• Non ci sono risultati.

Tripoli 15,12,1951, grado d’istruzione, Medico psicoterapeuta.

I genitori provengono dal Meridione, dalla Sicilia il padre (SR) e dalla Calabria la madre. Emigrano in Libia con i Ventimila di Balbo negli anni Trenta (1938). Si stabiliscono in Cirenaica dove coltivano un podere. Sfollati a Tripoli durante la guerra, il padre lavora come dirigente di una concessionaria di auto. Racconta come ha vissuto la rivoluzione di Gheddafi, quando aveva 16 anni, l’espulsione e all’arrivo della nave dei profughi a Napoli, quando furono accolti da una folla della sinistra radicale che li contestava con insulti, bandiere rosse e li tacciava d’essere fascisti che usurpavamo il lavoro. Inviato al campo di Calzanella, ne descrive lo stato pietoso. Si impiega alle Poste, studia Psicologia e poi Medicina specializzandosi in Psichiatria.

124

Mi chiamo Andrea Carcea, sono nato a Tripoli il 15 dicembre del 1951, da genitori che arrivarono a Tripoli nel 1928-30.

I genitori di tuo padre e tua madre cosa facevano?

Erano contadini e andarono giù con Balbo. Gli fu assegnata una casa colonica in Cirenaica dove iniziarono lì la loro attività di contadini. Poi i miei nonni vendettero il podere e si trasferirono a Tripoli. Mio padre era direttore della Gordon Woodroffe concessionaria della Jaguar, Land Rover Triumph. A Tripoli mio padre incontrò mia madre e si sposarono. Ebbero tre figli, me Susanna e Cinzia Carcea che vivono a Livorno.

Quando sei tornato in Italia?

Nell’agosto del 1970. In nave.

Raccontami del tuo rientro in patria.

Sono ricordi che ancor oggi evocano una certa emozione perché noi praticamente abbiamo passato l’adolescenza in quel posto e lasciarlo è stato un grande dolore. Oltre che lasciare dei beni materiali, immobili, abbiamo lasciato una gran parte di noi, le amicizie, i luoghi dove abbiamo passato la nostra vita di giovani, il giardino dei Fratelli Cristiani dove giocavamo e facevamo attività sportive. Quello che abbiamo perso va al di là di quello che sono i nostri beni materiali, sicuramente.

Quando ci fu il colpo di stato io non credevo, non credevo perché non conoscevo, non avevo esperienze di questo genere. Forse incoscientemente pensavo che il fatto che fosse scoppiato un colpo di stato non avrebbe cambiato la mia vita.

Dove eri quando ci fu la rivoluzione?

Ero nella mia abitazione a Tripoli in Shar’a Mohammed Al-Fatah, che dava sul cortile dei Fratelli Cristiani. La via prima si chiamava Via Quintino Sella, che poi andava in Shar’a Al- Nasser e via Roma dall’altra parte. La finestra sul retro della mia abitazione dava sul palazzo reale e quindi seguimmo tutti i movimenti delle guardie reali. Non ci furono morti e feriti. Speravamo che la rivoluzione non avesse ripercussioni su noi stranieri. Poi invece …

Quanti anni avevi allora?

Sedici anni.

A quell’epoca c’era una trasmissione su una televisione libica che annunciava per conto del Consiglio della Rivoluzione cosa dovevamo fare noi italiani per abbandonare il paese. Solo lì ci rendemmo conto a che cosa andavamo incontro.

Vi hanno fatto pagare anche il biglietto della nave e tutte le spese? E come andò alla partenza della nave?

125

È un’ottima domanda questa qui. Mi posizionai cogli altri a poppa della nave. Tutti guardavano la scia e il porto che si allontanava. Era tutto un rimescolamento di sentimenti, di emozioni. Non nascondo che mi scappò qualche lacrima. Rimaneva lì una parte di me. Anche ora a me quando ci penso mi commuovo.

Speravo un giorno di poter tornare. Questa era la mia speranza che, non nascondo, vive ancora dentro di me anche se sono consapevole, cosciente che non avverrà mai più.

In realtà, se avvenisse non sarebbe più la tua Tripoli, ma una Tripoli diversa. Il paesaggio non è solo lo spazio fisico, ma anche le persone che lo popolano, i sentimenti di queste persone che ci sono dentro che sono state in relazione con te. Ci sei più tornato a Tripoli?

No. Non andai perché non volli vedere una città priva di vita.

C’è un bellissimo libro che sto leggendo che parla dei profughi istriani e dalmati e che dice: “Immaginate una città completamente vuota dei suoni, delle parole familiari, abitata da suoni, lingue diverse …».

Anche per questo io non vorrei tornare a Tripoli. Non è più la mia Tripoli. Sono d’accordo con te. Se tu torni ora a Tripoli cosa trovi? […]. Io non tornerei più e, quando vedo ciò che sta succedendo, sostengo che siamo stati fortunati a salvare la pelle. All’epoca Moro e l’Italia intervennero, ma non in nostra difesa. Per lo più per salvare l’ENI.

Già! Fummo oggetto …

No. Per me non fummo oggetto brutale di scambio, come ho letto su Facebook, questo no. Via gli italiani, ma no i pozzi petroliferi. Sono però convinto che è sempre per il solito problema di non perdere posti di lavoro, di una svalutazione e le solite cose che sappiamo. A Napoli, all’arrivo della nave, come vi hanno accolto?

Quando arrivammo a Napoli, che era la nostra prima destinazione, la prima cosa che ho notato è che c’era la banchina del porto che era piena di bandiere rosse. Piena, piena di bandiere rosse. C’erano tra la folla delle persone che erano lì presenti con un megafono e che ci dicevano che non eravamo ben accetti, che eravamo andati lì a portar via i posti di lavoro agli italiani, che eravamo dei fascisti.

Eravamo spaventati, spaesati, non riuscivamo a sapere cosa sarebbe stato il nostro futuro in una nazione che per noi era soltanto un riferimento, come posso definirlo, più mentale, affettivo.

Però per me l’Italia e, parlo a titolo personale, io non la ritenevo la mia patria perché io ero nato in Libia, ero vissuto in un’altra nazione che non in Italia.

Sì, in Italia ero venuto per turismo, per trovare i miei nonni. La mia vita però era altrove e poi non capivo questo atteggiamento nei nostri confronti.

126

Eravamo già abbastanza sofferenti per la situazione e inoltre fummo costretti ad accettare le condizioni di questa nuova destinazione ... Tutta questa gente che era lì che urlava che eravamo fascisti, che eravamo lì per togliere il lavoro agli italiani, che dovevamo andare via. Che quello non era il nostro paese, che dovevamo andare via

E dove?

In effetti questa è un’altra bella domanda. Dove dovevamo andare? Ci passò per la mente di andare via, che so: in Australia, in Nuova Zelanda.

Di fare la domanda per andare via. E io la feci, solo che in quel periodo lì il numero era già chiuso. Mi sposai, ebbi il primo figlio e rinunciai ad andare via. Andai ad abitare in Friuli, a Pordenone. Ora mi sono trasferito in un paese là vicino a Pordenone, a Fiume Veneto, dove ho costruito la casa.

Conosco più o meno la zona perché sono stato per qualche mese ad Aviano, al Centro di Riferimento Oncologico col quale avevamo un progetto di collaborazione sulla genetica del carcinoma dell’intestino […].

Poi, dopo lo sbarco ci portarono al campo profughi di Calzanella.

Anche noi andammo a Calzanella. Però per me non fu così drammatica perché io ero già a Padova all’università e andai a Napoli a prendere mia nonna e mia madre che arrivavano con la nave. Dato che dovevamo avere tutti il certificato di profugo dovemmo passare a registrarci a Calzanella per avere la qualifica di profugo della Libia. Utilizzai questa qualifica solo quando feci il concorso in ospedale, ed io ero anche orfano di guerra […]. Comunque pensando alla situazione attuale della Libia, c’è andata anche bene. Abbiamo salvato la pelle. Poi hai cominciato a lavorare. Dove?

Presso le Poste di Udine. Ho trovato un gruppo di lavoro solidale che mi ha aiutato tantissimo. Io ero molto giovane, mi ero sposato a 19 anni, non conoscevo il friulano e a Udine, dove avevo cominciato l’attività, parlavano solo il friulano.

Mi hanno aiutato tantissimo perché sapendo che ero giovane, che mia moglie era giovane e che avevo questo figlio, mi hanno aiutato tantissimo.

A Napoli invece, a Calzanella …?

A Calzanella invece fu un problema. Ci diedero una baracca; eravamo in cinque in una baracca. Fu un trauma perché trovarsi in quella situazione, di un cambiamento radicale del tenore di vita, in quelle condizioni lì. Per fortuna ci rimanemmo poco perché dopo un paio di mesi ci trasferimmo a Livorno dove io stetti un mese. Poi partii per il Friuli per incontrare mia moglie che è friulana, di Gemona del Friuli.

127

Lavorando mi laureai prima in psicologia e poi in medicina a Padova. Sono medico psicoterapeuta.

Ho cominciato a lavorare prima in un consultorio familiare, poi in una clinica, la clinica San Giorgio e infine ho aperto uno studio privato quando sono andato in pensione.