• Non ci sono risultati.

di Lorenzo Migliorati, Veronica Polin e Liria Veronesi

2. Inquadrature, soggetti e montaggio

Spesso per la natura stessa di questi particolari, la scelta dell’inquadratura è stata il dettaglio o il primo piano. Poi ci sono stati i campi lunghi e lunghissimi, osservati da punti di ripresa spesso difficili da raggiungere ma che hanno per- messo di registrare immagini che potessero dare un’idea delle dimensioni e delle distanze. Panoramiche e totali dei paesaggi alpini, delle strade, delle case e dei siti industriali. I grandi protagonisti del progetto, i brownfield, i siti di- smessi dove ho registrato vetri rotti, ragnatele, vecchi documenti di lavoro, og- getti dimenticati, detriti, resti, scarti, frammenti di un’epoca di lavoro (fig. 16 e

17). Spazi enormi, spesso sprangati, immobilizzati e sospesi in uno spazio- tempo a sé, da anni fermi a fare ruggine.

Le strade e i simboli sono stati altri soggetti di questo lavoro. I percorsi, ripresi con le action cam fissate sulle auto (fig. 18), che arrivano al centro delle città e da lì conducono ai siti dismessi. Mostrare le vie che dalla piazza de L’Ar- gentière-la-Bessée o dal centro di Tržič portano alla fabbrica, rende disponibile il racconto dei tempi in cui i lavoratori quella stessa strada la percorrevano a piedi, in fila, per andare e tornare dal lavoro.

Le riprese dei luoghi significativi di cui hanno raccontato i protagonisti delle interviste – come l’Horloge des Hermes (fig. 2) imponente e visibile da tutta la vallata che pare essere stato costruito per volontà del padroneaffinché i lavo- ratori arrivassero puntuali in fabbrica – diventano simbolo e visualizzazione del passato industriale delle comunità che abbiamo conosciuto.

Inquadrature, campi e piani, punti di vista, dettagli, figure e gesti: tutti gli elementi non verbali hanno costruito sistemi immediati e visualizzazioni ma sono stati anche rappresentazione delle parole: ore di registrazione delle inter- viste ai testimoni privilegiati di ogni caso di studio.

Dopo la registrazione – quando la sensibilità e la capacità di condurre l’in- tervista e fare ricerca fanno veramente la differenza – c’è la fase di post-produ- zione. Il montaggio di interviste inizia sempre con un lavoro attento e sistema- tico di selezione: visionare il girato, ascoltare e riascoltare, sbobinare, leggere, tradurre, comprendere. “Entrare” in quello che l’intervistato sta comunicando. Coglierlo, assorbirlo e poi scegliere quali frasi, quali parole, quali espressioni lo restituiscono meglio allo spettatore.

Dopo aver riorganizzato il materiale, ho operato selezioni e tagli con l’obiet- tivo di essere quanto più fedele possibile alle dichiarazioni originali e contem- poraneamente efficace nella restituzione della ricerca. Mettere in sequenza, una frase dopo l’altra, un testimone dopo l’altro, scegliere cosa prima o cosa dopo, per ricostruire – attraverso le dimensioni indagate – un racconto autentico degli ultimi decenni. E poi ci sono le pause, che nella produzione di un documentario, in una fiction o in un format televisivo, in un video istituzionale o in un tutorial avrei tendenzialmente trattato come scarto o minimizzato. Ma in questo caso, i silenzi sono un po’ come la ruggine.

Quei momenti in cui l’intervistato si ferma a pensare perché la domanda gli sta dando modo di cercare tra i ricordi o l’occasione di pensare al futuro in modo nuovo. Quelle piccole esitazioni, quelle espressioni sul volto che ho rivi- sto durante l’analisi delle registrazioni e ho riconosciuto come significative, identitarie di ciò che l’intervistato stava raccontando di sé e della sua comunità. Scegliere di tenere nel montaggio finale queste pause, di non trattarle come scarto e anzi, a volte sottolineandole con la colonna sonora o con il ritmo di montaggio, è stata una scelta specifica per avvicinare lo spettatore, per farlo entrare in contatto con quello che ci è stato raccontato dell’Erzberg,

dell’Italcementi, della Pechiney, della BPT. Anzi dell’ex-Pechiney, dell’Italce- menti che fu, della vecchia BPT.

Riascoltando tutte le interviste durante il montaggio, ho ritrovato quella vena nostalgica – sperimentata di persona durante le site visit – dei tempi d’oro che furono, una tristezza che si palesa nello sguardo delle persone che ho in- contrato e conosciuto, da Eisenerz a L’Argentière-la-Bessée, passando per An- donno e Valdieri. Di chi ha visto quella fabbrica nascere e poi morire, di chi ci ha lavorato tutta la vita e senza quel posto di lavoro non avrebbe potuto far studiare i propri figli. Di chi forse oggi non riesce ad immaginarsi una riquali- ficazione e resta ancorato a quel passato industriale che ha dato lavoro a un’in- tera vallata. Ho ascoltato la rassegnazione e percepito la consapevolezza di chi si rende conto che la comunità di cui è parte sta cercando una nuova identità.

Complessivamente il materiale registrato conta più di seicento minuti di in- terviste in quattro lingue e oltre 1 terabyte di riprese: inquadrature, racconti e sensazioni, tutto materiale che ha permesso di ricostruire il passato, di immagi- nare il futuro e di raccontare il presente attraverso storie di vita e sentimenti.

Il risultato sono i quattro video «Nür ein Brotegeber», «La chiamiamo pie-

tra, ma era il nostro petrolio», «Qu’est-ce qui va rester?» e «Voda je bila za moč, zdaj je za pitje» che raccontano i relativi brownfield e diventano strumento

di conoscenza, utile anche per immaginare la riqualificazione dei territori alpini di Austria, Italia, Francia e Slovenia.

Il caso sloveno ha avuto una lavorazione differente perché a causa della pan- demia di Covid-19 non è stato possibile visitare e filmare i luoghi di Tržič. Tantomeno, incontrare e intervistare testimoni significativi. Tutte le attività di ricerca per il caso di studio sloveno sono state adattate in funzione delle possi- bilità e così è stato anche per il video. Ho avuto l’opportunità di lavorare con i partner locali che ci hanno fornito ottimo materiale di ripresa e videointerviste per il montaggio. Ma l’impossibilità di essere fisicamente a registrare tra le vie di Tržič e a contatto con le persone che la animano è stato un limite fortissimo nella realizzazione del quarto video, soprattutto nella fase di montaggio. È man- cata la site visit, l’occasione per cercare tra i dettagli, per riprendere questo o quel particolare, da questo o quel punto di vista, è mancata la possibilità di cercare l’inesplorato e registrare prima nella mente poi in camera l’esperienza

Tržič. La mancanza dell’incontro di persona, della conoscenza diretta ha signi-

ficato l’assenza totale del percepito che negli altri video è stato tradotto in im- magini in movimento da restituire allo spettatore. Certamente mi rimane la cu- riosità di visitare Tržič e di poter registrare con la camera il qui e ora, un gesto, uno sguardo, un oggetto tra la polvere.

In realtà vorrei tornare anche ad Eisenerz, a Borgo, Andonno, La Roche-de- Rame. Per cercare ancora più in profondità, per soddisfare la curiosità, per pas- sare qualche altro giorno tra la ruggine e cogliere ancora più significati. Perché pur essendo luoghi diversi e distanti, con specificità e storie differenti, nei si- stemi immediati che ho registrato e restituito, ci sono elementi contigui e

comuni. Dalle registrazioni emergono sentimenti e pensieri simili, in alcuni casi le medesime parole usate dai cittadini di Borgo San Dalmazzo e dagli abitanti di Eisenerz. Estratti di queste registrazioni potrebbero essere montate in uno qualsiasi dei quattro video e sarebbero perfettamente attinenti.

Vorrei visitare di nuovo questi siti per conoscere meglio i tratti del carattere degli abitanti di queste comunità, all’apparenza e a primo impatto chiusi, duri, come tutti loro ci hanno raccontato: «siamo gente di montagna e la vita in mon-

tagna è dura». Tutti loro che in un primo momento ci hanno guardato con dif-

fidenza, noi forestieri che giravamo per strada, sotto le loro case con le video- camere e a far domande. E forse era anche la prima volta che un team di ricerca e una troupe giravano per il paese e mostravano interesse per la loro storia. Tutti loro che poi si sono aperti e hanno raccontato la nostalgia, le fatiche, le conqui- ste. Ci hanno mostrato i cimeli di una vita e a fine giornata ci hanno ringraziato, magari portando in dono una fetta di crostata. E per chi si interessa alla ruggine, è un gesto che commuove.

Ho scelto di conoscere e raccontare storie autentiche, senza accontentarmi di una didascalia, di ciò che semplicemente appare e prende forma dai pixel di una ripresa, ma indagando dimensioni specifiche a supporto della ricerca. In- sieme al team di ricerca ho provato a tradurre l’esperienza attraverso sequenze di immagini significative, a volte imperfette da un punto di vista puramente tecnico, ma certamente frutto delle esplorazioni dell’occhio della videocamera al servizio della conoscenza delle comunità protagoniste dei casi di studio del progetto.

Conclusioni