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Capitolo 3 Le politiche industriali nei settori infrastrutturali di pubblica utilità

3.2. Presupposti teorici del processo di liberalizzazione delle industrie a rete

Alla base delle scelte di liberalizzazione delle industrie a rete vi è l’idea che un avvicinamento tendenziale alla concorrenza sia comunque migliore di una situazione di monopolio, anche laddove, come nei servizi infrastrutturali di pubblica utilità, la concorrenza realizzabile sia comunque una concorrenza imperfetta.

In questo capitolo ci limiteremo a descrivere i principali argomenti di critica del monopolio, sia pubblico che privato, esponendo poi, senza scendere nel dettaglio, le obiezioni che a tali argomenti possono essere opposte. Tali obiezioni saranno

44 M.Tebaldi, “La riforma dei trasporti ferroviari in Italia: modello originario, processi di istituzionalizzazione e profili evolutivi” in Tebaldi (a cura di) La liberalizzazione dei trasporti

sviluppate nel quinto capitolo allorché sarà affrontata nel vivo la parte critica del nostro ragionamento.

Il monopolio (tanto pubblico quanto privato), secondo i suoi detrattori, sarebbe causa di diversi tipi di inefficienza: allocativa, produttiva, dinamica e organizzativa (la cosiddetta inefficienza x).

Pertanto, un’apertura a stimoli competitivi, anche se imperfetta, per la natura specifica dei settori infrastrutturali di pubblica utilità, sarebbe comunque migliore di una situazione monopolistica.

Analizziamo una per una le diverse critiche al monopolio.

In primo luogo il monopolio non riuscirebbe a garantire l’efficienza paretiana (allocativa) anche qualora si tratti di un’impresa monopolistica pubblica che agisce come pianificatore benevolo nel tentativo di riprodurre le condizioni di allocazione ottimale delle risorse. L’imperfetta informazione di cui soffrirebbe il monopolista pubblico sarebbe un problema insormontabile che soltanto un tendenziale avvicinamento alla concorrenza potrebbe migliorare. Questa argomentazione deve confrontarsi con la teoria del secondo ottimo, per cui un allontanamento più intenso dalle condizioni di ottimalità paretiana (date da un equilibrio perfettamente concorrenziale) non è detto che sia peggiore (da un punto di vista allocativo) di un allontanamento meno intenso. Nei settori infrastrutturali di pubblica utilità, inoltre, non soltanto è logicamente impensabile il raggiungimento di una concorrenza perfetta, ma sono anche pressoché assenti le condizioni atte a garantire una perfetta contendibilità del mercato, poiché esistono rilevanti costi irrecuperabili che impediscono la libera entrata da parte di nuovi concorrenti.

In secondo luogo, il monopolio produrrebbe inefficienza organizzativa-produttiva, dovuta alla mancanza di incentivi alla minimizzazione dei costi di produzione in assenza di uno stimolo competitivo. Questo argomento andrebbe valutato sulla base di tre riflessioni che saranno articolate nel dettaglio nel prossimo capitolo. La prima dovrebbe vertere sull’effettività o meno della competizione in settori come i SIPU, in cui, per ragioni di economie di scala o di densità, la presenza di pochi operatori dà luogo ad una configurazione oligopolistica; la seconda riflessione riguarda la natura della leva competitiva. Non è scontato, infatti, che la

concorrenza si basi esclusivamente sulla riduzione dei costi di produzione e dunque sul prezzo del prodotto, né sulla sua qualità. Specie nei settori in cui operano poche grandi società e in cui la diversificazione qualitativa del prodotto è molto limitata (a causa della sua natura merceologica sostanzialmente omogenea), è assai probabile che una leva competitiva rilevante siano le strategie pubblicitarie di carattere persuasivo, elemento che di certo non contribuisce alla minimizzazione dei costi di produzione.

La terza riflessione dovrebbe portare a confrontare la forza dello stimolo competitivo con la possibile efficacia di stimoli all’efficienza di altra natura. In terzo luogo, il monopolio sarebbe causa di inefficienza dinamica, poiché, anche in questo caso, l’assenza di stimolo competitivo, scoraggerebbe le imprese dall’effettuare investimenti in innovazione tecnologica che rivestirebbero un ruolo essenziale per vincere un’eventuale gara concorrenziale. Il godimento della rendita monopolistica, garantita a prescindere dagli sforzi innovativi dell’impresa, farebbe cadere la produttività. Questo argomento deve essere confrontato con l’opposto argomento per cui sarebbe invece la fiducia nel pieno sfruttamento dell’innovazione e la certezza circa la recuperabilità economica di un investimento di lungo periodo, a favorire i processi di innovazione (paradigma schumpeteriano). Nei SIPU gli investimenti fissi infrastrutturali nella rete e gli investimenti in innovazione tecnologica a tutti i livelli della produzione sono estremamente rilevanti. Pertanto l’argomentazione shumpeteriana relativa alla maggior capacità di un assetto monopolistico (di diritto o di fatto) di sostenere processi di innovazione, dovrebbe assumere grande rilevanza nella politica industriale indirizzata a tali settori.

In quarto luogo, il monopolio sarebbe causa di inefficienza organizzativa (inefficienza x), ovvero di assenza di stimoli all’ottimizzazione dei processi organizzativi interni, anche in questo caso per colpa della mancanza di incentivi economici che solo un processo concorrenziale potrebbe indurre. Anche quest’ultimo argomento dovrebbe essere confrontato con possibili argomenti contrari circa la maggiore efficacia di un clima di carattere cooperativo per la creazione di stimoli all’efficienza nel lavoro e nell’organizzazione interna dei processi produttivi.

I fautori del processo di liberalizzazione nei settori infrastrutturali di pubblica utilità enfatizzano tutti questi quattro aspetti ritenendoli preminenti sugli argomenti contrari.

Un rapporto della Commissione europea del 2006 di valutazione della prestazione delle industrie a rete è a tal proposito molto significativo. Si fa esplicito riferimento ai diversi effetti che l’apertura del mercato dovrebbero portare in termini di efficienza (intesa nelle sue diverse accezioni).

“Increased allocative efficiency should occur as prices and marginal costs move towards each other; thereby correcting distorsions in the structure of production and adjusting the level of output to a social optimum. Increased productive efficiency would arise as firms move closer to their production possibility frontier by using their inputs more efficiently (i.e. producing more with the same inputs, or the same with fewer inputs). Reduction of x-inefficiency would raise the productive performance by reducing managerial slack and improving the organisation of work. Finally dynamic efficiency would be enhanced as competition from existing and prospective competitors creates incentives for investment in product and process innovation”45

Nel passo riportato sono elencate tutte le definizioni di efficienza proposte dalla teoria economica e per tutte quante si ritiene che l’aumento della pressione concorrenziale, nei settori infrastrutturali di pubblica utilità, conduca ad aumenti di efficienza. Circa l’efficienza allocativa abbiamo già accennato ai problemi connessi con la teoria del secondo ottimo. A meno di una liberalizzazione integrale e ravvicinata di tutto il sistema economico, appare, infatti, teoricamente insostenibile ipotizzare aumenti di efficienza allocativa a seguito della liberalizzazione di singoli settori. Anche laddove si lasci cadere l’argomento relativo ad un eventuale miglioramento dell’efficienza allocativa rimane, da parte dei critici del monopolio pubblico, l’enfasi posta sull’inefficienza produttiva e sulle inefficienze di tipo dinamico (innovativa e x) supportate da filoni teorici specifici come la teoria dei mercati contendibili (nell’ambito dell’analisi tradizionale), la teoria austriaca e la teoria della public choice.

45

Commission Staff Working Document (Annexes), Evaluation of the Performance of Network

Inoltre gli auspicati effetti positivi di un processo di liberalizzazione delle industrie a rete, data la natura di grandi industrie ad elevato impatto sugli equilibri generali del sistema economico, vengono proiettati anche a livello macroeconomico, in particolare sul reddito e l’occupazione, con supposti effetti espansivi.

La diminuzione dei prezzi e l’aumento delle quantità prodotte a seguito dell’apertura dei mercati produrrebbe, secondo tale tesi, un effetto macroeconomico che, nel lungo periodo, viene stimato superiore all’eventuale effetto negativo. Quest’ultimo agirebbe in via diretta sull’impresa ex-monopolista, che, nel breve periodo attuerebbe sicuramente un processo di ridimensionamento e “razionalizzazione” della forza lavoro impiegata per affrontare un ambiente competitivo e il rischio di sottrazione di quote di mercato. Nel lungo periodo la struttura concorrenziale porterebbe ad un aumento della produzione e dell’occupazione complessiva del settore. Inoltre, gli effetti espansivi si riverberebbero anche su altri settori dell’economia grazie all’aumento del reddito reale delle famiglie e alla maggiore disponibilità di fondi per le imprese legate da un rapporto di fornitura con le imprese facenti parte del settore in questione. Da parte dei sostenitori della liberalizzazione si ammette che gli effetti macroeconomici benefici possono tardare a manifestarsi e che nel breve periodo potrebbero prevalere gli effetti negativi. Nel lungo periodo tuttavia l’effetto netto su reddito e occupazione sarebbe positivo.

Un aspetto che ha giocato un ruolo rilevante nella legittimazione della liberalizzazione delle industrie a rete è stata la tesi dei mutamenti tecnologici che, in quanto tali, tenderebbero ad annullare o quanto meno ad attenuare il carattere di monopolio naturale di alcuni settori. L’esempio più tipico viene considerato quello delle telecomunicazioni in cui le forti innovazioni tecnologiche avvenute a partire dagli anni ’70 e ’80 nel settore dell’informatica con intense ricadute nel settore delle TLC e la comparsa della telefonia mobile e dei sistemi senza filo di connessione alla rete, avrebbero reso il mercato dei servizi telefonici sempre più contendibile limitando il monopolio naturale al solo tratto di rete non duplicabile per ragioni di costo (il cosiddetto “ultimo miglio”).

Più in generale, inoltre, in tutti i servizi pubblici, la diffusione dei sistemi informatici avrebbe implicato una diminuzione dei costi fissi facilitando così l’appetibilità dei mercati da parte dei concorrenti.

Questa argomentazione, che discuteremo nel dettaglio per il caso del trasporto ferroviario, appare piuttosto debole, dal momento che l’effetto della tecnologia sul rapporto tra costi fissi e costi variabili è estremamente incerto. Se è vero che, una volta acquisita la tecnologia, determinati costi fissi tendono ad essere ridimensionati, è altrettanto vero che molte tecnologie per poter essere adottate (sfruttandone i vantaggi di costo) hanno proprio bisogno di enormi investimenti una tantum non sempre sostenibili da un’azienda privata in regime concorrenziale.

A conclusione logica del ragionamento fin qui svolto occorre proporre due ulteriori piani di riflessione:

1) In primo luogo, come chiarito da diversi autori (ad esempio Stiglitz) una critica dell’intervento pubblico configurato come fallimento dello Stato, tanto più nel peculiare caso delle industrie a rete, deve comunque confrontarsi non con mercati perfetti (né perfettamente contendibili), ma con mercati imperfetti (fortemente segnati da fallimenti del mercato in senso tradizionale e assai lontani da una situazione di perfetta contendibilità per la presenza di ingenti costi irrecuperabili).

2) In secondo luogo, occorre distinguere con nettezza (Ceriani, Doronzo, Florio)46 una liberalizzazione “leggera” da una liberalizzazione “completa”.

Nel primo caso lo Stato abdica al ruolo attivo di imprenditore-erogatore del servizio, cedendo ai privati in regime concorrenziale controllato la proprietà delle attività. Mantiene, tuttavia, un forte controllo su alcuni parametri fondamentali dell’attività produttiva: il prezzo, le quantità prodotte e l’universalità della distribuzione; attua una politica antitrust per evitare concentrazione di capitale; limita la libera entrata di nuovi concorrenti prevedendo determinati requisiti.

46 Ceriani, L., Doronzo R. e Florio M, "Privatization, unbundling, and liberalization of network industries:a discussion of the dominant policy paradigm in the EU," Departmental Working Papers 2009-09, Department of Economics, Management and Quantitative Methods at Università degli Studi di Milano

In sostanza, nella liberalizzazione “leggera” lo Stato configura un mercato regolamentato in senso pro-concorrenziale (liberismo positivo realizzato tramite l’azione antitrust) e in senso parzialmente limitativo della concorrenza (controllo sui prezzi, imposizione di obblighi di servizio pubblico). Il potere pubblico non esce di scena e rimane protagonista all’interno di attività private e concorrenziali ben al di là della semplice e ordinaria attività di supervisione esercitata su tutte le attività economiche in quanto tali.

Nella liberalizzazione completa (e coerente con i suoi presupposti) lo Stato oltre a dismettere la proprietà dell’impresa e a permettere l’entrata di concorrenti sul mercato, si disimpegna da qualsiasi ruolo di regolamentazione che non sia la normale e ordinaria supervisione che adotta in qualsiasi altro settore dell’economia (controllo sulla qualità, sull’igiene, sulle norme di lavoro etc etc). Nel mondo reale le liberalizzazioni di settori ritenuti socialmente sensibili in quanto rispondenti a bisogni essenziali delle persone (acqua, energia, trasporti) sono state quasi sempre adottate seguendo il primo schema, ovvero quello della liberalizzazione “leggera”. Quasi tutti i paesi coinvolti in tali processi di politica industriale hanno voluto evitare la cessione alle pure regole del mercato di bisogni così elementari, per il rischio di causare instabilità sociale nel caso di mancata fornitura dei servizi, di prezzi eccessivamente elevati (in termini relativi all’accessibilità per i redditi più bassi) o di distribuzione territorialmente disomogenea.

Questa circostanza è molto rilevante nel momento in cui si vuole proporre un confronto tra un regime di monopolio pubblico e un regime liberalizzato. Occorre infatti sapere di quale liberalizzazione si stia parlando. Una liberalizzazione “leggera” che preveda un rilevante ruolo dello Stato nella garanzia dei servizi minimi (tramite erogazione di sussidi) e nella regolamentazione del mercato, comporterà infatti il mantenimento di una spesa pubblica significativa che andrà a sostituirsi alla spesa pubblica precedentemente erogata nella gestione diretta. Lungi dal ritirarsi e lasciare spazio al puro mercato, lo Stato, in questo caso, riconverte la spesa in direzioni diverse, rinunciando peraltro ad incassare gli eventuali utili provenienti dai segmenti profittevoli dell’industria di cui era precedentemente monopolista.

Nella stragrande maggioranza delle industrie a rete, in tutti i paesi in cui è stato avviato il processo di liberalizzazione (di tipo leggero) si è assistito ad un processo di privatizzazione dei profitti (ottenuti dai segmenti redditizi) e socializzazione delle perdite (coperte con i sussidi pubblici). Una liberalizzazione completa, d’altro canto, oltre a poter causare forti costi in termini di perdita di efficienza tecnico-produttiva, espone, per di più al rischio di “fallimento sociale” dovuto alla possibile esclusione (totale o parziale) dall’uso di un determinato servizio di rilevanti strati di popolazione.

Un raffronto serio tra regime monopolistico e regime liberalizzato deve necessariamente tenere conto di tutte queste circostanze.

3.3. Il monopolio pubblico verticalmente integrato nel trasporto ferroviario

Come visto nel precedente capitolo, l’intervento pubblico nel settore del trasporto ferroviario ha trovato fin dai primordi del dibattito politico ed economico molteplici giustificazioni di ordine economico, strategico e sociale.

Dopo un’iniziale fase storica di gestione privata in regime di concessione (affidamento diretto o per trattativa a società private per un periodo di tempo determinato), già dalla fine del ‘800 in diversi paesi europei si ricorse alla gestione statale in regime di monopolio. Nei primi decenni del ‘900 tale modello si diffuse rapidamente alla gran parte paesi del continente. Nell’immediato secondo dopoguerra pressoché tutti i sistemi ferroviari d’Europa erano di proprietà e di gestione pubblica in regime di monopolio con piena integrazione delle rete e del servizio.

Il monopolio pubblico verticalmente integrato fu dunque la soluzione economica prescelta per il trasporto ferroviario al fine di ovviare a quelle problematiche economiche che le concessioni ai privati avevano creato in quasi tutti i paesi. I problemi principali posti dal sistema delle concessioni erano tre: il primo era l’insufficiente sviluppo quantitativo e qualitativo tanto della rete quanto dei servizi, in particolare nelle tratte considerate non particolarmente remunerative dalle compagnie private (attraverso lo sviluppo capillare del trasporto merci); il

secondo problema (strettamente connesso al primo) era il crescente aggravio del peso finanziario delle ferrovie a carico dello Stato non compensato da alcun beneficio. Come la situazione italiana mostrò chiaramente, la socializzazione delle perdite accompagnata dalla privatizzazione dei profitti accresceva l’onere finanziario sopportato dall’erario penalizzando la stessa capacità di investimento pubblico nelle ferrovie. Nella gran parte delle esperienze di gestione dei sistemi ferroviari allo Stato spettavano gli investimenti per la costruzione e il potenziamento della rete e la sussidiazione delle tratte strutturalmente in perdita. Ai privati concessionari del servizio veniva garantito un margine di profitto prefissato, mentre l’eccedenza veniva resa allo Stato. Un sistema di questo tipo offriva solide garanzia alle compagnie private mentre esponeva lo Stato al rischio di forti perdite; il terzo problema era l’accessibilità sociale al servizio ferroviario. Tariffe troppo alte (necessarie a remunerare il profitto privato senza far aumentare eccessivamente il livello dei sussidi) rendevano il treno un mezzo fuori dalla portata di larghi strati della popolazione.

La concomitanza di questi tre aspetti indusse poco a poco i diversi governi a procedere alla nazionalizzazione del trasporto ferroviario centralizzando la rete nazionale, suddivisa per tratte di affidamento a diverse compagnie, sotto un’unica gestione, integrando così la rete nel suo complesso e la rete con il servizio.

La forma del monopolio pubblico verticalmente e orizzontalmente integrato, modello che a partire dai primi anni del novecento avrebbe trovato applicazione anche in molti altri settori del sistema economico, rispondeva ad una crescente esigenza di coordinamento e accelerazione dello sviluppo capitalistico nazionale da parte degli Stati; allo stesso tempo, tramite l’integrazione di attività dalle caratteristiche economiche diverse, permetteva quella flessibilità di azione da parte dell’intervento pubblico diretto che tanta fortuna ebbe poi nei trent’anni successivi al secondo conflitto mondiale nella ricostruzione industriale dell’Europa.

La gestione integrata della rete e del servizio e dei diversi tipi di servizio (quelli remunerativi e quelli in perdita) consentiva, inoltre, il pieno sfruttamento delle economie di scala, di densità e di coordinamento e la massima capacità economica di finanziare i servizi considerati universali per ragioni sociali con i profitti dei

servizi commerciali. Il sussidio incrociato liberò l’erario da un carico fiscale molto gravoso e permise in molti paesi un enorme risparmio complessivo di risorse pubbliche a parità di servizio.

Il monopolio pubblico verticalmente integrato venne considerato una soluzione estremamente vantaggiosa sul piano economico per sfruttare tutte quelle economie tipiche di una struttura unica integrata: economie di scala, di densità, di integrazione e di gamma.

La legittimazione teorica di questo tipo scelta, nel dopoguerra venne corroborata da numerosi studi scientifici.

Alcuni di essi, supportati da analisi empiriche, come quella di Thomson e Hunter del 1972 (“The Nationalised Transport Industries”)47 sostenevano che nel settore dei trasporti (in generale) la concorrenza porta ad un sottoutilizzo dello stock di capitale e che una centralizzazione della gestione conduce ad economie tecniche molto rilevanti.

Come vedremo meglio in seguito anche sul piano teorico, in concomitanza con le indagini empiriche condotte a partire dagli anni ’80, sorsero studi che metteranno in dubbio (anche se sempre in maniera assai parziale e non sempre correttamente argomentata) le certezze acquisite nei decenni precedenti fungendo di fatto da sponda argomentativa delle prime politiche di deregolamentazione del settore avviate in quel periodo storico a partire dagli Stati Uniti