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Capitolo 3 Le politiche industriali nei settori infrastrutturali di pubblica utilità

3.1. Un cambiamento generale di paradigma

La liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi infrastrutturali di pubblica utilità (tra i quali rientra il trasporto ferroviario), si configurano come un vasto processo (per alcuni settori solo parzialmente completato) che è stato avviato in tutti i paesi europei (a velocità e ritmi molto diversi) a partire dal principio degli anni ’90 su impulso della legislazione comunitaria.

Tale processo va contestualizzato nel generale mutamento di paradigma di politica economica ed industriale avvenuto in maniera assai brusca nei paesi europei a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo passato.

A partire dalla fine degli anni '70 del novecento, per complesse e variegate ragioni di carattere politico ed economico si afferma lentamente il dominio delle politiche economiche di ispirazione liberista.

Le basi teoriche di riferimento del nuovo corso sono il monetarismo della scuola di Chicago, sorto come ripresa del punto di vista pre-keynesiano sulla spiegazione dei fenomeni macro-economici (in contrasto quindi con le politiche di ispirazione keynesiana variamente implementate in Europa occidentale nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale) e la teoria economica neo-austriaca favorevole ad un laissez faire radicale e ad un vasto disimpegno dello Stato dal suo ruolo di attore e regolatore economico.

Il nuovo corso liberista impone, come sue ricette, la fuoriuscita dello Stato dall'economia, in quanto elemento di distorsione dei meccanismi fluidi del libero mercato.

In termini di finanze pubbliche ciò doveva implicare la fine delle politiche espansive monetarie e fiscali. Dunque rigore finanziario, diminuzione dell'imposizione fiscale, perdita di progressività delle imposte, riduzione drastica

del debito pubblico, autonomia della politica monetaria della Banca Centrale dai governi.

In termini di politica industriale, la ricetta imponeva la triade deregolamentazione- liberalizzazione-privatizzazione, ovvero politiche favorevoli al pieno dispiegarsi dei meccanismi di mercato ritenuti perfettamente funzionanti in termini di efficienza statica e dinamica. Come vedremo nel dettaglio in seguito, specifici paradigmi teorici di interpretazione della nozione di concorrenza e specifiche interpretazioni del ruolo dell’evoluzione tecnologica nei diversi settori, hanno contribuito a spianare la strada ai processi di liberalizzazione anche in tutti quei mercati dotati di forti peculiarità e ritenuti unanimemente, fino a pochi anni prima, monopoli naturali destinati a forme di intervento pubblico forte.

E’ la Comunità Europea, poi Unione Europea, a farsi portavoce, a partire dalla metà degli anni ‘80 del nuovo corso, trasformando poco a poco la propria missione originale di unificazione dei mercati e armonizzazione dei quadri legislativi nazionali, nel compito di creare nell’immediato uno spazio di libera circolazione di merci e capitali con parallela sottrazione della sovranità politica, monetaria e fiscale agli Stati membri, senza però la costituzione di una effettiva sovranità continentale integrale.

Si è trattato, a ben vedere, di un mutamento assai radicale, che ha dovuto fare i conti con il predominio, all’interno delle pratiche politiche e delle stesse legislazioni nazionali della gran parte dei paesi europei, di un’impostazione del rapporto Stato-mercato di carattere fortemente interventista.

Il paradigma dominante nelle politiche economiche e industriali della gran parte delle nazioni europee e, nello specifico, dell’Italia, dagli anni del dopoguerra fino alla metà-fine degli anni ’80 era, in effetti, incentrato su un rapporto tra Stato e mercato tale per cui il primo era chiamato regolarmente ad intervenire tramite politiche attive in contrapposizione alla logica espressa dai liberi rapporti produttivi instaurati dal secondo. Ciò valeva tanto per il funzionamento del mercato tra produttori privati, quanto per i profili proprietari delle imprese. Nel primo caso lo Stato interveniva positivamente alterando la logica concorrenziale pura in nome di interessi di altro tipo che venivano ritenuti preminenti. Nel

secondo caso interveniva tramite la proprietà pubblica di parti o totalità di imprese nei più disparati settori economici.

Il tutto si articolava nel contesto di un’economia la cui apertura verso l’esterno era limitata dall’esistenza di dazi, sussidi e limitazioni alla libera circolazione di capitali. La limitazione della concorrenza interna era perciò contestuale ad una protezione nei confronti della concorrenza esterna.

Secondo il tipo di settore economico, l’intervento pubblico ha agito nel trentennio 1950-1980 con modalità regolative e normative oppure con modalità erogative e-o imprenditoriali.

In tutti i settori caratterizzati da monopolio naturale, da forti economie di scala oppure considerati strategici per lo sviluppo del paese, per l’occupazione, gli investimenti fondamentali e l’innovazione, lo Stato è intervenuto con modalità dirette erogative e-o imprenditoriali (è il caso di tutti i servizi a rete- trasporti, elettricità, distribuzione di gas naturale, telecomunicazioni, poste, servizi locali; dei grandi settori industriali e agroalimentari, del settore bancario e assicurativo e della stragrande maggioranza dei servizi sociali).

In moltissimi altri settori (libere professioni, commercio al dettaglio, distribuzione, servizi di intermediazione) lo Stato è invece intervenuto con modalità regolativo-normative, introducendo vincoli e limiti alla libera concorrenza, prezzi amministrati, codici di comportamento e norme deontologiche imposte agli operatori privati.

Tale approccio di fondo si è completamente invertito a partire dagli anni ‘90, quando si è iniziato ad intendere l’intervento pubblico sui mercati come intervento finalizzato ad assecondarne il funzionamento senza violarne il meccanismo, cercando anzi persino di ripristinarlo laddove i mercati venivano ritenuti mal funzionanti per problemi esterni o interni al mercato stesso.

Da un approccio di tipo regolativo - limitativo si è quindi passati ad un approccio di tipo regolativo – assecondante le dinamiche del libero mercato, alternato ad un approccio ispirato alla deregolamentazione e al puro laissez faire.

In sostanza si è passati ad una politica strettamente liberista, seguendo le due modalità del liberismo negativo (laissez faire puro) e del liberismo positivo (regolamentazione in senso liberista).

I settori industriali che hanno maggiormente risentito di forti sconvolgimenti organizzativi sono stati proprio i servizi infrastrutturali di pubblica utilità.

Da una situazione di forte regolamentazione in chiave restrittiva della concorrenza, nonché di ampia diffusione della proprietà pubblica, si è passati ad una fiducia generalizzata riposta nei meccanismi di mercato e nella proprietà privata.

Sull’onda dei processi di privatizzazione e liberalizzazione avvenuti a partire dagli anni ’80 nelle industrie infrastrutturali degli Stati Uniti e del Regno Unito, le istituzioni europee hanno promosso acriticamente un paradigma di politica industriale strutturato sui tre pilastri citati: privatizzazione; disintegrazione verticale; liberalizzazione.

La UE ha predisposto, a partire dagli anni ’90, una serie di direttive ad hoc per settore in cui si imponeva un percorso di liberalizzazione più o meno integrale e avanzato secondo i casi. Il presupposto logico di tale percorso era l’espressa volontà di far rientrare all’interno delle norme del mercato comune, tutti i servizi precedentemente esclusi dal processo di unificazione del mercato avviato con il Trattato di Roma del 1957. Si trattava cioè di estendere la norma della libera concorrenza di livello comunitario a tutti i servizi, anche quelli a spiccata vocazione territoriale in quanto dotati di reti fisse specifiche per ogni territorio nazionale.

Il trasporto ferroviario è stato il primo servizio infrastrutturale a ricevere l’attenzione delle direttive europee (sia per l’avvio di un processo di liberalizzazione sia per la graduale armonizzazione delle normative) anche se per la completa liberalizzazione sarà invece tra gli ultimi.

E’ stato poi il turno delle telecomunicazioni, dell’energia elettrica e del gas naturale. Infine delle poste e dei servizi radiotelevisivi.

Di fatto, neutralizzando il potere decisionale degli Stati membri (seppur in forma asimmetrica in ordine al potere negoziale effettivo di ciascun paese), la Commissione europea ha mantenuto la piena regia dei processi di politica industriale imponendo una linea rigida che nel giro di pochi anni ha stravolto le strutture organizzative delle industrie dei servizi di pubblica utilità

Come scrive Mauro Tebaldi in merito al processo giuridico di liberalizzazione ferroviario: “Sulla scorta dei successi ottenuti in aree di policy contigue-come il settore delle telecomunicazioni- e sfruttando il clima politico favorevole, la Commissione non ha esitato a far valere la propria collocazione strategica che le ha consentito di indebolire e modificare la posizione negoziale dei governi nazionali all’interno del consiglio dei ministri. Tale centralità nel processo decisionale è derivata dal potere conferito alla Commissione di intraprendere azioni legali presso la Corte di Giustizia senza la previa autorizzazione del Consiglio contro gli Stati membri che violassero o avessero violato gli obblighi del Trattato in materia di libera circolazione e di distorsione della concorrenza. In virtù di questo meccanismo istituzionale l’UE ha emanato una serie di regolamenti e direttive che hanno via via liberalizzato i servizi pubblici del trasporto aereo, di quello ferroviario, dell’autotrasporto pubblico e privato, del trasporto marittimo e della gestione portuale, senza la necessità di ricorrere alla legittimazione politica dei governi nazionali e territoriali.”44

3.2. Presupposti teorici del processo di liberalizzazione delle industrie a