2. Geografia: La Terraferma nell’insieme
1.5. I diritti nell’area di gronda lagunare
Ciò nonostante, è bene sottolineare che tra le due aree geografiche (gronda lagunare-litoranea e prima Terraferma veneta) si potevano rintracciare anche dei tratti di continuità. Per i beni collettivi di gronda, come per gl’altri, si presentavano le medesime differenziazioni di sorta derivate dalle vicissitudini, dai processi e dalle tradizioni storiche, politiche e giuridiche legate al luogo dove essi si collocavano. Alcune volte infatti, al pari dei boschi della provincia del Cadore, fu sancita l’esclusione dal dominio pieno della Signoria (e con esso la natura comunale dei fondi) anche per quei beni situati nelle terre più vicine al litorale, come nel caso delle terre del Polesine. La causa dell’esclusione si deve rintracciare nella tradizione che legava quel miscuglio di terre emerse, acque, selve e paludi – ulteriormente poi modificate dagli interventi di bonifica – alle investiture livellarie concesse ancor prima della conquista veneziana dagli Estensi o dall’abbazia di Pomposa a gruppi chiusi di abitanti. Tale situazione è stata riscontrata per il territorio di Adria. Come scrive Barbacetto:
«Quella comunità vantava investiture dei duchi di Ferrara antecedenti il dominio veneziano, rinnovate dall’Ufficio dei Provveditori sopra camere succeduto nella gestione dei diritti estensi, che, a differenza di quelli carraresi, non furono alienati»239.
238
S.BARBACETTO, «la più gelosa delle pubbliche regalie» cit., p. 157.
239
98
La medesima situazione è rilevata anche per la comunità di Loreo. I beni di entrambe le comunità (Adria e Loreo) non rientrarono nei rilevamenti seicenteschi riguardanti i beni comunali appartenenti ai territori sottoposti alla dominazione veneziana. Se l’esclusione dai rilevamenti dei beni comunali del Cadore è da imputare come sostiene Stefano Barbacetto sia alla volontà di «non scontentare una provincia confinaria solitamente mal presidiata», sia al fatto che gli statuti cadorini difendevano tenacemente il valore allodiale di quei beni; per il caso delle comunità di Adria e di Loreo invece il motivo di questa assenza è da ricercare soprattutto nella posizione geograficamente strategica delle loro terre e acque, poste al confine con le dominazioni degli Estensi, Scaligeri e Carraresi prima, e al confine fra lo stato di Venezia e quello di Ferrara poi. All’occorrenza infatti, soprattutto in occasione di particolari momenti cruciali di instabilità diplomatica, questi beni di natura collettiva potevano tornare utili ai diversi principi per concedere privilegi e libertà in cambio della fedeltà, tanto che in più occasioni si perseguì anche la politica di alienare quelle terre «concesse poi in usufrutto ai privati dietro pagamento di un livello perpetuo, e ridotte poi a coltura»240.
Particolari erano inoltre le condizioni delle terre emerse di gronda più prossime alla città di Venezia, di quanto lo fossero i territori appena descritti. In queste terre basse, dislocate lungo la Bassa Trevigiana o nel Padovano, barene, velme, valli, laghi tracciavano il limite tra la coltura della terra e quella del mare. Poi, lungo quelle terre umide lambite dall’acqua salmastra del mare si alternavano le valli da pesca. Queste si configuravano come un vero e proprio miscuglio tra acqua dolce proveniente dalla Terraferma e l’acqua salata del mare. Lì, oltre agli effluvi del mare, si mescolavano diritti dei privati e dello Stato. Per di più, la strana conformazione della pianura costellata di specchi vallivi lasciava spazio tra una peschiera e l’altra a lembi di terra tenuta a prato. Su tali spazi prativi e cuorosi (aree lacustri caratterizzate da isolotti di terra detti cuori ritenuti estremamente fertili), che delimitavano i confini tra una valle e l’altra, si coltivava, si pascolavano gli animali e si cacciava; si creavano dunque una infinità di situazioni
240
99
ecologiche, colturali e giuridiche diverse. Già nel 1489, il 4 novembre, il magistrato del Pubblico deputato trovandosi a Caorle per recuperare «ciò che era di ragione della Serenissima Signoria da Grado a Cavarzere», dovette chiedere e volle sapere, come è riportato dalla fonte, «con quale autorità gli uomini di detto luoco di Caorle possiedono le paludi, laghi, canali, valli ed altri luoghi vicini a quel paese per pescare ed aucellare»241. La situazione lungo i margini lagunari era complicata, sia per chi governava, sia per chi doveva difendere e lavorare quelle terre. Il flusso del mare e la sua acqua salata, da sempre contrapposto alla Terraferma e all’acqua dolce dei fiumi che l’attraversano, decretavano anche la natura giuridica delle terre in esse presenti. L’acqua pertanto stabiliva la condizione giuridica della terra. Per esempio, nelle inchieste condotte dai periti per sancire l’appartenenza pubblica o privata delle vaste distese di incolto presenti lungo i confini che separavano la laguna dalla Terraferma emerse che i due elementi (acqua e terra) furono utilizzati di volta in volta in modi diversi dalle comunità dell’area circumlagunare, al fine di difendere le proprie prerogative. Alcune volte la caratterizzazione anfibia del territorio e la conseguente predominanza dell’acqua sulla terra furono presentate dalle comunità come privilegi per allinearsi alla tradizione giuridica lagunare. A questo privilegio si era appellata la comunità di Cavarzere per dimostrare che i suoi incolti non potevano essere considerati come quei beni comunali della Terraferma, dal momento che essa Terraferma non era:
«in rei veritate in Terraferma, et non in altri luogi, sono deputadi beni comunali a beneficio de’ comuni per boscare e pascolare suoi animali. Ma a Cavarzere li suoi beni comunali sempre sono conservadi, ne se polevano alienàr, chè sono questi zone cane et altre herbe che nasceno per paludi, et valle e legni salvadegi che nasceno similiter per valle e paludi» 242.
241
ASPd, CRS., Santa Giustina, b.7, Annali, T° VII, c. 113r.
242
100
E per dimostrare la distanza del luogo dalla Terraferma e dalle sue tradizioni, nello stesso documento, si cita la profonda vocazione lagunare che univa i suoi abitanti, esperti pescatori:
«Item, è comun pescàr cum certi redi che se chiamano berthevei243 per li foresti la estade quando le acque montano sopra le rive …»244
.
Altre volte, al contrario, fu più utile passare dalla parte della terra:
«Item niùn altro loco del Ducato ha havuto speciale privilegio [...] come ha havuto cavarzerani et questo perché nelli altri lochi erano le acque salse. Et fatta la Illustrissima Signoria nomina maris, merito tutti li lochi marini che se reducevano a terre erano del signor del mare del qual era l’aqua de esso mare, ma Cavarzere, cum el suo territorio, mai fu in mare sed semper in aque dolce»245.
Per risolvere l’annoso problema che affliggeva le terre perilagunari sul rapporto terra-mare, l’elemento discriminante sembrerebbe quindi essere stato la prevalente concentrazione di salinità dell’acqua che lambiva il terreno. La presenza del mare e dei suoi effluvi salmastri, decretava così l’appartenenza di un luogo alla realtà culturale e giuridica della laguna.
I frammenti documentari appena presentati illustrano nel primo caso la volontà da parte della comunità di sfuggire alla confisca dei beni comunali di Terraferma portata avanti dalla Repubblica sin dagli anni Settanta del Quattrocento; mentre, con la seconda dichiarazione si evince il tentativo degli abitanti di dimostrare la propria autonomia nei confronti del mare e la conseguente vicinanza (fisica e culturale) con la Terraferma. In quest’ultima circostanza si perseguiva la distanza dal mare per escludere la possibilità che le terre venissero considerate res pubblicae, in quanto lambite dall’acqua salata
243
Il termine fa riferimento ad una rete chiamata Bertovello che si usa per pescare nelle acque dolci, Cfr. G.BOERIO, Dizionario cit., alla voce Bertevèlo, p. 76.
244
ASPd, CRS, Santa Giustina, b. 210, vol. X, c. 84r.
245
101
della laguna e, per tale motivo, spettanti al demanio. D’altra parte anche le comunità non facevano altro che interpretare liberamente, in campo politico, la stessa pratica empirica portata avanti da Venezia dopo la conquista della Terraferma. La Dominante aveva infatti – guidata dall’opportunità del momento246 – determinato diversi gradi di sottomissione delle comunità al proprio regime giuridico, lasciando ampio spazio all’interpretazione dell’ordinamento e delle consuetudini giuridiche proprie delle realtà locali247
. A questo proposito, un altro esempio interessante è stato analizzato da Stefano Barbacetto. Egli illustra come durante una lite, sorta per stabilire l’appartenenza giuridica e la natura pubblica delle Valli di Comacchio, fu condotto da parte di un giurista secentesco l’accertamento «super aquarum qualitate» per stabilire la salinità dell’acqua, dal momento che le acque dolci, essendo «privati juris», non partecipavano, come sostiene l’autore, della natura giuridica del mare248. Alla fine del Quattrocento la natura pubblica o privata degli incolti, dipendeva ancora molto dalla visione veneziano-centrica delle trattazioni giusperite.
Tuttavia l’annoso problema della definizione privata o pubblica delle terre e delle acque che rientravano entro i confini del Dogado fu affrontato fin dai secoli centrali del Medioevo. Nel 1282 il Maggior Consiglio investiva con una parte approvata il 7 luglio, i giudici Super publicis di giurisdizione su tutte le acque, terre e paludi e canneti situati da Grado a Cavarzere, con il compito di indagare e recuperare i beni pubblici. I Super publicis uniti alle altre tre magistrature già esistenti dei Super patarinis et usurariis, Super canales rivos et piscinas, super pontibus et viis civitatis Rivoalti formò il più ampio ufficio dei Giudici del Piovego. Questi furono incaricati di stabilire quali beni lagunari fossero iure singuli o iure universorum. L’operato della magistratura era fondato essenzialmente, come riporta Silvano Avanzi, sulla concezione che la pubblica
246
A.MAZZACANE, Lo stato e il dominio nei giuristi veneti durante il «secolo della Terraferma», in Storia della cultura veneta. Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, 3/I, a cura di G. Arnaldi e M. Oastore Stocchi, Vicenza 1980, p. 583 (pp. 577-650).
247
Ivi, p. 581.
248
102
natura di laghi e stagni derivasse, oltre che dalle loro caratteristiche oggettive naturali, anche dalla pubblica fruizione che avevano storicamente assunto quelle determinate risorse:
«Lo stato veneziano adotta una disciplina basata su criteri analoghi a quelli propri del regime romanistico riconoscendo, appunto, la distinzione fra luoghi pubblici per destinazione (o accidentalmente pubblici) e luoghi pubblici per diritto naturale (o necessariamente pubblici)»249.
Per esempio, l’accertamento che in quelle aree si praticasse da oltre cent’anni l’attività di pesca e di caccia rendeva il bene di ragione pubblica; mentre ancora nel XIII secolo bastava esibire l’antico titolo di concessione del bene per accertarne la condizione giuridica privata250. Successivamente la materia verrà gestita dalla magistratura dei Savi ed esecutori alle acque, istituiti ufficialmente nel 1501. Già prima di questa data, tuttavia, i Provveditori alle acque, antecedenti alla magistratura, avevano iniziato a stabilire alcuni limiti alla pubblica utilità dei beni lagunari soprattutto in vista della generale salvaguardia ed integrità fisica della laguna251. L’interesse era quello di garantire una libera circolazione delle acque salmastre all’interno degli spazi lagunari, impedendo in tal modo la contraffazione e l’usurpazione del luogo pubblico. Nello specifico, l’agire dei provveditori, e poi della magistratura, si concretizzava nel verificare che le palificate e le grisiole, (recinzioni usate per delimitare la valle da pesca) non riducessero ad uso privato il bene pubblico per l’espletamento dell’attività della pesca e che, allo stesso tempo, non impedissero la libera circolazione delle maree. La questione delle valli da pesca animò non poco le discussioni
249
S.AVANZI, Il regime giuridico della laguna di Venezia cit., p. 62.
250
Ivi, p. 84.
251
In generasle fu stabilito che i beni appartenenti alla Signoria non erano sottoposti alla prescrizione trentennale (ASVe, SEA, reg. 342, c. 68v, 1501, 4 settembre), come fu invece determinato per i beni comunali di Terraferma. Inoltre si decretò che fosse «consuetudine della Serenissima alienare ai privati i terreni lagunari non più suscettibili di sommersione e destinare il ricavato della vendita per finanziare le escavazioni necessarie al mantenimento di porti e canali», S.AVANZI, Lo sviluppo del concetto di demanialità lagunare p. 441.
103
riguardanti il concetto di demanialità lagunare per tutto il periodo medievale e per i secoli successivi [Cfr, Parte III, cap. III].
104