di Lorenzo Migliorati, Veronica Polin e Liria Veronesi
4. Borgo San Dalmazzo e Valdieri, cinquant’anni di cemento
di Lorenzo Migliorati, Veronica Polin e Liria Veronesi
11. Introduzione
Prima di andarci per trAILs, per me Borgo San Dalmazzo (fig. 8) e, più in generale Cuneo, erano le pagine di Nuto Revelli, uno scrittore che ho molto amato. Anzitutto, la sete di giustizia per le atrocità della Ritirata di Russia: le ultime, nettissime righe di Mai tardi mi hanno tolto ore di sonno, «le vostre tronfie parole vuote non sono che l’ultimo insulto ai nostri morti. Raccontatela a chi la pensa come voi: chi ha fatto la ritirata non crede più ai gradi e vi dice: “mai tardi… a farvi fuori» (Revelli, 1967: p. 204). E poi, l’antiretorica della Resistenza: pietà l’è morta. E la nobiltà del mondo popolare, subalterno, vit- tima di insensati e cialtroni disegni di potere e dominio. La guerra dei poveri (1962), La strada del davai (1966), Il mondo dei vinti (1977), L’anello forte (1985). E, da ultimo, Il prete giusto (1998): la storia di don Raimondo Viale, parroco di Borgo San Dalmazzo, partigiano, antifascista, prete della campagna povera2, libro del quale ho amato anche e soprattutto lo scavo etnografico, la
fonte testimoniale, il metodo. Ma, del resto, c’è un filo rosso che lega le origini del mio sapere (i fatti sociali di Durkheim) alla scuola storica delle Annales di Marc Bloch e Lucien Febvre – quanto durkheimismo c’è ne I re taumaturghi (Bloch, 1924)? – fino alla microstoria del piemontese (ancora una volta) Carlo Ginzburg del cui Domenico Scandella, detto Menocchio (Ginzburg, 1976) ho letto ogni singola riga. Il lettore scuserà questo divertissement autobiografico, ma mi è utile per dire che sono arrivato a Borgo San Dalmazzo carico di aspet- tative e di idee e ho faticato non poco a riportare entro il frame del nostro og- getto la ricerca che mi accingevo a condurre. Segregare le mie idee preconcette dal tema del nostro progetto non è stata cosa facile, né immediata. In effetti,
1 Lorenzo Migliorati è autore dei paragrafi 1, 2 e 6, Veronica Polin dei paragrafi 4 e 5, Liria Veronesi del paragrafo 3.
2 Pochi chilometri separano Borgo San Dalmazzo da Alba, la terra di un altro grande tra i miei riferimenti culturali più eterocliti: quel Beppe Fenoglio che ho tanto amato, fra gli altri ne
La malora: «pioveva su tutte le Langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima
questa parte di Italia è piena di storia: «se guardiamo a sud, a est e a nord ve- diamo le Alpi Marittime, un ambiente già di suo particolare perché è la monta- gna che incontra il mare […]. A est, l’abitato di Borgo San Dalmazzo segna l’inizio della Pianura Padana. Pochi lo sanno. E poi lo stabilimento Italcementi e dietro, un’altura, che si chiama Bec Berciassa […] ed è un sito protostorico dell’Età del ferro; il torrente Gesso che alcuni studi indicano come uno degli avamposti portuali più avanzati dell’epoca etrusca. E, ancora, l’epoca romana quando Borgo si chiamava Pedona ed era un punto di passaggio importante tra l’Impero Romano e le Gallie, verso Cemenelum, l’odierna Nizza» [BSD01].
In questo millenario crocevia di storie, genti e strade, durante la Seconda guerra mondiale e nei decenni successivi arriva e opera Italcementi3, multina-
zionale di materiali da costruzione fondata a Bergamo nel 1864 dalla famiglia Pesenti e attiva fino al 2016, quando viene ceduta al gruppo tedesco Heidelberg
Ciment, segnando la fine di un’epoca industriale più che centenaria e, con essa,
il punto di arrivo della parabola del Novecento moderno, simbolicamente assai significativa. A Borgo San Dalmazzo, Italcementi impianta un enorme stabili- mento di lavorazione (fig. 9) che resta attivo fino allo shuthdown del 2008. Progressivamente, anche gli impianti satellite, dalle cave alle centrali idroelet- triche, hanno assistito ad una fortissima contrazione delle attività, arrivando ad impiegare attualmente poche decine di persone, dopo i fasti del secondo dopo- guerra.
2. «Italcementi sceglie un posto strategico da millenni»
In che comunità arriva Italcementi? E cosa ha rappresentato per Borgo San Dalmazzo e per Valdieri? Sono queste le domande che hanno guidato il tenta- tivo di comprensione delle rappresentazioni collettive del passato che abbiamo cercato di operare nella prima fase della nostra ricerca in questo caso di studio.
Come ad Eisenerz, abbiamo ritrovato qua il topos che rappresenta la gente di montagna come chiusa, lontana dai grandi flussi, unito alla fierezza dell’ope- rosità e della bontà d’animo: «è il tipico carattere della gente alpina: concrete, operose, laboriose e aperte, a dispetto di alcuni schemi costruiti nel tempo di montanari rozzi e chiusi. Non è così perché le Alpi sono sempre state una zona di transito: non una barriera ma una cerniera che ha unito i versanti europei» [BSD01]. In effetti, la storia di questa terra mette chiaramente in evidenza que- sta apertura: «Borgo San Dalmazzo ha un flusso migratorio in entrata e in uscita molto alto: noi cambiamo cinque seicento cittadini all’anno. La città cambia volto in pochi anni […] contiamo cinquantaquattro nazionalità diverse e questo la dice lunga […]. Grazie a questo melting pot locale la città è molto cresciuta sia dal punto di vista economico che culturale e sociale» [BSD02].
Uno dei testimoni ci riferiva che «non esiste il puro abitante di Eisenerz» [E03]; i nostri interlocutori a Borgo riprendono la medesima questione: «il bor- garino tipico si sta estinguendo» [BSD02]; «la città di Borgo è composta so- prattutto da non borgarini. La popolazione originaria è sempre meno e questo penso sia dovuto alla vicinanza delle città» [BSD04]. È una questione che anche le piccole cose della vita quotidiana rilevano: «qua si parlava occitano e poi, con il passare del tempo, si è passati al piemontese e all’italiano. Ecco, parlare italiano in una famiglia significava qualcosa come “ci siamo riscattati”. Cam- biamenti anche nel modo di vivere, nell’alimentazione, nel lavoro» [BSD03].
Nella bella testimonianza che abbiamo potuto raccogliere presso il sindaco di Borgo San Dalmazzo è ricorso spesso il tema identitario, lungo un versante duplice. Da un lato, abbiamo l’identità sociale “borgarina” che rivendica orgo- gliosamente l’apertura, l’inclusione, la mescolanza di culture: «Borgo ha saputo relazionarsi con altre culture, con l’emigrazione prima dal sud dell’Italia e poi anche con quella europea e internazionale […]. Non ci sono discriminazioni, siamo una città integrata, abbiamo saputo immergerci nel nuovo che arrivava e ne abbiamo colto le opportunità» [BSD02]. A questo plesso identitario di fondo, fa da contraltare la questione industriale che, invece, pare meno fluida: «siamo in cerca di una nuova identità; forse abbiamo smarrito la nostra identità. In quel caos primordiale dell’avvento industriale dove ci si sentiva quasi degli dei […], perché le grandi industrie che arrivavano a Borgo lo sottolineavano: lavoro per tutti, progresso illimitato, sarà sempre così, infinito, ci siamo accorti qualche decennio fa che non era così. Borgo deve diventare una terra di pas- seggio, non di passaggio» [BSD02].
L’enorme sito industriale di Italcementi rappresenta un po’ la metafora di questo ingombro identitario che non si sa bene da che parte prendere. Mi espri- merei volentieri dicendo che se ad Eisenerz l’Erzberg è inscritto nelle forme più profonde dell’identità e della cultura degli abitanti, il cementificio di Borgo è una sorta di relitto, di fossile culturale di una passata età dell’oro che, però ha marcato soltanto di striscio l’identità delle persone. È interessante seguire que- sta parabola. C’è una generazione per la quale la fabbrica ha significato tutto e il resto della popolazione per la quale essa è semplicemente un fossile del pas- sato e un fastidio di cui disfarsi.
Che si diceva a Borgo quando il cementificio era in costruzione? «Quel che si è detto anche anni dopo quando era in costruzione lo stabilimento Michelin. Queste novità ci porteranno vantaggi o no? Prenderanno noi o gente da fuori? Alla fine, è stato un vantaggio perché poi è migliorato tutto» [BSD03]. «Io sono entrato all’Italcementi nel 1972, a ventitré anni […]. Mio padre, un giorno ha incontrato il geometra e dice “ho un figlio da far lavorare”. Si entrava così…Italcementi io la stimo perché ci ho mangiato trentatré anni, ma è diven- tata grande anche per le risorse umane e di questo territorio. Questa è la mia posizione pur dando tutta la stima a quella grande fabbrica che è stata per me un punto di vita» [BSD05]. Le storie personali si intrecciano con la storia
industriale: «quando Italcementi è arrivata ad Andonno, il Comune le ha ven- duto la montagna per 75.000 lire purché desse lavoro alla Valle Gesso. “Ormai, quelli che sono entrati all’Italcementi sono signori!” si diceva […]. Un mio collega che, quando sono entrato io, aveva 75 anni, […] mi diceva: “fortuna che c’è Italcementi, sennò cosa facevo io ad Andonno con due mucche e nove in famiglia?”» [BSD06].
È la storia dell’Italia contadina che si lascia dietro il passato e si lancia nel sogno moderno; sogni di progresso, di avanzamento, di riscatto sociale che pas- sano per i sacrifici e l’accettazione stoica delle più precarie condizioni di esi- stenza. Una utile metafora di questo spirito è l’immagine del proprietario dello stabilimento – il padrone – perché, nell’ambivalenza con cui viene rappresen- tato, rimanda a quella generazione subalterna che stava per dare vita al boom economico del dopoguerra: «io Pesenti una volta l’ho visto…» [BSD05]; «l’azienda aveva un atteggiamento paternalistico verso la popolazione. C’erano delle borse di studio per i figli degli operai […] che nel 1966 era di trentamila lire, una cifra discreta che alla mia famiglia consentiva di comperarmi i libri […] Veniva data una festicciola nei pressi dello stabilimento e i figli degli ope- rai erano orgogliosi. Inoltre, Italcementi aveva una casa estiva a Varazze dove molti di noi sono andati per la prima volta al mare» [BSD01]. In un certo senso, ritroviamo nel padrone della fabbrica lo stesso brotgeber che abbiamo trovato in Austria.
Si fa avanti un tema, che troveremo anche nel caso studio francese di L’Ar- gentière-la-Bessée, relativo alle disuguaglianze e agli squilibri che la sostitu- zione della società contadina con la modernità industriale porta con sé e che provoca profondi mutamenti nell’identità collettiva della comunità: «tra operai c’era molta invidia. Molti lavoravano per un’impresa che si era stabilita qua vicino. Una sera sono tornato a casa e ho detto a mio padre: “papà, quasi quasi faccio domanda per venire a lavorare qua. Laggiù [in Italcementi, NdA] ci sono soltanto terroni [espressione idiomatica per designare spregiativamente gli abi- tanti delle regioni del sud Italia, NdA]”. “Lavori meglio insieme ai terroni che ai paesani!” E aveva ragione! Tra paesani c’era troppa invidia» [BSD06]; «paura, paura di perdere il posto di lavoro perché allora chi aveva due mucche era già ricco… il lavoro non c’era. Quando è arrivata Italcementi si lavorava in condizioni di-sas-tro-se! Si mangiava quella minestra oppure stavi a casa con le tue due mucche…» [BSD07].
Nasce il senso della coscienza di classe in una generazione nata contadina, diventata operaia e che ha trasformato radicalmente le vecchie strutture sociali: «la fabbrica ha dato e ha preso. Ci sono state molte lotte e molti conflitti; ab- biamo fatto quaranta giorni di sciopero… “rispetta il padrone che ti fa man- giare”, si diceva. Io lo rispetto il padrone, ma dò anche le mie braccia, la mia salute» [BSD05]; «erano conquiste… […] io lo penso da anni: dovrebbero fare un monumento al minatore, a ricordo di chi ha lavorato lì» [BSD07].
La fabbrica pervade e attraversa la vita di questa comunità, ne plasma le opinioni, gli atteggiamenti, i comportamenti. La porta fuori dall’Italia conta- dina e la introduce alla modernità industriale: «per esempio, la scansione della giornata lavorativa all’Italcementi scandita dalla sirena che si sentiva in tutto il paese alle 8 del mattino, alle 12, alle 14 e alle 18 segnava la giornata del lavoro in fabbrica ed è venuta a segnare anche la giornata del paese, sostituendo le campane […]. Tutto ciò era talmente sentito che al Venerdì Santo, alle tre del pomeriggio, le sirene dell’Italcementi suonavano e tutti nella fabbrica e nel paese si fermavano per qualche minuto» [BSD01].
I nostri testimoni hanno ben presente l’ambivalenza che ha accompagnato il rapporto che ha legato questo territorio alla “fabbrica”: «un rapporto di amore e odio […]. Di amore perché lo stabilimento è entrato nel tessuto proprio della popolazione, non solo di Borgo, ma anche delle valli circostanti. E invece, forse non di odio, ma di preoccupazione quando negli anni hanno cominciato ad emergere problemi: inquinamento: convivenza difficile…» [BSD01]. Il tema ambientale e della qualità della vita ha accompagnato l’inizio della fine dell’età dell’industria: «Io vivevo sotto i camini di Italcementi. Negli anni Settanta ci si risvegliava al mattino e la città era bianca, ma qui era accettato perché la fab- brica dava lavoro e la gente accettava questo piccolo mostro che, di notte, espel- leva dalle sue fauci veleno» [BSD02]. È notevole e diffusa questa caratterizza- zione cromatica dell’esperienza di questa presa di consapevolezza: «le persone notavano questa polvere bianca sui balconi, sulle foglie, sui vestiti» [BSD01]. Un’esperienza che avvolge tutti i sensi: «e poi il rumore… il rumore della fab- brica ha cominciato a dare fastidio […] e poi centinaia, migliaia di camion che transitavano per le stradine strette del paese e, infine, […] le malattie, e le morti per alcune malattie come la silicosi…» [BSD01].
Accanto alle tematiche ambientali, avanzano trasformazioni industriali e re- strizioni nel mondo del lavoro in fabbrica: «è arrivata la centralizzazione [la chiameremmo razionalizzazione: meno operai per medesime attività, NdA] senza cambiare la meccanica industriale […]: serviva per sfruttare al massimo gli impianti, sfruttando gli operai […]. Nel 2004 vado all’Unione industriali […] viene lì e ci dice “forse, due cementerie sul territorio saranno troppe…”. Nel 2008, passo di lì, accompagnavo mia moglie e vedo uno sciopero, allora mi sono fermato e sono andato lì: “guardate che io mi ricordo questa roba qua…” e ‘sta roba qua, in sostanza, ci ha portati alla situazione attuale» [BSD05].
La dismissione industriale, tuttavia, non ha significato la fine per questa co- munità così resiliente, anzi. I testimoni la raccontano quasi come una cosa fra le tante, in un territorio che ha saputo reinventarsi: «io credo, e non lo dico con superbia, che a livello economico [la chiusura] abbia impattato poco perché tutti si sono ricollocati in altre aziende e qualcuno ha colto questa crisi come una sfida personale per mettersi in proprio […]. C’è stata questa reazione tipica
di questa gente che vuol tirarsi su le maniche e non piangersi addosso» [BSD02].
Resta, e non è problema da poco, il corpo fatiscente della fabbrica, forma materiale e testimone di una vicenda chiaramente conclusa: «quelle ciminiere che tanti anni fa hanno rappresentato un momento felice di sviluppo industriale, adesso sembrano un po’ il cimitero di qualcosa che si vorrebbe cancellare; c’è una nuova sensibilità rispetto all’ambiente» [BSD02]; «avranno da bonificare […] dove si vada a finire non lo so; i problemi sono sul territorio perché hai delle dighe, dei canali che attraversano le montagne… […] È diventata da grande risorsa a, adesso, un problema e questo mi preoccupa come cittadino» [BSD05].