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Tajiura 18,10, 1942, dirigente agenzia Alitalia,

Nonni materni siciliani, di Trapani emigrano in Libia nel 1912, e abitano con la famiglia a Bengasi. Il padre è napoletano di madre calabrese e fa il militare a Bengasi. I genitori

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d’Umberto si sposano. La madre diventa un’esperta sarta sotto la guida di una signora greca. Durante la guerra la famiglia Vaccarini è sfollata a Tripoli; la madre lavora come sarta, Umberto inizia a lavorare giovanissimo, coll’Alitalia fa carriera fino a diventare capo agenzia. Racconta in dettaglio l’assedio subito da parte di una folla di manifestanti alla ricerca di ebrei, durante il pogrom del 1967 e di quando dopo il decreto d’espulsione furono costretti a chiudere la sede Alitalia e rimpatriare, subendo il disagio e le umiliazioni da parte dei funzionari libici. Tutti i lavoratori italiani Alitalia in Libia trovarono sistemazione in Italia, anche se molti per ragioni economiche preferirono, come Umberto, sedi all’estero (Zambia).

Intervista condotta mediante telefono l’11, 9, 2018.

Quando e quali sono le motivazioni per cui la tua famiglia andò in Libia?

Tutto nacque dai miei nonni materni che sono di Trapani. A Trapani nel 1912, non è che si vivesse bene. Mio nonno con il fratello gemello partirono per la Libia e andarono a Bengasi

Lo sai che anche mia moglie è di Trapani? È nata a Trapani.

Sì? Chissà, magari siamo lontani parenti …!

Mio nonno si chiamava Alberti. È un nome conosciuto a Trapani, c’è un negozio di ferramenta, che talvolta frequento e che vende anche piatti, bicchieri, vasi di terracotta… .

Esatto. Io sono venuto a Trapani tre volte per lavoro, ma non ci siamo mai riusciti ad incontrarci. Sono dei cugini di mio nonno […].

Mio nonno che si chiamava Ignazio ed il fratello Giuseppe andarono in Libia come piastrellisti e loro lavorarono lì quando costruirono la cattedrale di Bengasi.

Arrivati giù, dopo un anno e mezzo richiamarono la moglie e le tre figlie: mia madre, mia zia Nazzarena e la più piccola Sebastiana.

Arrivate a Bengasi mia madre ha conosciuto una signora greca che aveva una sartoria molto avviata. A mia madre piaceva cucire e così riuscì a farsi assumere da questa signora greca. Il marito aveva uno dei più grossi negozi a Bengasi. Si chiamavano Karidakis e si trovava in una piazza grandissima, anzi quella era la piazza principale di Bengasi, con un palazzone enorme […]. Li erano andati a trovare per abitare.

Mio padre era napoletano, ma di madre calabrese. Non trovando lavoro a Napoli si arruolò come militare volontario e lo mandarono a Bengasi, nel Genio, col grado di maresciallo. Un giorno mia madre con mia zia, che stavano facendo una passeggiata passarono davanti a un ritrovo dei militari.

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A quei tempi, lo sai, era difficile andare dietro una ragazza e così si fece presentare da un conoscente per il primo appuntamento. La cosa andò avanti e si sposarono. E fu uno dei primi tre matrimoni nella nuova cattedrale di Bengasi.

Quanti fratelli siete voi?

Io e mio fratello che è del ’48.

Mia madre continuò a lavorare con questa signora. Si fece le ossa come sarta.

Poi, scoppiata la guerra, con l’invasione degli inglesi, gli italiani scapparono su un camion tra i tanti che partivano da Bengasi o da Tobruk e andarono a Tripoli, sfollati, ma senza sapere dove andare.

Mia madre era incinta. Li portarono in quella scuola elementare, ti ricordi, quella che si trovava dietro le scuole nostre. Quella scuola che stava dopo l’angolo della cartoleria Cappello, vicino dove era il sarto Turtulici. Non ricordo proprio come si chiamava quella scuola. Rimasero tutti ammassati in questa scuola qui, dormendo sulle brandine per un po’ di tempo.

Però, dopo un po’ , mia madre conobbe alcune persone che le trovarono un appartamento in via Lazio, dove rimase per un po’.

Poi conobbe la famiglia dei Zichichi, che non hanno niente a che fare col fisico famoso, che avevano una concessione a Tarhuna, colla famiglia Napoli.

Mio padre, intanto, era ancora militare e faceva su e giù con i camion, lavorava per tutta la settimana e tornava la domenica, ma Tarhuna era troppo lontano e così si avvicinarono a Tripoli e andarono a Tajura [cittadina a 12 chilometri da Tripoli], dove sono nato io.

Mi hanno battezzato nella chiesetta che c’era là a Tajura e che ora hanno buttato giù …

Ho una fotografia di quella chiesetta …

Ce l’ho anch’io. Ti dirò che prima di partire definitivamente da Tripoli sono andato là, mi sono fatto dare tutti i registri e mi sono fatto una decina di copie del mio atto di nascita originale e di altri documenti [i registri e gli atti dell’anagrafe, nelle note circostanze dell’espulsione degli italiani, furono disordinatamente scaricati da un camion nel giardino dell’ambasciata italiana e di molti documenti che andarono persi si dovettero stilare degli atti notori sostitutivi del’originale].

Mio padre, allora ancora militare, si fece trasferire a Tripoli […].

Umberto, l’ultima volta che ci siamo visti o sentiti mia hai raccontato della storia “dell’assedio” alla sede dell’Alitalia a Tripoli nel 1967, quando ci fu il pogrom degli ebrei …

Però facciamo un salto indietro nel tempo … Dopo la guerra, durante l’occupazione britannica chi voleva tornare in Italia poteva tornarsene e chi voleva rimanere in Libia si

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prendeva le sue responsabilità e i rischi.

Mio padre decise di rimanere e si mise a lavorare cogli inglesi. Così ci trasferimmo per circa tre anni in Via Goffredo Mameli, vicino ai fratelli Cristiani.

Nel frattempo la maestra di sartoria di mia madre, la signora greca, la Karidakis, era scappata da Bengasi, suo marito era stato preso prigioniero e lei si era stabilita nel grande palazzo dell’INFPS, che poi divenne INPS, quello di fronte alla Cattedrale, te lo ricordi?

Ci rimase qualche anno, in attesa di notizie del marito che non sapeva dove stava. Mio padre che lavorava cogli inglesi seppe che era finito in Egitto e attraverso delle conoscenze riuscirono a farlo tornare a Tripoli.

Una volta tornato decisero di tornare a Bengasi dove avevano tutti gli averi. Così quest’appartamento di dodici stanze, bagni eccetera nel palazzo dell’INPS fu dato da questa signora a mia madre che così si poté aprire una sartoria.

Così andammo ad abitare in Piazza Cattedrale, una vista bellissima, appartamento bellissimo, dietro Shar’a Baladia, sui giardini del lungomare […].

Frequentavo la Cattedrale, ancora era Vescovo Monsignor Facchinetti, facevo il chierichetto per raccomandazione di Padre Umile Oldani […] e tutte le mattine alle 6 andavo a servire messa in cattedrale. Mio padre si svegliava alle 5,30 per andare al lavoro e alle 6, quando fra Angelo [il frate guardiano] apriva i portali della Cattedrale andavo a servire messa […]. Uno dei miei ricordi infantili rimane la vista di questa enorme chiesa che io conoscevo di giorno, ma che non avevo visto mai al buio [all’alba].

[…] Quando dovetti andare a scuola mi portarono alla prima elementare dai Fratelli Cristiani.

Scusa Umberto, arriviamo al ’67 …

[…] Giovanissimo ancora coi pantaloncini corti, entrai a lavorare alla SECI, la società elettrica [c’è un dettagliato racconto dell’intervistato sugli avvenimenti che lo porteranno all’assunzione in Alitalia] e dal primo di novembre del 1961 ero un dipendente Alitalia, ancora in Shar’a ‘Abdul ‘Aziz. Nel 1962, siamo passati poi a quella bella agenzia che avevamo in Shar’a Haiti, con gli uffici di rappresentanza, l’ufficio prenotazioni e poi c’erano gli uffici in aeroporto.

Eravamo in tutto una sessantina di persone, tutti italiani tra cui cinque donne. Iniziai al terminal per fare il cheek in, prendere i passeggeri, metterli sul pullman e poi feci carriera […] fino a diventare vice capo agenzia. Capo agenzia sono diventato quando è scoppiata la guerra dei sei giorni, tra arabi ed israeliani e a Tripoli ci fu il caos tra arabi ed ebrei […]. Capo agenzia in quel momento era un ex funzionario della TWA che, impressionato del pogrom agli ebrei, diede le dimissioni e rimpatriò in Italia.

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Io divenni Capo agenzia […] e andavo anche spesso anche a Bengasi. [l’intervistato racconta che a Bengasi, visto l’andamento positivo dell’agenzia, insieme ad un collega chiede all’Alitalia un contratto italiano e non locale].

Scusami Umberto, ma ti devo fare delle domande precise se no tu mi racconti tutta la tua storia che, seppur interessante, ha poca importanza ai fini che ci proponiamo … nella mia tesi. A me interessa ciò che mi hai già raccontato di quando ci fu il pogrom nei confronti degli ebrei … e del tuo rientro in Italia dopo la cacciata nel 1970.

Il 5 giugno 1967, io ero in attesa della mia prima figlia che è nata il 22 luglio 1967…

Tu ti eri già trasferito a Tripoli?

Sì. Alle dieci, dieci e mezza sentiamo un casotto per le strade, urla, grida....

C’erano pietre che volavano e noi avevamo una grande vetrina colle serrande scorrevoli. Abbiamo cercato di chiuderci dentro colle saracinesche, ma intanto queste pietre arrivavano e hanno spaccato pure la vetrina.

Abbiamo visto che questa gente aumentava sempre di più e stava diventando un caos. Ci siamo detti: “Che facciamo? Chiudiamo tutto e saliamo al piano superiore dove c’erano gli uffici di direzione”.

Così siamo saliti al piano superiore e ci siamo barricati dentro; abbiamo messo dietro la porta divani e mobili e tutto quello che potevamo. Se quelli venivano sopra ci riparavano un poco. Poi chi prendeva il bastone della scopa chi l’estintore per l’incendio, qualunque cosa per poterci difendere da quella folla inferocita. Insomma, c’erano in tutto dieci donne [tra passeggere e personale] e le abbiamo chiuse in bagno e siccome c’era un lungo corridoio abbiamo pensato che per aggredirle dovevano passare su di noi.

Ad un certo punto sentiamo urlare. Erano due generali che avevano l’ufficio al terzo piano del palazzo, un ufficio di import - export.

Questi, quando i hanno visto i generali e si sono subito fermati. “Cosa volete? In questo palazzo non ci sono ebrei. Andatevene!” In realtà in quel palazzo non c’erano ebrei e così se ne sono andati. […]

In quel palazzo ci abitava il fotografo Casella, il ragioniere Frojo, c’era la Morris …

Così si sono allontanati e ciascuno di noi di corsa se n’è andato a casa propria. Nei giorni successivi abbiamo chiesto a Generale Zentuti, il capo della polizia federale una camionetta per spostarci da casa al lavoro.

Nelle notti successive, dopo il pogrom, non si poteva circolare col coprifuoco. Noi, comunque, sotto scorta, dovevamo andare alla Ḥara, nel quartiere ebraico, per prendere i bagagli degli ebrei ed imbarcarli.

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Una mia cara amica ebrea, in un’intervista mi ha raccontato che la portarono colla famiglia in aeroporto e l’imbarcarono. Si diceva che addirittura c’erano persone nel corridoio dell’aereo …

Questa è una cosa che è circolata e che io devo smentire.

Ti dico anche questo. Due anni fa ho ricevuto una telefonata: «Questa è la RAI […] stiamo preparando un programma […] chiamato “Il dono” […]. Parleremo di un episodio perché abbiamo ricevuto una lettera da una persona che ha raccontato che durante la guerra del 1967, a Tripoli, una famiglia ebrea che si è imbarcata […] sull’aereo dell’Alitalia e ha fatto il viaggio in piedi, salvandosi».

Non è vero niente! È assolutamente falso […], non potevano viaggiare in piedi. In realtà c’erano stati dei disguidi per la famiglia ebrea prenotata che non poté partire e al suo posto ne fecero partire un'altra, salvandola. Questi ultimi, riconoscenti volevano ringraziarci pubblicamente in trasmissione […].

Partiti tutti quanti gli ebrei, in Libia riprende la normalità e ci sono stati due anni, dal 1967 al 1969 posso dire tranquilli. Lavoravamo tutti, c’era benessere col petrolio. Poi succede la faccenda di Gheddafi e arriviamo al 22 luglio dove ci dicono a tutti di presentarci alla Fiera alle 8.00 del mattino.

Le otto, le nove, le dieci, le undici e intanto il sole era uscito ed era alto sulle teste. Caldo da pazzi, gente di una certa età che sveniva.

Andavamo alla fontana a prendere l’acqua per bagnarci il viso e la testa.

Ad un certo punto arriva un tizio che ad alta voce dice: “Entro settembre tutti voi, residenti italiani in Libia, dovete lasciare la Libia”.

Questa era la situazione e praticamente dovevamo presentarci in un ufficio all’ultimo piano del palazzo di fronte a Ruben, sai quello dei libri [un ufficio governativo vicino alla libreria Ruben che era già stata espropriata, perché di un ebreo].

Noi dovevamo andare lassù, in un palazzo di sei piani [descrive minutamente la zona e il palazzo che ha l’ascensore bloccato e la faticosa ascesa all’ultimo piano].

Eravamo tutti in fila indiana in una scala strettissima, per portare la documentazione per poter rimpatriare.

E quando arrivavi all’ufficio, c’erano delle persone che in maniera maleducata ti rimproveravano e ti rimandavano indietro: “Devi portare la bolletta che hai pagato la luce. Non hai pagato il gas, dov’è la bolletta dell’acqua? Il modulo è sbagliato! Torna domani …!”. Tutto da rifare!

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allora ti rilasciavano un documento per andare alla Tirrenia o all’Alitalia o ad altre compagnie. Con questo permesso potevi pagarti il biglietto per partire.

Anche quando ci fu la storia degli ebrei ci fu la stessa cosa.

Se veniva un ebreo noi dell’Alitalia non potevamo fargli il biglietto per partire se non avevano quel documento dove c’era scritto che queste persone avevano passato tutti i vari step e avere il timbro sulla carta dove c’era scritto che potevi lasciare la Libia.

File da non credere, caldo, trattati in una maniera indescrivibile … come animali. Quando camminavamo per la strada …: «Brutto fascista, italiano fascista …».

Non potevi mica reagire perché non era uno contro uno, perché ti ricordi come finiva. Cominciava uno e poi finiva uno contro dieci. […]

Io sono tornato [in Italia] il 15 ottobre del ’70. Comunque un certo numero di noi aveva il contratto italiano, ma la maggior parte aveva un’assunzione locale e quindi come andava a finire in Italia?

Poi venne fatto il decreto o la legge, non so, e ci furono quelli che avevano contratto locale chi col Banco di Roma, chi al Banco Sicilia, chi al Banco di Napoli e furono integrati tutti in Italia. Altri alle Poste, Telefoni e ministeri. Noi all’Alitalia eravamo in sessanta e solo tre o quattro hanno abbandonato l’Alitalia e sono andati a fare altre cose. Tutti gli altri sono stati assunti, chi a Roma, chi a Fiumicino, chi a Pisa, chi a Firenze, chi a Milano e chi a Torino … però chi era entrato in Alitalia non aveva vita facile. Eravamo degli intrusi. Noi eravamo per loro gente che aveva poca voglia di lavorare, eravamo gente incompetente, non del mestiere, gente che aveva sempre sfruttato la situazione che aveva sfruttato tutti quanti. Non è stata un’accoglienza tranquilla, una vita carina e questo è durato per diversi anni …

Vi dicevano che avevate sfruttato gli arabi … ce l’avevano con voi perché molti che magari aspettavano il posto da un certo tempo si vedevano scavalcare da un italo – libico? […]

No questo in Alitalia non è avvenuto […]. O meglio, alcuni colleghi dell’Alitalia me l’hanno detto …, ma io personalmente non ho avuto problemi in questo senso. Forse per la mia posizione … Quando io ero ancora a Tripoli l’Amministrazione della Alitalia mi aveva comunicato che piuttosto che rientrare in Italia. […]. potevo andare in Zambia.

Io ero d’accordo e così andai in Zambia,

Conosco altre persone dell’Alitalia che furono trasferite in Zambia […].

Umberto, certamente di quest’intervista trascriverò i fatti salienti anche perché e oltre un’ora e tre quarti che chiacchieriamo e l’ora è tarda.

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