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Capitolo 3 Le politiche industriali nei settori infrastrutturali di pubblica utilità

3.4. L’avvio del percorso di liberalizzazione del trasporto ferroviario

A partire dal principio degli anni ’90 il trasporto ferroviario è stato oggetto di un’intensa attività normativa in tutti i paesi europei che ha via via trasformato radicalmente il modello impostosi quasi ovunque nel corso del ventesimo secolo costituito dal monopolio pubblico legale verticalmente integrato. I primi e più incisivi interventi legislativi (con l’eccezione della Svezia che ha anticipato di alcuni anni la prima fase dell’apertura del mercato ferroviario a livello europeo)

sono provenuti dalle direttive comunitarie che hanno definito via via la direzione e la cornice entro cui ogni Stato membro avrebbe dovuto implementare la propria nuova legislazione nazionale.

L’obiettivo dell’attenzione crescente da parte delle istituzioni europee nei confronti del trasporto ferroviario va inquadrato in una duplice prospettiva storica. Da un lato le direttive si inseriscono in una tendenza generale alla regolazione in chiave liberista di tutti i settori economici nazionali rimasti, fino agli anni 80, in una condizione di protezione e chiusura economica in contrapposizione alla crescente integrazione e apertura dei mercati nazionali (dapprima delle merci e poi dei capitali) all’interno del mercato comune europeo.

Nel contesto di apertura dei mercati, completata con la piena liberalizzazione delle merci e poi, nel 1988, dei movimenti di capitale, i settori economici definiti comunemente servizi di pubblica utilità (energia, telecomunicazioni, trasporti), in virtù della propria struttura di mercato e della propria natura merceologica, erano rimasti al riparo dall’azione della concorrenza intra-europea e internazionale. Le ragioni dell’intervento pubblico in tali settori erano molto forti e radicate nella cultura politica ed economica del secondo dopoguerra e, pertanto, uno scardinamento delle strutture monopolistiche nazionali richiedeva un processo piuttosto articolato che, nel caso specifico del settore ferroviario (anche alla luce delle sue caratteristiche peculiari, in primo luogo l’esistenza di una rete materiale non duplicabile e di forti economie di scala non limitate alla sola infrastruttura) si è poi dimostrato particolarmente complesso e condizionato dalle politiche industriali degli Stati membri. Al principio degli anni ’90 ha inizio, a livello delle istituzioni europee, un attivismo normativo diretto proprio ad intraprendere processi di liberalizzazione in tutti i settori economici fino a quel momento rimasti all’ombra del mercato unico aperto. La prima chiave di lettura del percorso legislativo intrapreso per il trasporto ferroviario va quindi ricercata nella generale impostazione di politica industriale di tipo liberista perseguita dagli organismi comunitari con particolare attenzione ai servizi di pubblica utilità (oggetto di normative specifiche settore per settore).

Il secondo elemento per un’inquadratura del percorso normativo avviato a livello europeo e nazionale è la consapevolezza della crisi modale del trasporto

ferroviario assunta a partire dal legislatore comunitario fin dagli anni '80. La progressiva crescita del trasporto su gomma (tanto passeggeri che merci) dal secondo dopoguerra in poi ha posto un problema molto serio di sostenibilità ambientale e sociale dei trasporti nella maggior parte dei paesi europei nonché un problema legato all’estrema variabilità dei costi del carburante e alla dipendenza dell’area geografica europea dal petrolio.

Fin dai primi passi mossi in direzione di una politica comune dei trasporti le istituzioni europee hanno sottolineato l’importanza di favorire un recupero intermodale delle ferrovie in qualità di modo di trasporto pulito e decongestionante rispetto al traffico urbano e interurbano (quindi come modalità di trasporto ad alto impatto sociale positivo).

In particolare il libro bianco sui trasporti del 2001 “La politica europea dei trasporti fino al 2010” arriva a lanciare sessanta proposte concrete per riequilibrare le quote modali dei trasporti in favore della ferrovia e del trasporto marittimo e fluviale ponendo un freno alla crescita del trasporto aereo e arginando i livelli del trasporto su gomma.

Emerge così: da una parte la prescrizione di un percorso legislativo orientato a definire una struttura di mercato ritenuta preferibile sul piano dell’efficienza e della qualità del servizio ferroviario sulla base di postulati niente affatto certi e oggetto di posizioni assai variegate nella letteratura economica; dall’altra parte la definizione di un obiettivo politico e sociale chiaro, cioè il riequilibrio delle quote modali a favore delle ferrovie che implicitamente e, in alcuni casi esplicitamente, viene legato alla prescrizione legislativa pro-concorrenziale, come se tale prescrizione fosse un mezzo senz’altro adeguato per il conseguimento del fine. Si tratta in realtà di un passaggio e di un legame estremamente discutibile che, come vedremo, non trova riscontri teorici ed empirici adeguati. Tanto più tenendo conto del fatto che, al di là delle dichiarazioni di principio, in termini attuativi la normativa europea ha dato spazio esclusivo alle politiche di liberalizzazione, ritenendole quindi non soltanto necessarie, ma, implicitamente, persino sufficienti per favorire un riequilibrio modale tra tipologie di trasporto.

Del resto una non esigua parte di letteratura economica specialistica ha, ormai da anni, assunto come scontata la transizione verso un modello di politica industriale

ferroviaria schiettamente liberista (in linea con l’indirizzo generale di politica industriale adottato per tutti i settori infrastrutturali di pubblica utilità).

Questo lungo passaggio tratto da un articolo di Campos e Cantos del 2005 riassume perfettamente quale sia la direzione auspicata per la politica ferroviaria, assumendola come un dato difficilmente opinabile: “The increasing role of private sector in the rail industry is one of the most relevant characteristics of the evolution of this industry in recent years. This change is reshaping the way in which Governments are addressing the main regulatory challenges derived from the economic and technical characteristics of railways.….the industry regulation is moving accordingly towards more flexible schemes of public intervention. Although this does not fully preclude direct participation by the Government, it seems that the monopolistic rail company is progressively disappearing as the dominant model around the world…Two key issues in the new regulatory environment of the rail industry are that private participation is included in license contracts and the organization of the industry is adapted to each country’s needs and characteristics. In turn, the use of these mechanisms also changes the role of the rail regulator, whose actions should now be governed by principles that foster competition and market mechanisms and simultaneously provide a stable legal and institutional framework for economic activity. The regulator should refrain from intervention unless the ultimate goal of achieving economic efficiency subject to the socially demanded level of equity is in jeopardy”48

Gli autori, a dispetto di un’iniziale riflessione molto articolata sulle specificità del trasporto ferroviario e sulla difficoltà di introdurre principi concorrenziali, non solo constatano il cambiamento in corso nei modelli organizzativi del trasporto ferroviario nel senso dell’apertura del mercato e di una regolazione in direzione pro-concorrenziale, in buona parte dei paesi del mondo, ma, come risulta chiaro dal testo riportato, annunciano esplicitamente, ponendola come scelta univoca, la desiderabilità di tale direzione intrapresa.

Non tutta la letteratura si è però orientata sulla medesima linea. Come vedremo nel prossimo capitolo, diverse voci nel recente dibattito teorico, hanno

48 Pedro Cantos, Javier Campos, Recent changes in the global rail industry: facing the challenge of increased flexibility European Transport \ Trasporti Europei n. 29, 2005, pp.1-21

sottolineato le difficoltà insite nel suddetto paradigma, mettendo soprattutto in risalto l’importanza di un’impostazione di politica industriale più flessibile che non parta da assunti deterministici che nella pratica si rivelano privi di fondamento.

Del resto, negli ultimi anni alla luce degli scarsissimi risultati a livello europeo dei processi di liberalizzazione (sia del comparto passeggeri e di quello merci), è cresciuto lo scetticismo verso l’idea che l’apertura dei mercati in sé per sé sia garante dell’aumento delle quote modali della ferrovia.

Scrive Pietro Spirito: “La stessa Unione Europea, anche al di là dei limiti specifici di quanto è accaduto in Italia, dovrebbe interrogarsi sulla efficacia della pura liberalizzazione per determinare quella svolta nella ripartizione modale che pure viene richiamata nei documenti di programmazione della Commissione Europea. Appare difficile che, rebus sic stantibus, si possa conseguire in Europa quell’obiettivo di spostare dalla strada alla ferrovia il 30% delle merci per i trasporti superiori ai 300 km entro il 2030, ed il 50% entro il 2050”49

Al momento non si scorgono, tuttavia, segnali di discontinuità con le scelte dell’ultimo ventennio. L’auspicato aumento di quote modali continua ad essere affidato in via esclusiva ad un incerto processo di liberalizzazione che si tenta di completare definitivamente proprio in questi mesi. La recente approvazione presso la Commissione del quarto pacchetto ferroviario rappresenta il passo decisivo verso la piena liberalizzazione del settore (ivi compreso il trasporto passeggeri).

49 Pietro Spirito, “Il trasporto ferroviario delle merci dopo la trasformazione delle ferrovie

Capitolo 4- Fondamenti teorici delle politiche industriali del

trasporto ferroviario

4.1. I paradigmi di politica industriale dei trasporti

La politica industriale in generale e quella dei trasporto in particolare può assumere tre forme organizzative diverse: “comando e controllo”; “regolazione pro-concorrenziale”; “liberalizzazione”.

Le prima modalità risponde ad una logica discrezionale, estranea alla riproduzione o emulazione dei meccanismi del libero mercato imponendo in tutto o in parte un funzionamento della produzione svincolato dai meccanismi competitivi. Le seconde due rispondono invece al tentativo duplice di riprodurre meccanismi incentivanti di tipo concorrenziale (concorrenza sul mercato), laddove si ritiene che la concorrenza sul mercato non possa operare con efficienza, oppure semplicemente si vogliano rimuovere barriere di tipo istituzionale o “di fatto” che impediscono alla libera concorrenza sul mercato di operare.

Nel precedente capitolo, in riferimento a questa terza tipologia organizzativa della politica industriale abbiamo distinto un approccio liberista di tipo “positivo”, da un approccio di tipo “negativo”. Il primo è incline ad un intervento pubblico rivolto non solo alla rimozione delle barriere istituzionali alla libera concorrenza, ma anche alle barriere costituite dal mercato stesso nel suo libero funzionamento. Il secondo è incline esclusivamente ad un intervento sulle barriere legali e normative ed è assai tollerante (o persino accogliente) verso qualsivoglia concentrazione di potere di mercato scaturente dalle dinamiche del mercato stesso. E’ evidente che l’approccio “liberista negativo” non prevede politiche industriali di sorta che non siano per l’appunto di carattere negativo (ovvero eliminazione dell’intervento pubblico laddove esso è presente).

Nel concreto delle politiche del trasporto le tre modalità organizzative in tutti i paesi europei si sono articolate sulla base di variegati interventi.

La modalità del comando e del controllo ha assunto le due forme del comando e del controllo integrali, realizzati tramite la proprietà pubblica in regime di monopolio e del comando e controllo parziali realizzati tramite politiche di limitazione e restrizione della libera concorrenza tra attori privati e-o di parziale controllo proprietario.

L’affidamento diretto a imprese monopolistiche private vincolate ad una rigida pianificazione tariffaria e di erogazione del servizio fa parte di quella categoria di interventi di “comando e controllo” indiretto estranei al tentativo di riproduzione di meccanismi concorrenziali, nei quali il risultato auspicato dall’autorità pubblica viene perseguito tramite politiche di imposizione e non di incentivo competitivo indotto.

Analogamente la pianificazione tariffaria e relativa alla quantità di servizi espletati in un ambito in cui opera una pluralità di imprese in concorrenza tra loro, traducendosi di fatto in espliciti limiti alla libera concorrenza, si può configurare come un intervento di comando e controllo.

Imprese nazionalizzate, monopoli privati dati in concessione e rigidamente regolamentati e regolazione limitativa della concorrenza in un contesto di pluralità di imprese sono e sono stati i tre strumenti specifici tramite cui si è espressa nelle diverse esperienze europee nel campo dei trasporti (nei diversi ambiti del settore), la politica di comando e controllo.

Le politiche filo-concorrenziali nei trasporti hanno invece assunto nelle diverse esperienze o la forma della regolamentazione (organizzazione della concorrenza per il mercato) oppure della liberalizzazione (predisposizione delle condizioni per una concorrenza sul mercato).

4.2. Concorrenza, efficienza statica ed efficienza dinamica: i conseguenti paradigmi di politica industriale

Descritte le tre modalità applicative della politica industriale sulla base del rapporto con la concorrenza, possiamo ora enucleare, all’interno della politica

industriale moderna, molteplici scuole di pensiero sulla base, invece, degli specifici fini perseguiti (cui corrisponde in maniera non univoca l’uso di variegati mezzi).

Una prima distinzione importante concerne la distinzione tra efficienza statica ed efficienza dinamica concetti da cui traggono poi ispirazione due diverse impostazioni.

Il perseguimento (almeno tendenziale) dell’efficienza statica (allocativa) è alla base delle politiche industriali orientate a riprodurre nel sistema economico un quadro il più possibile concorrenziale nelle due accezioni di concorrenza perfetta e di perfetta contendibilità. All’interno di questo quadro interpretativo si dà per assunto che un aumento della concorrenza sia comunque positivo per i fini preminenti che si vogliono raggiungere (che sono appunto il conseguimento tendenziale dell’efficienza allocativa e produttiva).

Eventuali ulteriori obiettivi perseguibili, entro tale approccio, rimangono subordinati all’obiettivo pro-concorrenziale o posti rispetto ad esso in una posizione di trade-off.

Ad una politica industriale orientata al perseguimento preminente dell’efficienza statica si oppone una politica industriale orientata al perseguimento dell’efficienza dinamica. Per efficienza dinamica si intende la capacità del sistema economico di produrre innovazione tecnologica, di processo e di prodotto, ovvero di evolversi generando nel tempo miglioramenti consistenti nell’abbattimento dei costi unitari di produzione e nel miglioramento della qualità e della varietà dei prodotti e dei servizi.

Afferma Shumpeter: “It is still competition within a rigid pattern of invariant conditions, methods of production and forms of industrial organization in particular, that practically monopolizes attention. But in capitalist reality, as distinguished from its textbook picture, it is not that kind of competition which counts but the competition from the new commodity, the new technology, the new source of supply, the new type of organization (the largest-scale unit of control for instance)–competition which commands a decisive cost or quality advantage and which strikes not at the margins of the profits and the outputs of the existing

firms but at their foundations and their very lives.50 Si tratta di una formulazione molto chiara del concetto di efficienza dinamica, intesa come capacità di innovazione e di crescita di lungo periodo del sistema economico. Schumpeter nel passo citato associa questa forma di efficienza alla concorrenza reale del sistema capitalistico, ovvero al processo concorrenziale fatto di squilibri, monopoli temporanei, acquisizioni di posizioni di vantaggio, segreti commerciali, fusioni, incorporazioni, nascita di nuove imprese, fallimenti, alleanze e soprattutto attitudine competitiva. Concetto contrapposto a quello di concorrenza nel senso tradizionale dell’economia neo-classica (la concorrenza perfetta del modello cournotiano).

Il legame tra concorrenza reale (in senso classico e austriaco) ed efficienza dinamica non è affatto deterministico e certo come lo è invece il legame tra concorrenza perfetta ed efficienza allocativa.

Secondo gli economisti austriaci la concorrenza idealtipica di tipo neoclassico che le politiche antitrust vorrebbero tendere ad emulare (almeno in termini per l’appunto tendenziali) danneggia l’efficienza dinamica poiché penalizza le posizioni temporanee di potere di mercato che le imprese si sono guadagnate nel gioco competitivo.

Questa penalizzazione fungerebbe peraltro da disincentivo a priori all’azione innovativa poiché le imprese non scorgerebbero più il vantaggio concorrenziale dell’innovazione di prodotto o di processo consistente nell’acquisizione di una temporanea posizione di esclusività su un determinato mercato.

Pertanto, in quest’ottica, il perseguimento dell’efficienza statica tendenziale confliggerebbe con il perseguimento dell’efficienza dinamica di cui il libero mercato lasciato a sé stesso sarebbe invece garante.

L’analisi dell’efficienza dinamica ad ogni modo ha un carattere assai più elastico dell’analisi dell’efficienza statica, non riducibile senz’altro ad una modellizzazione rigida. Se gli economisti classici e gli economisti della Scuola austriaca (con importanti differenze tra le due scuole), trovano la stessa giustificazione sociale del capitalismo e del libero mercato nell’idea che le forze

50 Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, (New York: Harper, 1975) [orig. pub. 1942], pp. 82-85

del mercato tendono a raggiungere elevati livelli di efficienza dinamica, altri approcci possono ritenere che in molti settori è l’intervento pubblico di limitazione dell’azione concorrenziale che può ottenere tramite investimenti mirati in specifici settori, livelli più alti di efficienza dinamica. D’altra parte la stessa analisi degli economisti classici al fine di permettere un più efficiente sviluppo dell’economia capitalistica, prendeva in considerazione, l’importanza di un intervento pubblico, ad esempio per la costruzione delle infrastrutture.

A ben vedere, il perseguimento dell’efficienza dinamica è, in linea teorica, possibile a partire dalle più disparate configurazioni di mercato o di non mercato, essendo diverse le forze che possono concorrere a favorire sentieri di sviluppo innovativo e tecnologico: stimoli competitivi e stimoli cooperativi; capacità economica di sostenere investimenti in perdita; propensione alla progettualità di lungo periodo che sappia trascendere i risultati economici di breve periodo etc etc.

4.3. Approcci a confronto di politica dei trasporti: le analisi di Marletto e di Ponti

Nel merito delle politiche del trasporto è interessante confrontarsi con le analisi di Gerardo Marletto e di Marco Ponti, caratterizzate entrambe da un notevole grado di approfondimento, ma orientate a premesse e conclusioni molto diverse.

Marletto, in opposizione ad approcci di carattere strutturalista incentrati sul problema del grado di concorrenza o contendibilità del settore del trasporto (come implicito volano per il suo sviluppo) incentra l’attenzione sull’efficienza dinamica e la capacità innovativa del settore non considerando legami deterministici tra questo tipo di efficienza e la struttura di mercato.

L’autore prende le mosse da alcuni lavori di economia dell’innovazione (Malerba, Cusmano) legati alle teorie evolutive, in cui si discute il rapporto tra efficienza dinamica-innovativa ed efficienza statica in una situazione di equilibrio. Secondo Malerba e Cusmano le cosiddette teorie evolutive sono interne ad un approccio che “privilegia i concetti di cambiamento e dinamica e respinge l’ipotesi di un

equilibrio statico come centro gravitazionale del sistema economico…Il cambiamento tecnologico comporta inevitabilmente inefficienze statiche, che devono però essere valutate per la possibile funzionalità alla crescita del sistema, piuttosto che per l’allontanamento che determinano da un equilibrio logico, ma non reale, quale è l’equilibrio competitivo”.51

All’interno di questo quadro interpretativo il ruolo dell’intervento pubblico è visto in maniera totalmente diversa rispetto alla concezione dell’economia del benessere tradizionale: “I fattori che negli approcci ortodossi sono considerati la giustificazione di un intervento pubblico, in quanto allontanamenti dall’equilibrio concorrenziale (il monopolio naturale, le asimmetrie informative, le esternalità, ecc.), nell’approccio evolutivo diventano elementi costitutivi di un processo che, proprio perché realmente innovativo, non può che svolgersi fuori dall’equilibrio”. E ancora: “L’attenzione dell’intervento pubblico si sposta allora dalla correzione del mercato alla garanzia dell’effettiva percorribilità del processo innovativo” 52 In quest’ottica il mercato non è più un oggetto da correggere al fine di ripristinare continuamente un possibile equilibrio statico garante dell’efficienza allocativa, ma un processo da incanalare verso obiettivi di politica industriale quali l’innovazione tecnologica.

La radicale differenza di impostazione rispetto alle politiche industriali liberiste sia quelle di carattere strutturalista (attente cioè alla struttura di mercato in sé) sia quelle ispirate dal concetto di contendibilità dei mercati (e quindi orientate maggiormente all’analisi dei comportamenti delle imprese), è ben espressa in questo passaggio: “Una politica economica orientata alla percorribilità del cambiamento può anche contrapporsi alle politiche ortodosse di promozione della concorrenza: coerentemente col rifiuto dell’equilibrio statico come perno del sistema, è infatti da verificare concretamente (settore per settore e fase per fase) se l’ambiente competitivo costituisca per le forze economiche un incentivo o un disincentivo alla partecipazione a processi rischiosi di cambiamento. Può dunque risultare necessario creare aree non esposte alla concorrenza che fungano da

51Malerba e Cusmano L. (2001), I fondamenti teorici della politica tecnologica di cooperazione, in Paganetto

L. e Pietrobelli C., Scienza, tecnologia e innovazione: quali politiche?, Bologna, Il, pag. 310

52Marletto, G. (2006) La politica dei trasporti come politica per l’innovazione: spunti da un approccio