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Oltre le frontiere distrettuali Mobilità rurale e sfruttamento del bosco

II. Misurare il bosco e l’acqua nel territorio mestrino

II.3. Oltre le frontiere distrettuali Mobilità rurale e sfruttamento del bosco

In precedenza è stato descritto il metodo utilizzato per delimitare le parcelle di bosco attraverso la creazione di fosse divisorie. Tale procedura, come si è detto, sembra ampiamente documentata per la fine del Medioevo in tutta l’area perilagunare che portava dal distretto di Mestre fino al confine padovano. Un altro esempio interessante è attestato nelle rilevazioni effettuate da Michele pertegador nelle possessioni del già citato monastero di San Giorgio Maggiore distribuite tra i villaggi di Chirignago, Maerne e Catene. Lo scopo dei rilevamenti anche in questo caso era finalizzato a determinare i confini e la proprietà del monastero sulla porzione di bosco chiamata alle Catene. Egli descrive le terre seguendo «a via que venit Mestre et vadit Paduam», che scorreva tra due fosse che davano il nome al bosco stesso, chiamate per l’appunto le Cathene. Il bosco si allungava da questa via verso sud fino al limite che dava inizio ad un’altra porzione boschiva di proprietà dell’Ospedale di Santa Maria di Mestre; mentre verso ovest confinava con la proprietà di Sartor da Spinea, anche in questo caso identificata con il termine nemus. Il bosco denominato a le Cadene, era lavorato dal colono Bonaldo per il monastero di San Giorgio. Ma la disponibilità di risorse offerte da questo terreno era goduta da molte altri soggetti. La documentazione infatti attesta una intensa opera di uso e frequentazione del bosco da parte di privati provenienti da comunità più o meno vicine al luogo dove si distribuiva la riserva boschiva. Si riferiscono infatti i nomi di coloro che nei mesi di febbraio e marzo dell’anno 1469 frequentarono il bosco lavorato da Bonaldo per tagliare le legne e i zochi ad uso strettamente personale. Oltre ai nomi, il compilatore fornì anche l’indicazione topografica del paese di provenienza di ciascun uomo. Queste indicazioni illuminano assai sulla condizione sociale e sugli spostamenti geografici di coloro che frequentarono il luogo. In più di un caso, i nomi degli avventori del bosco sono seguiti dall’indicazione della loro professione, corrispondente senza eccezione a diverse attività artigianali per le quali la legna risulta fondamentale.

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Ad esempio è attestata la presenza dei cavichioli provenienti da Spinea, ovvero i falegnami. Si leggono inoltre i nomi di Antonio Fabro (fabbro) proveniente da Taiarolo e i sartori (sarti) da Salzano.

I nomi sono:

Bartholomeo Palaton de Sarzan, Boldo Sartore de Salzan, Andrea Sartore de Salzan, Vendramin Guizonato da Sarzan, Iacomo Berthon da Sarzan, Iacomo Guizonato da Sarzan, Artuso de i Guioti che sta soto Noale, Bortolo Tortato da la Capella de Martelago, i tosati da la Capella da Martelago, Boyin che sta soto Sarzan, Banagi che stano a Maerno, Pero da Zanzi che sta a Maerno, Iacomo de Zanzi da Maerno, Barlon de Bon da Maerno, Nicolo Bo(n)altelo che sta a Noale, Zuan Roso de Comelo che sta in Robegan, Zilio da Zelo fiolo de Daniel, Stephano Cornato da Taiarolo, Antonio Fabro da Taiarolo, Baptista Zachelo da Salzan; Trivisan nepote de Bonaldo, Bartholomio Mussato da Salzano, Berton Spinea lavora cum Marchioro Campagno, Andrea Beffa da Barban appresso Mestre, I cavichioli de soto Spinea, Antonio Guizonato368.

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ASVe, CRS, San Giorgio Maggiore, b. 72, proc. 148/A. Testimonianza datata 17 novembre 1469 e avvenuta soto la loza de Mestre.

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Tratto del territorio della Podesteria di Mestre e della podesteria di Noale. Sono state tracciate le direttrici che in base ai toponimi forniti dalla testimonianza forniscono una chiara visione degli spostamenti degli utilizzatore del bosco delle Catene.

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Le indicazioni toponomastiche inducono a ipotizzare che gli utilizzatori del bosco si muovessero principalmente lungo l’arteria stradale che collegava l’abitato di Mestre con Bassano. Questa strada, chiamata anche la Bassanese fu di massima importanza per i trasporti da Venezia verso la Terraferma per tutto il periodo Medievale e per l’epoca moderna, tanto che fu nominata strada postale della Serenissima369. Inoltre, il territorio di provenienza dei diversi soggetti era ben fornito anche da una fitta rete stradale minore e da numerosi corsi d’acqua che favorivano gli spostamenti locali lungo le diverse direttrici che dal territorio di Mestre portavano verso le direzioni di Padova, Treviso e Bassano.

Nel verificare la loro provenienza ci si accorge che gran parte giungevano dalla podesteria di Noale e in particolare dalle ville di Salzano, Robegano e Taiaruoli, poste a circa venti chilometri di distanza dal luogo designato. Una fetta più ridotta dei frequentatori del bosco proveniva invece dalla podesteria di Mestre, entro cui i collocava il bosco stesso. Quest’ultimi, pur giungendo da villaggi e borghi compresi entro i confini territoriali della podesteria di Mestre, dovevano percorrere un tragitto non molto inferiore a quello di chi proveniva delle ville del Noalese e in alcuni casi spostarsi di una distanza ancora maggiore rispetto alle prime, come ad esempio doveva accadere a chi partiva da Cappella di Martellago, Uniche eccezioni sono da individuare nelle due vicine località di Parlan e Barban, geograficamente attigue al borgo di Catene.

Ci si è chiesti quale fosse stato il motivo che spingeva gruppi di abitanti a percorrere quei lunghi tragitti.

La risposta a questa domanda la possiamo trovare confrontando la distribuzione delle risorse boschive tra le due aree di provenienza degli utilizzatori. Nel caso della podesteria di Noale gli studi condotti da Anna Bellavitis hanno dimostrato che all’inizio dell’epoca moderna quel territorio si contraddistingueva per un paesaggio agrario intensamente ridotto a coltura e per una netta assenza di beni comunali: «tutta la terra è privatizzata e anche la quasi

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A.STANGHERLIN, Scorzè e le sue frazioni, Venezia 1968, pp. 218-220; A.BELLAVITIS, Noale.

Struttura sociale e regime fondiario di una podesteria della prima metà del secolo XVI, FBSR,

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totale scomparsa di zone incolte e paludose, così come la rarità delle aree boschive contribuisce a delineare i tratti del paesaggio dominato dalle coltivazioni e dalla presenza umana»370. A differenza della situazione delle vicine terre di Noale, nell’area mestrina, e in particolar modo nella fascia che delimitava i bordi lagunari estesa in profondità fino alle ville di Chirignago, Zelarino, Carpenedo e Gaggio, il manto boschivo è invece attestato ancora cospicuo nell’estimo del 1542 e in particolare si distinguono i boschi comunali di Chirignago e di Carpenedo, rispettivamente di 100 e 150 ettari circa371. Restando a queste considerazioni, ovvero ad una già ridotta presenza del bosco nel Noalese ai primi del ‘500 e una ancora cospicua diffusione della risorsa nel territorio mestrino fin oltre la prima metà del XVI secolo, a cui si aggiunge l’attestazione della sopravvivenza (seppur ridotta) del bosco comune, si deve concludere che la mancanza della risorsa boschiva nel primo caso spinse gruppi di artigiani a cercare altrove il materiale utile per il loro lavoro e per la loro sopravvivenza.

Per quanto riguarda invece l’esistenza di usi collettivi concessi dal monastero alle categorie umane sopra elencate, la documentazione in nostro possesso non aiuta a fornire notizie precise. In ogni caso è possibile ipotizzare che il bosco delle Catene fosse oggetto di pratiche collettive di sfruttamento delle risorse residuali offerte dal manto boschivo, dato che non vi è traccia tra la documentazione di registrazioni, o private scritture, riguardanti forti prese di posizione dei rappresentanti del monastero contro questi gruppi di utilizzatori del bosco, come invece è stato attestato altrove372. Come si può verificare dal

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A.BELLAVITIS, Noale cit., p. 21.

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M.G.BISCARO, Mestre cit., pp. 25-33. Tuttavia in queste catasticazioni della seconda metà del XVI secolo si rileva la bassa qualità delle piante dei boschi comunali, pieni di ceroni, spini e rove, contro una presenza numerosa di roveri di vario diametro nei contigui appezzamenti e nelle siepi dei benedettini di San Giorgio, G.ZOZZOLETTO, Il bosco Brombeo cit. pp. 18-19.

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Nel caso delle valli da pesca sono documentate numerose prese di posizione anche da parte degli stessi abati nei confronti di chi sfrutta indebitamente le risorse proprie del monastero. In alcuni casi si attesta una reazione anche violenta dei religiosi, che non si limitano di certo ad attendere una eventuale mediazione del giudice. Per esempio l’abate di San Cipriano di Murano attesta in una scrittura di aver sì incendiato il casone dei monaci rivali di San Giorgio, i quali, nonostante i numerosi avvisi, continuavano a pescare nelle sue acque, ma che per questo fu punito assai. Parte degli uomini che con lui parteciparono all’incendio del casono furono infatti condannati al carcere. Egli scrive: «.. andai per far incendèr el cason perturbato [..]. Li quali sono cinque aprestati et dui non se volseno aprestàr per paura. Li quali cinque son questi nominati qui.

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documento sopra riportato, il compilatore non fa alcun riferimento ad ammende o ad altre imposizioni riservate agli uomini per aver tagliato ed estirpato i rami e i ceppi sulla proprietà del monastero.

E’ indubbio che l’avanzata riduzione, o forse la mancanza, di spazi comuni adibiti a bosco assunse un ruolo centrale in questa vicenda. Tali aree erano essenziali per assicurare il soddisfacimento di bisogni ai quali lo sfruttamento individuale del territorio avrebbe risposto difficilmente. L’uso collettivo di incolti e di boschi poteva infatti offrire quel surplus di beni di immediato consumo (paglie, legna ed erbe) difficilmente fruibili in un ambiente agrario quasi del tutto sottoposto alle colture. Risulta pertanto semplice ipotizzare che l’erosione delle superfici sottoposte all’uso pubblico o comunale, verificatasi a partire dalla seconda metà del Quattrocento, favoriva lo spostamento giornaliero, anche a lungo e medio raggio, verso quelle risorse che si aprivano a tale bisogno.

Nel presente caso rimane però ancora da stabilire se l’uso delle risorse boschive (che si presume, a questo punto, direttamente concesso dal monastero o dal suo fittavolo Bonaldo) fosse sottoposto a una forma di pagamento e chi eventualmente beneficiasse di questa entrata. La documentazione esaminata non offre risposte al quesito, ma dobbiamo pensare che in altri casi simili, la documentazione offre notevoli indizi di una chiara ed efficace politica remunerativa portata avanti dai monasteri sui propri incolti e boschi.

In prima don Zuanne da Mantua capellano mio el qual stete cerca mesi cinque, se amalò et da poi do’, poi usito deprison morì; Mathio Tudescho che me servè cercha mesi tre; Antonio Bergamasco, mio fameio, cercha mesi cinque rupe la presone e fuziti; Novello Pallatier alla pallata di Tessera mesi quindese condemnato in presone fortissima per chè dete el fogo al cason. Li altri dui, che non se volseno aprestar, li quali erano maridati cum fioli, andavano errangi. Me convenia subvenire molièr e fioli con ciò che li poveri homini non capitassero male. De la infamia mia ad pena talionis pur anchora pulula e regna et questo perchè sono vestiti de pelle de peccorino intrise cum autem lupi rapaciis et cavete ab eis», ASVe, CRS, Mensa Patriarcale, b. 92, fasc. 281/D.

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II.4. Rischi e vantaggi dell’acqua e del bosco: l’impianto della fornace sul