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Brevi osservazioni sul testo della proposta di Regola- Regola-mento del Consiglio in materia di titolo esecutivo

euro-peo per i crediti non contestati

Dott. Giacomo OBERTO, giudice del Tribunale di Torino

In considerazione della brevità del tempo a mia disposizione mi limiterò a svolgere cinque schematiche osservazioni sulla proposta di regolamento del Consiglio sul «Titolo Esecutivo Europeo per i crediti non contestati», cercando di evitare di ripetere ciò che è già stato illu-strato dai relatori e dagli interventori che mi hanno preceduto. Dirò subito che questi punti si riferiscono ad altrettante limitazioni che rischiano, a mio avviso, di restringere eccessivamente (oserei dire: in modo del tutto intollerabile) l’operatività, sul piano pratico, di uno strumento, quale il titolo esecutivo europeo, nel quale invece tutti noi giudici europei dobbiamo fermamente credere.

L’osservazione che vorrei porre in cima alle mie riflessioni, pur doverosamente riconoscendone il carattere utopistico (specie alla luce del dibattito che ha preceduto il progetto attuale), investe la scelta stessa di politica legislativa consistente nel circoscrivere l’applicabilità del titolo esecutivo europeo ai soli crediti «non contestati». L’espe-rienza italiana in materia di crediti non contestati in seno ai procedi-menti ordinari, maturata con riferimento all’applicazione dello stru-mento di cui all’art. 186-bis c.p.c., dimostra, invero, che i casi di reale mancata contestazione (nelle cause, beninteso, non contumaciali) sono numericamente quanto mai ridotti, per non dire quasi del tutto inesistenti. A parte, dunque, l’ipotesi del decreto ingiuntivo non (tem-pestivamente) opposto (1), lo strumento in esame rischia di apparire riferibile, in concreto, alle sole pronunce emesse a seguito di giudizio contumaciale (2), vale a dire per un tipo di procedimento la cui inci-denza statistica nel nostro Paese, da sempre piuttosto marginale, mi sembra stia in questi ultimi tempi ulteriormente diminuendo.

(1) In questo vorrei allinearmi all’opinione favorevole espressa da molti degli interventori che mi hanno preceduto, sebbene vada riconosciuto che un’espressa men-zione, nel regolamento comunitario, di tale particolarità italiana (così come dei suoi omologhi di altri Paesi) avrebbe il pregio di eliminare in nuce ogni possibile dubbio.

(2) Ciò, sia ben chiaro, senza destare alcun tipo di scandalo, ancorché la conclu-sione appaia in contrasto con la tradizione e l’esperienza italiana (su cui varrebbe forse la pena di cominciare a riflettere).

Vale la pena di chiedersi, pertanto, se la predisposizione d’un mec-canismo tanto perfezionato, complesso e penetrante, quale quello disci-plinato dalla proposta di regolamento in esame, sia giustificata dalla modestia della relativa sfera d’applicazione. Non mi faccio dunque scru-polo, in questa sede, di fare appello ad un vero e proprio «atto di corag-gio» da parte di chi rappresenterà il nostro Paese nel corso dei lavori che porteranno alla redazione della versione definitiva del regolamento, affinché in un’ottica ancor più «europeista» (cui – si badi – tutti, bene o male, riconoscono si dovrà prima o poi comunque accedere) si arrivi ad un ampliamento del campo di operatività del regolamento ai «crediti»

tout court, a prescindere dalla loro contestazione (o meno) nel corso del procedimento che ha preceduto la formazione del titolo esecutivo.

La seconda limitazione che vorrei mi fosse consentito stigmatizzare è data dal requisito della liquidità del credito (art. 1). Confesso in propo-sito che la prima reazione, nel leggere il testo della disposizione in ogget-to, è stata di stupore: non vi è dubbio, invero, sul fatto che, nei titoli giu-diziali (ma ciò vale, ovviamente, anche per quelli stragiugiu-diziali) il credi-to sia, per definizione, sempre liquido (3). Se si vuole dunque attribuire senso a tale aggettivo occorre inevitabilmente riferirlo al credito non già risultante dal titolo, bensì a quello fatto valere nel corso del giudizio che ha portato all’emanazione del titolo, prima che il giudice provvedesse alla relativa (ed eventuale) liquidazione. Ma, se così stanno le cose, riesce davvero difficile comprendere per quale ragione il giudice europeo dovrebbe essere ritenuto meritevole di fiducia quando risolve una que-stione contrattuale condannando una parte, per esempio all’adempi-mento (pagaall’adempi-mento della prestazione pecuniaria dovuta), mentre lo stes-so giudice non dovrebbe più esserlo, allorquando, in quella stessa causa, condanna quella stessa parte al risarcimento del danno conseguente a quello stesso inadempimento (e, ovviamente, a maggior ragione, quando procede alla liquidazione d’un danno per responsabilità ex delicto).

La terza limitazione consegue alla previsione di cui all’art. 1, co.2, lett. a), secondo cui «il presente regolamento non si applica: a) ai dirit-ti di proprietà derivandirit-ti da regimi matrimoniali, da testamento o da successione». In proposito, come esattamente osservato dal Presiden-te Prof. Verde, va detto subito che il riferimento alla «proprietà» è già

(3) A meno che non si vogliano considerare le sentenze di condanna generica, nelle quali peraltro di «credito» in senso tecnico-civilistico sembra difficile poter par-lare, dal momento che in esse difetta il requisito della determinatezza attuale della pre-stazione dovuta.

escluso dal fatto che il titolo esecutivo europeo non può riguardare se non «crediti» e dunque rapporti obbligatori. D’altro canto, pure il sistema legale inglese, dal quale l’espressione è mutuata, conosce e distingue in modo chiaro e netto i property rights dai personal rights, proprio con riguardo alla materia dei rapporti patrimoniali tra coniu-gi (4). L’impiego dell’espressione in esame mi sembra (con le debite riserve del caso) però qui mostrare l’intenzione del Legislatore di allu-dere in maniera ellittica a quel groviglio di diritti reali e di credito nascenti dai rapporti patrimoniali tra coniugi, con conseguente esclu-sione di ogni pretesa (reale od obbligatoria) che trovi origine in siffat-to genere di rapporti. Per ciò che attiene poi alla seconda parte di quel-la disposizione, è chiaro che l’espressione «testamento o successione»

(sebbene mutuata da altri testi sovranazionali) costituisce, quanto meno, un’endiadi parziale, posto che la successione testamentaria rap-presenta sicuramente una forma di successione mortis causa.

Stando così le cose, vi è veramente da chiedersi se, ponendosi in un’ottica più in generale, sia il caso di mantenere siffatte esclusioni, che non sembrano giustificarsi alla luce di alcun ragionevole principio.

Una quarta limitazione, che rischia davvero di rendere in pratica del tutto inapplicabile la normativa in esame, è contenuta nella prima parte dell’art. 2, co. 3, laddove si afferma che il credito deve ritenersi non contestato «se non dipende da una contropartita». A parte l’infe-lice espressione usata nel testo italiano («contropartita», in luogo, semmai, di «controprestazione») per rendere quella reciprocal consi-deration del testo inglese, il presupposto secondo cui il credito «non deve dipendere da controprestazione» rischia di escludere tutti i cre-diti nascenti da contratti a prestazioni corrispettive. Dico e sottolineo

«rischia», poiché, a ben vedere, il diritto al pagamento del prezzo, per esempio, nel contratto di vendita, non «dipende», di per sé, dal trasfe-rimento della proprietà, né tanto meno dalla consegna del bene in capo al compratore (5), posto che esso nasce – e dunque «dipende» –

(4) Cfr., per esempio, CRETNEYe MASSON, Principles of Family Law, London, 1997, p. 121 ss.

(5) Tranne che, ovviamente, le parti non abbiano espressamente condizionato l’in-sorgenza dell’obbligazione del pagamento del prezzo all’intervenuta verificazione del-l’effetto reale del trasferimento della proprietà o alla consegna del bene. E’ altrettanto noto che la mancata esecuzione di una prestazione legittima la risoluzione del con-tratto, ovvero la proposizione dell’exceptio inadimpleti contractus, ma non per questo può dirsi ancora che, in un contratto sinallagmatico, il credito «dipenda» dalla con-troprestazione, posto che la controparte ben potrebbe astenersi dal chiedere la risolu-zione o dal far valere l’eccerisolu-zione d’inadempimento.

dal solo contratto. Ma il contratto (per lo meno quello che noi chia-miamo contratto a prestazioni corrispettive) non sussiste se non sulla base della consideration data dallo scambio delle prestazioni: in que-sto senso, dunque, taluno potrebbe spingersi a sostenere che l’obbli-gazione, per esempio, al pagamento del prezzo di una vendita, potreb-be anche ritenersi «dipendere» dal trasferimento della proprietà della cosa venduta e dalla relativa consegna (in quanto la prima prestazio-ne non può venire in essere se non in forza della reciprocal considera-tion, o, se preferiamo, del sinallagma genetico, dato dallo scambio con le ultime due).

Mi sembra inutile spendere altre parole per evidenziare l’effetto devastante di tale interpretazione sul campo di operatività dell’isti-tuendo titolo esecutivo europeo. La mia proposta si muove dunque nel senso della radicale eliminazione di siffatta limitazione.

Un’ultima limitazione che vorrei mi fosse consentito criticare riguarda il riferimento alla sola conciliazione giudiziale di cui all’art.

2, comma terzo, lett. a) (6). Sappiamo, invero, tutti che nella pratica del processo civile italiano le transazioni eventualmente (talora assai faticosamente) raggiunte nel corso del giudizio, sovente anche per effetto dei buoni uffici del giudice, ben raramente vengono ufficializ-zate ex art. 185 cpv. c.p.c. Ora, non si riesce a comprendere per quale ragione una transazione inter partes non dovrebbe avere rilievo, ai fini di cui alla norma citata, sol perché essa non è stata sottoscritta (o vistata) anche dal giudice, posto che comunque ciò che diviene esecu-tivo non è l’accordo in sé, ma la sentenza eventualmente emanata a seguito dell’accordo transattivo stragiudiziale.

Concludo queste mie telegrafiche osservazioni rimarcando che le critiche sopra esposte non mirano in alcun modo ad attaccare lo stru-mento in sé del titolo esecutivo europeo, né, tanto meno, l’idea sotte-sa a tale istituto: l’idea, cioè, che il titolo esecutivo, ed in particolare il titolo giudiziale, formatosi in uno stato dell’Unione Europea sia – con il rispetto di determinate condizioni di forma e contenuto – in grado di essere speso in uno o più altri Paesi dell’Unione stessa. Le mie

riser-(6) Mi sembra, invero, che proprio al concetto di conciliazione giudiziale faccia riferimento il requisito della «transazione approvata dal giudice». Si noti che in questa dizione potrebbe anche farsi rientrare la conciliazione raggiunta davanti al c.t.u. e dichiarata esecutiva dal giudice ex art. 199 c.p.c., intendendosi – con un po’ di buona volontà – l’apposizione del decreto di esecutività alla stregua di una forma di «appro-vazione».

ve si muovono semmai proprio nel senso di una spinta verso una coraggiosa rimozione di tutti quegli ostacoli che potrebbero ridurre considerevolmente, se non addirittura vanificare del tutto, un princi-pio che invece appare meritevole della più favorevole considerazione.

Mi permetto di insistere su tali aspetti, anche nella mia qualità di esponente dell’Unione Internazionale dei Magistrati e dell’Associazio-ne Europea dei Magistrati, organismi che da anni si battono per il riconoscimento di un ruolo sempre più pregnante ai giudici europei nella battaglia per la piena affermazione dei principi dello stato di diritto e della giustizia nelle diverse parti del nostro continente.