Youth Daily. Grazie alla sue vivide, realistiche, e indubbiamente molto coraggiose inchieste sulla situazione della società cinese contemporanea, il giornale era diventato in breve tempo uno dei più popolari e dei più letti in tutto il paese. In seguito alla pubblicazione di un articolo in cui si accusavano la politica di censura e le frequenti intromissioni del Partito nella sfera dell’informazione pubblica, il giornale venne chiuso nel 2006. Li Datong rispose alla chiusura con una lettera pubblica, che fu pubblicata su internet e censurata dalle autorità poche ore dopo:

“As a professional journalist, I am completely incapable of understanding or accepting the suspension of ‘Freezing Point’ … To those who made this decision, what do the readers count for? What does the prestige of a large mainstream newspaper count for? What do the laws of the country and the party constitution count for? What does the reform and the opening up of China count for? They see this public instrument as their own property, thinking they can dispose of it as they please.”28

Nonostante l’immediata censura del governo, il caso non rimase ignorato, ma anzi guadagnò l’attenzione dei media internazionali.

Li Datong lavora oggi come giornalista per un giornale on line con sede a Londra, “Open Democracy”, fondato nel maggio del 2001, che si presenta al pubblico in questi termini:

“[…] We are a digital commons not a magazine – a public service on the web not a commodity - are an independent, public interest, not-for-profit; […]”29

                                                                                                               

28    http://www.lettre-­‐ulysses-­‐award.org/authors06/li_datong.html.   Estratto   della   lettera   pubblica    di  Li  Datong  scritta  dal  giornalista  in  seguito  alla  chiusura  forzata  di  Bing  Dian  (2006).    

Lo slancio verso la modernizzazione che ha caratterizzato i primi anni 2000 è stato vissuto, e poi descritto dettagliatamente, anche da un'altra figura di rilievo del giornalismo cinese:

Yang Jisheng30. Membro del PCC, Yang Jisheng ha lavorato quasi venti anni per la Xinhua

News Agency, nella città di Tianjin (天津). Il suo lavoro gli ha permesso di “conoscere il mondo”, come lui stesso ha raccontato in un’intervista datata febbraio 2012 per

“Osservatorio ossigeno per l’informazione”31: si trattava di portare avanti inchieste e

indagini approfondite su diverse tematiche (affari interni ma anche esteri), che però non venivano pubblicate, ma mandate al Partito Centrale e considerate come documenti riservati. Gli anni a Xinhua l’hanno trasformato in un attivo sostenitore delle riforme politiche in Cina. Yang descrive il giornalismo degli anni ’60 e ’70 come un giornalismo di Partito, dove tutte le notizie erano uguali e si dividevano tra una manciata di poche (e controllate) testate. Con l’apertura economica il giornalismo cinese ha cercato di creare una nuova identità di se stesso, di recuperare sui progressi che intanto il giornalismo mondiale aveva fatto.

“Prima delle riforme, al tempo di Mao, i giornali erano tutti uguali. C’erano solo il Quotidiano

del Popolo e il Guangming, e ogni regione aveva il proprio giornale. I giornali erano tutti sotto

il diretto controllo del partito, si assomigliavano tutti: avevano gli stessi titoli, lo stesso stile, le stesse notizie. In realtà erano fatti per trasmettere la linea del Partito, non le notizie. I giornalisti dovevano attenersi alle richieste dall’alto, altrimenti i loro articoli non venivano pubblicati: c’era, insomma, un’uniformità di opinione. […]

Con l’apertura sono arrivati i cambiamenti anche nel giornalismo: pian piano si poteva parlare della vera realtà, gradualmente sono apparsi nuovi giornali. Le condizioni di lavoro dei giornalisti sono migliorate molto, anche se ancora oggi manca la libertà di stampa. […]

                                                                                                               

30    Yang  Jisheng  (1940-­‐),  ha  iniziato  la  sua  carriera  nel  1968,  lavorando  per  oltre  venti  anni  per  la   Xinhua   News   Agency.   Ufficialmente,   si   è   ritirato   dal   lavoro   nel   2001,   ma   è   vice   editore   del   giornale   “Yanhuang   Chunqiu”   (炎黄春秋),   pubblicato   per   la   prima   volta   a   Pechino   nel   2008.   Nel   2012   ha   pubblicato  il  libro  “Pietre  Tombali”,  che  racconta  del  periodo  di  carestia  seguito  al  Grande  Balzo.   31     “Osservatorio  ossigeno  per    l’informazione  è  stato  istituito  congiuntamente  da  FNSI  e  Ordine   dei  Giornalisti.  Il  progetto  fu  approvato  dal  Consiglio  Nazionale  nel  2008.  L’obiettivo  del  progetto  era   quello  di  monitorare  i  numerosi  giornalisti  che  in  Italia  sono  minacciati  e  di  rafforzare,  se  necessario,  la   loro  protezione.  L’Osservatorio  pubblica  ogni  anno  un  “Rapporto  Annuale”.  

Oggi la maggior parte dei giornalisti segue la corrente, senza troppo osare, di conseguenza i giornali sono un po’ piatti. Ma ci sono le eccezioni di giornalisti coraggiosi o anche di giornalisti corrotti.”32

Nel tentativo di acquisire credibilità agli occhi del mondo e, soprattutto, dei propri cittadini, nel 2001 è partita, da un gruppo di giovani giornalisti, la proposta di una protesta pacifica conto la censura e le arretrate leggi sulla stampa: “Se non posso esprimere la mia opinione,

allora non dico nulla”. Rifiutando di pubblicare articoli su temi caldi (che avrebbero

dovuto attenersi alle direttive del partito), si tentava di eludere la propaganda e di non doversi necessariamente allineare alla posizione politica del governo. In un certo senso, si cercava di dimostrare ad un’intera nazione come quello cinese si stesse trasformando in un “giornalismo responsabile”, che chiedeva una riforma della legge sulla libertà di stampa. Riguardo a questo punto, Yang Jisheng ha raccontato che già negli anni ’80 si era cominciato a discutere di una nuova legge in materia. I tempi non erano ancora maturi, e lui stesso si era all’epoca dichiarato contrario a questa idea. Sono passati trent’anni, ma la situazione politica sembra non essere ancora cambiata a sufficienza: con il controllo ancora in vigore e nella situazione legislativa attuale, infatti, la riforma delle legge sulla libertà di stampa ancora una volta rappresenterebbe, per il Partito, un’occasione per restringere ulteriormente i confini dell’autonomia dei giornali e dei giornalisti.

“[…] Una legge del genere si rivelerebbe un ulteriore bavaglio alla stampa. Se mancano le condizioni politiche adeguate non si può fare una buona legge; ne verrebbe fuori un ulteriore strumento di controllo invece che di libertà. Noi giornalisti però dobbiamo lottare per aprire un dibattito, dobbiamo arrivare a riforme politiche che portino all’elaborazione della legge.”33

                                                                                                               

32  http://www.cineresie.info/yang-­‐jisheng-­‐giornalista-­‐xinhua/.   Estratto   dell’intervista   al   giornalista   cinese  Yang  Jisheng.  Antonia  Cimini,  10  febbraio  2012.  

33  http://www.cineresie.info/yang-­‐jisheng-­‐giornalista-­‐xinhua/.   Estratto   dell’intervista   al   giornalista   cinese  Yang  Jisheng.  Antonia  Cimini,  10  febbraio  2012.  

Ad ogni modo, il nuovo governo eletto nel 2002, che vedeva Hu Jintao34 e Wen Jiabao35 ai vertici, imboccò una strada di riforme volte all’espansione del sistema mediatico cinese, soprattutto in relazione a obiettivi di crescita economica e politica a livello internazionale.

“By November 2002, the party’s Sixteenth National Congress had officially called for an expansion of the economic reform program to a whole range of media and cultural industries, elevating them not only as the new focal point for systematic state-led development, but also as a strategic site for the growth of China’s “comprehensive national strength”- encompassing both economic power and cultural power, or soft power, in a competitive global context. Viewed through Ong’s conceptual framework, this entire process of media marketization and cultural industry restructuring can be seen as the progressive deployment of neoliberalism as exception and exceptions to neoliberalism. […] The Chinese state made a decisive breakthrough at the onset of the reform process by abandoning the Cultural Revolution-era essentialist class discourse but maintaining a version of narrow but effective identity politics – that is, the politics of nationalism. ”36

Di fatto, i media avrebbero dovuto abbandonare quello che era stato il loro compito storico, cioè coltivare tra la popolazione cinese una soggettività basata sul ruolo di classe, e piuttosto promuovere per la prima volta l’idea di “identità nazionale”. Lo scopo non era soltanto quello di riunificare la sempre più sfaccettata realtà sociale cinese, ma forse                                                                                                                

34     Si  unì  al  PCC  quando  era  ancora  uno  studente,  prima  della  Rivoluzione  Culturale.  Nel  1988  fu   nominato   Segretario   generale   del   Partito   nella   Regione   Autonoma   del   Tibet,   dove   l’anno   successivo   venne   istituita   la   legge   marziale.   Questa   posizione   gli   permise   di   mettersi   in   luce   e   di   iniziare   la   sua   scalata  politica.    Nel  1989  inviò  un  telegramma  a  Pechino,  nel  quale  dichiarava  il  suo  “incondizionato   appoggio   all’intervento   armato   contro   i   manifestanti   di   Piazza   Tienanmen.   Nel   1992   fu   richiamato   a   Pechino   da   Deng   Xiaoping   ed   eletto   membro   del   Politburo.   Nel   1999   divenne   vicepresidente   della   Repubblica.   Nel   2002   arriva   la   carica   di   maggior   prestigio:   Hu   è   eletto   Segretario   Generale   del   PCC.   L’anno  successivo  assume  la  carica  di  Presidente  della  Repubblica,  fino  al  2013,  quando  gli  succede  Xi   Jinping.  

35     La  sua  scalata  ai  vertici  del  partito  comincia  subito  dopo  la  laurea,  nel  1968.  Viene  trasferito  a   Pechino  nel  1986,  e  nominato  capo  dell’Ufficio  generale  del  Partito,  carica  che  ricoprirà  fino  al  1993.  Nel   1989   accompagna   in   piazza   Tienanmen   l’allora   segretario   del   Partito,   Zhao   Ziyang,   cercando   di   convincere   i   manifestanti   a   terminare   l’occupazione   ed   evitare   così   un   massacro.   Nel   2003   è   eletto   Primo  Ministro  del  Consiglio  di  Stato,  carica  che  ha  ricoperto  fino  al  Marzo  del  2013.  È  stata  certamente   una   delle   personalità   più   in   vista   dell’ultima   amministrazione   cinese,   ed   è   stato   soprannominato   “Premier  del  Popolo”,  per  le  sue  politiche  di  sviluppo  dell’entroterra  cinese  e  delle  zone  più  povere  della   nazione,  a  beneficio  degli  agricoltori  e  degli  operai.    

soprattutto quello, come nota ancora Yuezhi Zhao37: “… to appeal to overseas Chinese

financial and human capital in the name of national building.”

Di fatto, il ruolo principale del sistema restava quello di promuovere le ideologie del partito; semplicemente, quelle nuove. Il cercare di costruire un sistema d’informazione nazionale partito-centrico, e nello specifico continuare ad utilizzare i giornali come mezzi di propaganda, ostacolandone lo sviluppo e l’autonomia, si poneva fortemente in contraddizione con l’obiettivo del governo di aprirsi alla sfera internazionale, di dare enfasi alle nuove strategia di apertura diplomatica, di conquistare un propria posizione definita nello scenario mondiale.

“On the one hand, the market expansion imperatives of commercially successful local party media organizations such as the Guangzhou Daily Group, and the party state’s desire to make its propaganda organs “bigger and stronger” in order to face real and imagined international competition, have compelled this media organizations to expand beyond local market. On the other hand, under the current structure, a party media organization such as the Guardian Daily Group is subordinated to the Guangzhou Municipal Party Committee, and all its subsidiary publications are politically and administratively accountable to that body. If the Guangzhou Daily Group, which as large press conglomerate publishes not only the Guangzhou Daily, but also a dozen subsidiary newspapers and magazines catering to different readership, publishes a new paper in Xi’an, it inevitably raises an awkward question: which party committee will be the political master of this new paper? No matter how commercially successful the Guangzhou Daily Group is, it has no legitimate political and administrative grounds to expand beyond it’s geopolitical boundaries […].”38

Lo stato si rifiutava di liberare la stampa dal rapporto di dipendenza dal potere politico, bocciando categoricamente la proposta di rendere i giornali (ma i media più in generale) indipendenti attraverso finanziamenti e capitale privati. Questo permetteva di evitare due possibili conseguenze: che la stampa cinese si trasformasse in un sistema basato                                                                                                                

37     Yuezhi   Zhao   è   professore   di   “Politiche   economiche   della   comunicazione   globale”   presso   la  

Fraser  University.  È  anche  presidente  del  “Canada  Research”.  Ha  scritto  molti  articoli  accademici  e  ha  

collaborato   a   molte   pubblicazioni   in   lingua   inglese   e   cinese,   principalmente   incentrare   sulla   tematica   dei  media  e  della  posizione  cinese  all’interno  del  sistema  di  comunicazione  globale.    

esclusivamente su un’economia capitalistica (prettamente occidentale), in primo luogo; secondariamente, che l’apertura agli investimenti privati (quindi anche a quelli internazionali) fornisse ai paesi esteri un’eccessiva libertà di movimento negli affari più “intimi” nella nazione.

Una paura che diventò reale nel 2003, quando la Cina fu investita da una crisi sanitaria di

livello mondiale, il caso SARS39. Nel Dicembre 2003, dopo un periodo di quarantena

imposto alle città di Pechino e Hong Kong, dopo innumerevoli ispezioni sanitarie in tutto il paese, dopo le pesantissime conseguenze economiche che si sono abbattute su tutto il paese (chiusura di fabbriche e scuole, blocco delle consegne e spedizioni di merci, ecc.), il

WHO40 ha pubblicato il suo rapporto ufficiale sulla SARS. In base ai dati raccolti in questo

rapporto, le opinioni degli studiosi e dei medici si sono immediatamente divise in due opposte correnti di pensiero: chi sosteneva che la SARS avesse avuto i connotati di una vera e propria epidemia a livello globale, e chi, invece, riteneva (e ritiene tuttora) che l’epidemia SARS non sia mai esistita. Tralasciando anche in questo caso i risvolti politici,

internazionali ed economici, e tralasciando un’analisi dei risultati pubblicati dal WHO41

(effettivamente inquietanti), quello che ci interessa è analizzare come il governo cinese reagì all’accaduto, e le conseguenze che questo ebbe sulla stampa (nazionale ed internazionale).

Secondo il Partito, il caso SARS fu una forzatura, soprattutto mediatica, voluta fortemente dall’Occidente per screditare la crescente potenza cinese e la neo eletta classe dirigente agli                                                                                                                

39     Il   primo   caso   sembrerebbe   essersi   registrato   in   una   cittadina   cinese   nella   provincia   del   Guangdong   (Novembre   2002).     Il   12   Marzo   2003   l’OMS   ha   dichiarato   lo   stato   di   allerta   globale.   Il   rapporto  ufficiale  del  WHO  (31  Dicembre  2003)  parla  di  8098  casi,  774  dei  tali  con  esito  mortale.   40     WHO,  World  Health  Organization.    

41     “[…]  Vi  si  accenna  dunque  a  8098  casi  di  Sars,  774  dei  quali  hanno  avuto  esito  mortale.  Da  questo  

totale  vanno  detratti  circa  350  decessi  avvenuti  prima  che  la  Sars  venisse  riconosciuta  come  tale:  non  sono   vittime  della  Sars  ma  “si  stima”  che  lo  siano  state.  La  stessa  definizione  di  Sars  andrà,  tuttavia,  chiarita:   nella  stessa  relazione  della  WHO  dell’11  luglio  2003  si  precisano  i  contorni  di  questa  terribile  piaga:  “Sars   is  a  diagnosis  of  exclusion”.  Ovvero,  in  linguaggio  medico,  non  essendosi  riscontrate  altre  possibili  cause,   non   resta   che   concludere   che,   probabilmente,   si   è   trattato   di   Sars.   La   gravità   di   questi   dati   può   essere   ulteriormente  confermata  dal  confronto  di  questi  valori  con  quelli  raccolti  (statistiche  ufficiali,  depositate   presso   gli   archivi   della   WHO)   sulla   diffusione   di   malattie   infettive   in   quello   stesso   anno   nel   mondo   con   particolare   riferimento   alle   polmoniti   “virali”   (ovvero   “tipo   Sars”).   In   quello   stesso   anno   in   Europa   e   in   America   si   registrarono   150.000   decessi   per   influenza   e   50.000   per   polmonite   di   tipo   virale   […].     S.  

occhi del mondo. Così, il governo attuò un immediato e violenti intervento contro la stampa, non solo quella straniera, ma anche quella nazionale. Con una legge del 2003, il governo decise che da quel momento in poi, tutte le notizie sanitarie d’interesse pubblico sarebbero state inserite in un archivio statale riservato. Nessun giornalista, o organizzazione, o privato cittadino, può oggi avere libero accesso a quest’archivio, e quindi alle informazioni di ordine sanitario a livello mondiale, previa autorizzazione scritta del Ministero della Salute Cinese.

“[…] Interventi molto indiretti ed energici, già all’indomani della crisi della Sars, hanno parallelamente dato il segnale di un nuovo atteggiamento. Si è ulteriormente ridotto lo spazio a disposizione del giornalismo cinese, pochi e ben mirati arresti, poche e ben mirate espulsioni hanno alimentato quello che giustamente China digitale la Scuola giornalistica di Berkeley denunciano come un clima intimidatorio per i corrispondenti internazionali. Naturalmente non c’è errore di giornalismo che giustifichi riduzioni di libertà di stampa, non c’è congiura possibile che legittimi una riduzione di spazi per la comunicazione […]”.42

Nel frattempo però, già da qualche anno si parlava di “proprietà privata”, in seguito alla crescita del settore privato e al fenomeno della privatizzazione di molte aziende statali. Si attendeva con grande interesse l’approvazione di una legge al riguardo, e molti si aspettavano che questa avrebbe incluso anche una regolamentazione delle “proprietà