• Non ci sono risultati.

L’espulsione

Il 9 luglio del 1970, in un discorso a Misurata, il raīs attaccò violentemente gli italiani dicendo che il colonialismo gridava vendetta per le sofferenze che il popolo libico aveva patito sotto Giolitti, Mussolini, il fascismo. Per il raīs, era stata un’Italia sanguinaria e tirannica, anche se distingueva l’Italia colonialista da quella colla quale ora faceva affari: «Quando noi citiamo l’Italia, riferendoci alle complesse relazioni che abbiamo con essa e al nero passato, dobbiamo assolutamente riconoscere, oggi, l’attuale nobile e amichevole atteggiamento che essa assume verso la giusta causa araba» (Del Boca 1988, p. 469).

In sostanza pone un distacco tra l’Italia del passato e quella del 1970, principale partner commerciale e primo acquirente del petrolio libico.

Chiede, tramite l’ambasciatore Borromeo, che il Ministro degli Esteri Aldo Moro, venga a trattare a Tripoli, anche se lo chiede con l’arroganza di chi sa che l’Italia ha importanti concessioni petrolifere in Libia, necessarie per il suo sviluppo industriale.

È più che un ricatto. In Italia è ancora vivo il ricordo del 1973, quando i paesi arabi ridussero ridotto la fornitura di petrolio per effetto della cosiddetta guerra del Kippur con Israele e causarono gravi danni all’industria italiana. Un’improvvida politica non aveva previsto di differenziare le fonti e l’Italia ora ne pativa le gravi conseguenze energetiche

Gheddafi intuisce che per mantenere il potere deve coagulare il popolo contro un nemico: gli italiani. L’ENI è concessionaria di grandi giacimenti petroliferi e il raīs libico immagina che Moro accorra immediatamente al suo invito per “inchinarsi”. Così può dimostrare la sua potenza al Paese e al mondo. Vuole rinegoziare con l’Italia il conto del colonialismo e mostrare ai libici il suo prestigio internazionale.

Minaccia l’espulsione immantinente degli italiani, l’esproprio dei loro beni, la confisca dei capitali come risarcimento dei danni prodotti dall’Italia coloniale.

Moro ha altri problemi e la Farnesina sottovaluta la psicologia dei beduini. Il Ministro degli esteri e presidente del partito di maggioranza è assillato dalla crisi di governo: deve risolvere complesse questioni di politica interna, la “fine della Prima Repubblica”. Questa per lo statista rappresenta una priorità.

La Farnesina risponde: «Nel prendere atto del desiderio libico di ricevere una delegazione ufficiale italiana per risolvere i problemi esistenti tra i nostri due Paesi, la S.V. vorrà tener presente che crisi governativa in corso non consente per ora di adottare decisioni circa

38

possibile effettuazione visita at livello politico …» e non manda a Tripoli un sottosegretario, neanche un usciere (Scoppola Iacopini 2012, p.162).

Per il Colonnello il rinvio dell’incontro, che doveva essere un atto d’umiliazione dell’Italia e di riconoscimento delle colpe del colonialismo, vanifica i suoi obiettivi e fa decadere le possibilità propagandistiche dell’evento, per rinforzare il regime.

In realtà Moro si muove, ma secondo i criteri della diplomazia e questi sono completamente ignorati dall’omologo ministro libico Salah Messaud Buesssir.

Moro vola prontamente a Beirut accompagnato, da una delegazione di tutto rilievo di esperti di politica libica, per incontrare Buessir.

All’argomentazione degli italiani che pongono delle riserve «… sul fondamento giuridico dei provvedimenti di confisca, nonché … di validità e legittimità dell’accordo italo - libico del 1956», Buessir, dopo un aspro esordio contro l’Italia, si abbandona ad una serie di spudorate affermazioni che la accusano d’aver condotto una «politica d’annientamento in Libya». Falsificando provocatoriamente ed esagerando episodi, il ministro degli esteri libico, sostiene che l’Italia aveva operato una decimazione della popolazione libica e che durante il fascismo, « … ogni giorno morivano 150 prigionieri sepolti in fosse comuni e che i registri di stato civile confermavano i decessi […]». Presenta statistiche demenziali come quella che sostiene che per le epurazioni italiane, la Libya non si era sviluppata demograficamente. Afferma che «… nel 1911 i libici erano tre milioni come i tunisini. Ora i tunisini sono 4 milioni e mezzo e noi siamo ora un milione e mezzo». Secondo il ministro degli esteri libico gli italiani avevano fatto il genocidio del 50% della popolazione libica!

Era chiaro che a tali assurdità provocatorie, Moro non poteva replicare se non mantenendo un atteggiamento equilibrato. Evitando spunti polemici, cercava di trovare la soluzione per i poco meno di 20.000 italiani bloccati, ai quali viene impedita la partenza dalla Libya per un inestricabile groviglio burocratico: espropriati di ogni avere e denari, i conti correnti bloccati, per poter partire avrebbero dovuto pagare: tasse, bollette di luce, di acqua, gas, le cartelle esattoriali della nettezza urbana, estinguere mutui e fidi bancari: un controsenso.

Moro affermava che è «… assolutamente intollerabile che la collettività italiana in Libya non fosse gradita, ma al tempo stesso non le fosse permesso di lasciare il Paese perché intrappolata in un calvario burocratico». (Varvelli 2009, pp. 126-129).

Paradossalmente era questo che stava avvenendo: cacciavano gli italiani, espropriavano loro ogni bene, bloccavano le loro attività imprenditoriali e i loro soldi, ma li trattenevano invischiandoli sadicamente in un “pantano” di pratiche burocratiche per puro sadismo.

39

5.2 - L’esproprio

Il 21 Luglio 1970, il Consiglio della Rivoluzione aveva promulgato tre leggi che prevedevano la confisca di tutti i beni immobili, mobili e di tutti i capitali degli italiani residenti in Libya. Gheddafi pontificava sui media che «… è ferma convinzione del popolo libico che è giunto il momento di recuperare la ricchezza dei suoi figli e dei suoi avi usurpata durante il dispotico governo italiano che ha oppresso il Paese in un periodo oscuro della sua gloriosa storia in cui ci fu l’uccisione e la dispersione e l’aggressione da parte dei colonialisti italiani per occupare i beni del popolo …» (Del Boca 1988, p. 470).

Mentre «… la stragrande maggioranza degli italiani non era neppure al corrente che in Libia esistesse una comunità di così grandi proporzioni e di interessi economici così rilevanti» (Del Boca 2001, p. 49), gli italiani di Libya accoglievano, ancora una volta, la notizia increduli e si sentivano abbandonati dall’Italia. Erano convinti che Moro sarebbe arrivato e sistemato tutto. In ambasciata, al consolato, erano stati sempre rassicurati ché la situazione era sotto controllo e ora arrivava loro l’incredibile notizia dell’esproprio e dell’espulsione.

Era una cosa inimmaginabile. Pensavano che si sarebbero “risvegliati” da quell’incubo. La situazione era caotica. Le scuole italiane, di ogni ordine e grado, il Liceo Dante Alighieri, l’Istituto Tecnico Gugliemo Marconi, la Scuola Roma; anche il Circolo Italia, il Centro di cultura “Dante Alighieri” dovettero immediatamente sgombrare.

Le istituzioni religiose di ogni tipo, compreso l’Istituto dei Fratelli Cristiani che aveva accolto decine e decine di libici, le Suore Francescane, Giuseppine, l’orfanotrofio delle “Suore Bianche” alla Madonna della Guardia, l’ospizio dei vecchi, degli invalidi di “Casa San Giuseppe” che accoglieva tutti i poveri, i vecchi, gli orfani e i disabili. Tutti si chiedevano quale fastidio dessero a Gheddafi le opere pie che tanto bene avevano portato al Paese.

Le chiese, sarebbero state requisite per essere trasformate in moschee. A Roma esisteva una sola moschea e per il contrappasso una ne sarebbe restata a Tripoli: la chiesa di San Francesco alla Ḍahra.

Era molto facile mettere una mezzaluna al posto della croce: a trasformare l’architettura si sarebbe provveduto in seguito. I calici, gli arredi sacri furono requisiti. I religiosi: frati, preti, suore e fratelli d’ogni ordine piangevano consegnandoli ai soldati.

I documenti dell’anagrafe, i fascicoli dei certificati che riguardavano gli italiani da oltre mezzo secolo, furono caricati sui camion e “letteralmente rovesciati” nel giardino del consolato creando un caos indescrivibile. Molti documenti si persero in quel marasma.

Nel documento diplomatico telegrafico del 2 Agosto 1970, l’ambasciatore d’Italia a Tripoli Borromeo, sconfortato scriveva: «Non ho ancora visto il fondo delle mie quotidiane amarezze

40

[…] eseguendo gli ordini, il Ministero degli Alloggi ci ha invitato a sgomberare il Liceo Dante Alighieri, l’Istituto Tecnico Guglielmo Marconi e l’Istituto di Cultura, entro 24, prorogate a 48 ore, […] libri, biblioteca […] carteggio scolastico, segreterie […] verranno collocati in locali del Consolato già adibiti a Stato Civile […] per la Scuola Roma è questione di giorni. Ministero Esteri non fattosi vivo, Sottosegretario assente; in queste condizioni stimo più dignitoso procedere sgombero senza ormai più elevare alcuna protesta» (Scoppola Iacopini 2012, pp. 290-291).

Per il lavoro di trasloco il Consolato mobilitò dei volontari italiani, ma per la fretta imposta ne derivò una tale confusione che alcuni fascicoli di certificati andarono persi.

Tutte le attività degli italiani dovevano essere liquidate rapidamente senza lasciare tracce e gli ex colonialisti dovevano lasciare il Paese nel più breve tempo possibile non prima di aver assolto tutti gli obblighi e pagamenti dei debiti per poter partire. Si verificarono situazioni incresciose in tante famiglie miste in cui a rimpatriare coercitivamente era soltanto il membro italiano, mentre l’altro non italiano poteva o doveva rimanere se era impegnato in una attività o se era vincolato da un contratto col governo o con qualche ente libico per le consegne. C’era stupore e dispiacere per quello che stava avvenendo anche tra alcuni libici. Gli anziani, quelli avevano avuto maggiori rapporti con gli italiani erano i più amareggiati. Dopo la guerra c’era stata una frequentazione assidua e le collettività collaboravano in più situazioni economiche e di lavoro e i rapporti interpersonali di vicinanza avevano raggiunto una grande familiarità. I giovani, invece, mostravano ostilità.

5.3 - L’Ufficio dei beni nemici

Fu istituito il cosiddetto “Ufficio dei Beni Nemici” nel grande padiglione dell’Italia, della nuova fiera campionaria. Era stato donato alla Libya dall’Italia in occasione della sua inaugurazione.

Lì, dopo aver ultimato le operazioni d’esproprio “in situ” bisognava ottenere la “dichiarazione di nullatenenza” e dimostrare d’aver ottemperato tutti gli obblighi come il pagamento delle bollette delle utenze, tasse e saldato tutti i debiti.

Per avere il visto d’uscita bisognava aver consegnato i beni ad una commissione che faceva l’inventario, catalogava tutto con pignoleria e sadismo. A gestire le commissioni erano stati posti giovani studenti e militari. Aumentavano il disagio e moltiplicavano i problemi.

41

Tutti i documenti dovevano essere stilati in arabo standard 29. Gli italiani nati nel dopoguerra avevano studiato l’arabo classico come lingua obbligatoria a scuola, dalla seconda elementare fino alla maturità. Più o meno bene tutti parlavano il dialetto libico, ma era difficile stilare gli atti colla macchina da scrivere, coi caratteri in arabo e col verso da destra a sinistra.

Gli italiani meno giovani parlavano bene il libico, uno dei dialetti ma’rebi, che è una lingua locale parlata, ma non scritta (Trombetti 1939, Panetta 1943, Pereira 2008) e, avendo frequentato le scuole in epoca coloniale, non avevano studiato la scrittura araba e tantomeno conoscevano l’uso delle macchine da scrivere con caratteri arabi.

Adempiere l’obbligo richiesto per il visto d’uscita generava negli anziani problemi pratici e uno stato d’ansia esasperante o il ricorso a copisterie e traduttori, molto impegnati.

La fila, sotto il sole torrido di luglio, davanti al padiglione era lunghissima. Qualcuno si era portato un ombrellone e uno sgabello per lenire l’attesa, ma ci furono malori, colpi di calore, svenimenti. I militari preposti ai controlli erano sprezzanti, maleducati e ad ogni cavillo, vero o presunto, respingevano la domanda di rimpatrio e bisognava ricominciare tutto da capo. La ressa all’ingresso e allo sportello era indescrivibile. I militari che la controllavano, ordinavano la fila spingendo le persone con la canna del fucile, trattando con arroganza. I graduati che esaminavano i documenti, aggredivano chi non rispondeva alle domande in arabo e insultavano chi aveva compilato il modulo in italiano, come era tollerato al tempo del regno. All’Ufficio dei Beni Nemici si verificavano situazioni che mettevano a dura prova la dignità personale, organizzate dai militari per schernire e umiliare. Il rimpatrio forzato imponeva tempi ristretti e dopo l’esproprio sorgevano volutamente molteplici situazioni di difficoltà alle quali si doveva ottemperare con un’infinità di pratiche burocratiche. Chi non era libico e mussulmano non doveva né poteva restare e nulla gli era dovuto di tutto che possedeva. Il distacco era infinitamente doloroso, anche perché, tra le cose care che si lasciavano c’erano le spoglie dei defunti nel cimitero cristiano di Hammangi 30.

Al porto si rinnovava il disagio: tutti in fila sotto il sole davanti al posto di controllo e senza mezzi per potersi riparare. Si verificavano situazioni indescrivibili per violenza e crudeltà, l’assenza di ogni atto umanitario, anche verso i bambini assetati.

29 Si intende per arabo standard una elaborazione parlata e scritta di quello classico che è la lingua liturgica e

che, per la sua complessità, non è comunemente utilizzato nella prassi.

30 Il cimitero cristiano è stato più volte profanato così come è avvenuto per quello ebraico. Le associazioni degli

italo –libici si sono impegnate per trasferire le salme richieste in Italia e oggi per custodire ciò che rimane del cimitero.

42

Quello che accadde in quei giorni è solo in parte conosciuto e i racconti, riferiti dai profughi rimpatriati, furono considerati troppo soggettivi e contaminati dalle emozioni per essere presi in carico dalla storia. Per una frangia della Sinistra le angherie dei libici sugli italiani di Libya, vennero considerate una giusta rivalsa alle colpe del colonialismo e del fascismo.

Vari Storici hanno approfondito questi accadimenti (Del Boca 2001; 2007; 2008; Romano 2005; Manca 2011; Mezran,Varvelli, 2012; Cresti e Cricco, 2012; Scoppola Iacopini 2012, 2015; Rainero 2015, Audenino, Tirabassi 2016).

In questa descrizione, ho cercato solo di “tratteggiare a matita” alcuni di questi drammatici avvenimenti. Molte storie, hanno trovato spazio in pubblicazioni diverse, in romanzi e racconti (Capretti 2004; Pachera 2011; Mazzantini 2011, D’Anna 2017, Paolino Geiger 2017, Dawan 2018). Le storie testimoniate che ho raccolto in questa tesi, sono “memorie veritiere”, orali e documentali ottenute dopo più di quattro decenni, da fonti attendibili, da persone rintracciabili che furono protagoniste e ne conservano ferma la memoria. E altrettanto impresse nella loro memoria sono le storie del loro inserimento nel tessuto sociale italiano, che saranno raccontate in questa tesi.

43