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Il binomio ager e saltus Dall’età romana in poi Concetti generali

2. Geografia: La Terraferma nell’insieme

1.1. Il binomio ager e saltus Dall’età romana in poi Concetti generali

Secondo Robert Fossier nel Medioevo il binomio ager e saltus rappresentava le due facce dell’ecosistema. In ognuno dei due termini infatti si includevano «cento volti diversi» che lo storico accosta alle più recenti categorie di infield e outfield o di piano e bosco. Egli inoltre sostiene che la compresenza e lo sfruttamento umano congiunto dei due ambienti naturali ha caratterizzato l’equilibrio ecologico di tutto il periodo medievale210 e, ancora, che «i progressi dell’ager potevano compiersi solo a spese di un saltus produttivo»211.

210

R. FOSSIER, La Terra, in Dizionario dell’Occidente medievale, a cura di J. Le Goff, J. C. Schmitt,vol. II, Torino 2004 (ed. Ita), p. 1158 (pp. 1157-1171). Considerazioni sull’organizzazione agraria e sul rapporto tra spazio coltivato e spazio incolto sono trattate anche in P.TOUBERT, Les

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Partiremo da queste riflessioni di Robert Fossier per indagare l’evoluzione del significato del termine saltus, dal periodo antico all’età medievale e moderna. Innanzitutto, considerando la grande varietà di situazioni offerte dallo studio dell’incolto e le difficoltà ad affrontare in maniera unitaria tale tema, l’utilizzo da parte dello storico francese delle categorie infield e outfield aiutano a formulare una prima analisi degli spazi coltivati e non coltivati dal punto di vista mentale e ideologico. Per esempio, nella civiltà altomedievale boschi e paludi rappresentavano luoghi di riferimento importanti attorno a cui ruotava la società. A tale concezione si contrappone nettamente la nozione di saltus del mondo romano. La cultura romana infatti, fondante le proprie tecniche sull’artificio, ovvero sulle creazioni umane come la città e l’agricoltura, considerava “barbarie” tutto ciò che andava al di là di esse: coloro che non vivevano in città e non praticavano l’agricoltura erano ritenuti barbari e incivili212. Tutto ciò rientrava però all’interno di un pregiudizio ideologico. Non veniva dunque considerata, come sottolinea Andrea Giardina, la valenza economica del bosco e degli incolti in genere, sebbene essi fossero quotidianamente utilizzati213.

Da questo presupposto ha origine anche l’accostamento di ciò che è “esterno” e non sottoposto a coltura con il concetto di frontiera, ossia un elemento “fisico” che segni il confine tra uno stato e l’altro o che ne delimiti lo spazio

volontà di definirne le peculiarità regionali e micro regionali, il tema è trattato anche anche in J.- M.MARTIN, L’espace cultivé, in Uomo e spazio nell’alto medioevo , L Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto mediovo (Spoleto, 4-8 aprile 2002), Spoleto 2003, pp. 239-297.

211

R.FOSSIER, La Terra cit., p. 1163.

212

Sintetizzando una lunga tradizione di studi Luigi Provero intravede tra le due diverse concezioni una questione culturale derivante soprattutto dai due diversi sistemi alimentari, «quello romano fondato sui cerali, la vite e l’olio e quello barbarico in cui ai cereali si aggiunge la carne ottenuta mediante la caccia, la pesca e l’allevamento», L.PROVERO, il mondo contadino in, Dal

Medioevo all’età della globalizzazione. Il Medioevo (secoli V-XV), a cura di S. Carocci, IX. Strutture, preminenze, lessici comuni, Roma 2007, p. 142 (pp. 135-179).

213

Tali considerazioni sono state discusse in un primo momento da Andrea Giardina, Allevamento

ed economia della selva in Italia meridionale: trasformazioni e continuità, in Società romana produzione schiavistica, I, L’Italia: insediamenti e forme economiche, a cura di A. Giardina e A.

Schavone, Roma-Bari, 1981, pp. 87-113 e riprese poi da Massimo Montanari. Dai due storici si mutua il termine di “pregiudizio ideologico”, Cfr. M. MONTANARI, La foresta come spazio

economico e culturale, in Uomo e spazio nell’alto medioevo cit., pp. 302-303 (pp. 301-340). Più di

recente Igor Mineo distingue lo spazio civilizzato del mondo greco-romano costituito di ager e

saltus dallo spazio nominalmente marginale composto dalla silva. L’A. concorda tuttavia sul

concetto di integrazione dei due sistemi coltivo e incolto durante il periodo alto medievale, I. Mineo, Paesaggi e insediamenti cit., p. 94 (pp. 89-134).

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interstatale. Fiumi, laghi, mari, montagne, boschi e paludi possono quindi, alle volte, essere considerati una materializzazione di una frontiera. Dal momento che la frontiera è considerata un’area sulla quale si esercita un diritto a titolarità multipla per tentare di difendere o di estendere le prerogative giurisdizionali, politiche e territoriali dei confinanti, allora lo spazio incolto – nel senso di luogo marginale e frontaliero – può rappresentare, nell’immaginario comune ma anche concretamente, un’area di forte tensione politica e sociale214

. Altre volte, la stessa marginalità e la distanza dalla città di boschi e paludi hanno alimentato una certa visione fantastica di questi spazi, impenetrabili all’uomo e abitati da oscure presenze 215.

Coesiste tuttavia al concetto di marginalità la nozione di saltus come elemento incluso nello spazio quotidiano, sia a livello fisico che ideologico. Non mancano infatti attestazioni documentarie relative alla presenza di spazi vacui, incolti o umidi all’interno delle proprietà private216 o, più in generale, di “cinture” umide o incolte inserite lungo i rura suburbana e profondamente integrate con lo spazio urbano217. Venezia e Ferrara ne sono un esempio. Le due città hanno storicamente instaurato una profonda convivenza – anche se non sempre armoniosa soprattutto durante le fasi di conquista di nuovi territori coltivabili coincidenti con la seconda metà del Quattrocento e le bonifiche di prima età

214

P.MARCHETTI, Spazio politico e confini nella scienza giuridica del tardo Medioevo, Estratto

da Distinguere, separare, condividere. Confini nelle campagne dell’Italia medievale, a cura di

Paola Guglielmotti, , Reti Medievali Rivista, VII - 2006/1 (gennaio-giugno), p. 72. Disponibile in rete all’indirizzo:

<http://www.dssg.unifi .it/_RM/rivista/saggi/Confi ni_Marchetti.htm>

215

V.FUMAGALLI, Paesaggi della paura cit., pp. 207-232.

216

Per quanto riguarda le proprietà distribuite lungo i confini del Dogado la perticazione compiuta dagli Ufficiali Sopra le acque negli anni compresi tra il 1582 e 1609 offre un esempio di questa presenza di terreni denominati vacui affiancati a vigne e altre piccole colture lungo tutti i terreni umidi privati circumlagunari e endolagunari. L’indagine degli ufficiali fu estesa in particolare ai territori di Malamocco, Chioggia, Fosson, Vignole, Sant’Erasmo, Treporti e le isole della laguna, ASVe, S.E.A., b. 220. Osservazioni relative all’espressione terra vacua si ritrovano in M.MONTANARI, L’alimentazione contadina nell’alto medioevo, Napoli 1979, p. 30. L’autore scrive: “Al campo non seminato(...)sembra riferirsi l’espressione terra vacua, che andrebbe perciò tradotta con “vuota di semi”; diverso il significato di terra aperta, che sembra invece indicare un terreno sgombro di alberi”. Medesime considerazioni si ritrovano in Bloch: “I campi rimanevano privi di messi, eran terre vuote o vane (vaines)”. BLOCH, I caratteri originali cit., p. 49.

217

G.CHIODI, Tra la civitas e il comitatus. I suburbi nella dottrina di diritto comune, in Dal

suburbium al faubourg: evoluzione di una realtà urbana, a cura di M. Antico Gallina, Milano

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moderna – con le acque e con le valli che le circondano218. Solitamente in questi casi il saltus assume un forte valore economico, diventando parte integrante dell’estensione coltivata. Ad esempio, per i secoli centrali del Medioevo nelle paludi attraversate dal fiume Sile, presenti in prossimità della città di Treviso, è stata attestata la pratica di depositare le vinacce dopo la vendemmia in modo da attirare gli uccelli e le anatre da cacciare219. Se da una parte in epoca medievale lo spazio non coltivato garantiva con la sua sola presenza, come nel caso appena presentato, il buon funzionamento di particolari economie rurali, integrando perciò le attività agro-silvo-pastorali, dall’altra gli stessi spazi furono sottoposti a uno sfruttamento altamente produttivo. E’ in tal senso che si deve considerare l’aspetto prettamente fisiocratico che assume, lungo tutta la storia, il rapporto tra l’uomo e la natura, espresso dal costante dominio dell’uomo sugli spazi incolti. Pertanto, per favorire la resa dell’ager il saltus diventava produttivo. Quest’ultima interpretazione si contrappone al concetto di “integrazione” (tipico delle economie agro-silvo-pastorali), accostandosi invece al significato di “domesticazione” e “progresso”.

Possono allora un bosco, una palude, gli spazi umidi in genere essere considerati semplicemente spazi non coltivati? E ancora, quando possiamo considerarli un incolto produttivo?

Ritornando al binomio iniziale, il saltus dell’epoca romana si traduce per tutto il periodo medievale e moderno nel termine “incolto”, solitamente usato per indicare un luogo, una superficie, uno spazio o appezzamenti di terre in genere non coltivati e, spesso, esso viene usato sia al singolare che al plurale. In quest’ultimo caso (gli incolti) l’accezione sembra individuare, non tanto uno

218

R.RINALDI, L’incolto in città. Note sulle vicende del paesaggio urbano tra alto Medioevo ed

età comunale, in Il Bosco nel Medioevo, a cura di B. Andreolli e M. Montanari, Bologna 1988, p.

251-262. Vito Fumagalli non mancò di far presente come gli spazi paludosi, a differenza del bosco, restarono a segnare vistosamente i paesaggi delle pianure italiane per tutto il Medioevo sino a quasi ai giorni nostri: «nella seconda metà del secolo scorso, nella sola regione emiliana erano circa 250.000 gli ettari di paludi e di terre imbevute d’acqua più del normale», V.FUMAGALLI, Il

paesaggio delle campagne nei primi secoli del Medioevo, in L’ambiente vegetale nell’Alto medioevo, XXXVIII settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo (Spoleto, 30

marzo - 5aprile 1989), Spoleto 1990, p. 46 (pp. 19-54).

219

La notizia è riportata in G.CAGNIN, Il bacino del Sile nel Medioevo dalle sorgenti a Musestre, in Il Sile, a cura di Bondesane et al., pp.102-103 (pp.87-104).

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spazio fisico delimitato e privo di coltura ma, semmai, l’esistenza di diverse categorie di ambienti caratterizzati da determinati ecosistemi con copertura vegetale non appartenente ad una sola classe colturale. Questi ambienti possono essere le aree umide, i pascoli, le ghiare e i boschi.

Per risolvere tale questione è necessario ritornare al significato e alla valenza storica del termine. A tal proposito, alcuni storici hanno spesso sottolineato l’inadeguatezza del termine incolto come concetto o categoria applicabile indistintamente ad epoche diverse; per Andreolli:

«[…] risulta evidente l’inadeguatezza del termine incolto, che gli storici usano più per esigenze di comodo che nel reale convincimento di una naturalità delle aree boschive […]. In realtà l’uso di questo termine, senz’altro riduttivo, nasce dal pregiudizio fisiocratico che cultus appartenga in specifico al settore dell’agricoltura propriamente detta, in una logica produttiva che appartiene semmai all’Età Modena e alle epoche successive, non certo al Medioevo» 220.

Nello specifico Bruno Andreolli intende riportare l’attenzione al ruolo che ha avuto la diffusione delle opere di agronomia cinquecentesche e la successiva nascita settecentesca delle Accademie di agricoltura in Europa. L’introduzione e la circolazione di tali opere ha contribuito alla rielaborazione del concetto di incolto. In esse infatti si elogiavano i valori di civiltà e di ordine estetico fortemente contrapposti all’idea di caos associata ai paesaggi informi e ai terreni abbandonati o selvaggi221. Lo spirito agronomico, prima, e la cultura accademica poi elevarono l’agricoltura al centro dello sviluppo economico di un paese.

Tuttavia, come di recente ha affermato Andrea Zaglia, potremmo dire che l’assenza di coltivazione, sia nel presente che nel passato, può e poteva significare e dire cose molte diverse:

220

B.ANDREOLLI, L’uso del bosco e degli incolti in Storia dell’agricoltura cit, pp. 123-139.

221

Si veda K.THOMAS, L’uomo e la natura. Dallo sfruttamento all’estetica dell’ambiente, 1500-

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«Il termine nel passato poteva indicare località un tempo coltivate e poi

abbandonate, poteva indicare luoghi inaccessibili alla coltivazione. Poteva infine indicare luoghi o paesaggi sfruttati in maniera differente, alternativa o complementare alle consuete attività agricole, come potevano essere il pascolo o le attività di raccolta e di prelievo delle risorse presenti nelle superfici boscose o nelle zone umide»222.

Tali caratteristiche permettono di poter oggi classificare diverse tipologie o gradi di incolto: dall’incolto “produttivo”, a quegli spazi naturali le cui risorse sono definite dalla stessa documentazione sterili, magre o guasture (guaste). In tal caso, si riconosce e si amplia il significato del termine, introducendo la possibilità che vi siano delle terre non coltivate, ma sottoposte ugualmente al controllo e all’attività antropica. Per semplificare, si può distinguere – utilizzando le parole del Fumagalli – «lo spazio veramente incolto» come una brughiera, foreste e paludi, dalla «foresta “abitata”»223

. Pier De Crescenzi identificava le terre incolte sia con quegli ambienti lasciati alla loro naturalità, sia con le aree naturali prodotte, lavorate, coltivate. Nel suo trattato dedicato ai prati e ai boschi, discerneva infatti quelli che «naturalmente sono prodotti e fatti», dalle «selve, che per industria d’huomo si fanno»224

, come potrebbero essere il castagneto da frutto o il querceto da sughero.

222

A.ZAGLI, L’uso del bosco e degli incolti cit., pp. 321-335.

223

V.FUMAGALLI, Paesaggi della paura cit., p. 209.

224

P. DE CRESCENZI, Incomincia il libro della agricoltura di Piero de Crescientio cittadino di

Bologna ad honore di Dio et del serenissimo re Carlo, libro VII, cap. III, 1490, Venezia, B.N.M.,

Inc. 237: «Incomincia il libro septimo de prati et boschi per che i prati creati furono et che aria terra acqua et sito desiderano […]Dico primieramente che le selve o naturalmente avegniono o per l’industri humana si fanno. Quelle che sono dalla natura producte si fanno per humore et per seme naturalmente nella matricie della terra contenuti. I quali per la virtù del cielo escono fuori alla sommità della terra et si drizano i pedali di diverse piante secondo la diversità delli humori et del seme et de luoghi ne quali nascono. Anchora si fanno sanza operazione humana de semi i quali da proximani arbori caggiono in terra o da gli uciegli o da fiumi di lontane contrade sono adutti. Onde nella pi natural nascono le selve delle pielle grandissime et de faggi et de le castagnie et delle quercie et de cierri et de simiglianti arbori. Et nel luoghi bassi et paludosi nascono per se medesimi i salci i piopi lontani et le canne salvatiche et somiglianti piante […] Ma nel magro et salso o amaro terreno nasceranno spineti et arbori torti[…] et devonsi queste selve diversamente procurare et arare[….]».

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Affrontare il tema dell’incolto produttivo, ovvero quell’incolto sottoposto all’industria dell’uomo, vuol dire accostarsi quindi all’analisi storica delle risorse ambientali e allo studio delle forme istituzionali di appropriazione di tali risorse (diversi livelli di proprietà o di esercizio di proprietà sul bene), ponendo particolare attenzione alle peculiarità regionali e micro-regionali.