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Il Canada Witness Protection Act Program è diventato legge il 20 Giugno 1996, a seguito della firma da parte dell'allora Governatore Generale, Roméo LeBlanc. Sulla base di questa legge è stato istituito il Witness Protection Program che, è amministrato dal Commissario della Royal Canadian Mounted Police, ha lo scopo di facilitare la protezione dei testimoni.

All'articolo 3 viene enunciato lo scopo della legge: «Lo scopo di questa legge è quello di promuovere l'applicazione della legge, facilitando la protezione delle persone che sono coinvolte direttamente o indirettamente nel fornire assistenza in materia di applicazione della legge in relazione

(A) alle attività svolte dalla Royal Canadian Mounted Police, diverse dalle attività derivanti in virtù di un accordo stipulato ai sensi della sezione 20 della Royal Canadian Mounted Police Act ;

(B) alle attività svolte dalle agenzie di applicazione della legge o tribunale penale internazionale o un tribunale per i quali è stato stipulato un accordo o un'intesa ai sensi dell'articolo 14».

Viene data, nell'articolo 2, la nozione di testimone, definito come:

A) una persona che ha dato o ha accettato di dare informazioni o elementi di prova, o partecipa o ha accettato di partecipare ad una questione, relativa ad un'inchiesta o un'indagine o ad un procedimento relativo ad un reato, e che può richiedere protezione a causa del rischio per la sicurezza della persona derivante dall'inchiesta, indagine o azione penale;

B) una persona che, a causa della sua relazione o associazione con una persona di cui al punto (a), può richiedere la protezione per i motivi di cui al medesimo paragrafo (a).

Nell'articolo 5, per quanto riguarda l'ammissione al programma di protezione si dice che: «Sulla base di questo atto, il Commissario può determinare se un testimone deve essere ammesso al Programma e che tipo di protezione devono essere fornite a ogni protetto nel Programma».

È previsto, nell'articolo 6, l'iter per l'ammissione al programma di protezione, dove si dice che: «Un testimone non è ammesso al Programma, a meno di

(A) una segnalazione per l'ammissione fatta da un'agenzia di applicazione della legge o da una corte o tribunale penale internazionale; e

(B) il Commissario è stato fornito dal testimone di alcune informazioni, in conformità con tutti i regolamenti adottati per lo scopo, per quanto riguarda la storia personale del testimone, in quanto consentirà al Commissario di prendere in considerazione gli elementi di cui al punto 7 nei confronti del testimone; e

(C) l'accordo è stato stipulato da o per conto del testimone con il Commissario che stabilisce gli obblighi di entrambe le parti.

In deroga al comma 1, il Commissario può, in un caso di emergenza, e per non più di 90 giorni, fornire protezione a una persona che non ha stipulato un accordo di protezione».

Affinché un testimone venga ammesso al programma di protezione, devono essere fatte alcune considerazioni, come previsto dall'articolo 7 del Canada Witness

Protection Act Program: «I seguenti fattori devono essere considerati nel

determinare se un testimone deve essere ammesso al Programma: (A) la natura del rischio per la sicurezza del testimone;

(B) il pericolo per la comunità se il testimone è ammesso al Programma;

(C) la natura dell'inchiesta, indagine o azione penale che coinvolge il testimone e l'importanza della testimonianza nell'affare;

(D) il valore delle informazioni o prove fornite o che ha accettato di fornire o della partecipazione del testimone;

(E) la probabilità che il testimone sia in grado di adattarsi al Programma, vista la maturità del testimone, il giudizio e di altre caratteristiche personali e le relazioni familiari del testimone;

(F) il costo del mantenimento del testimone nel Programma;

(G) metodi alternativi di protezione del testimone senza ammettere il testimone al Programma;

Capitolo Terzo

La prima normativa di protezione e gli sviluppi degli anni '90

3.1 La legge del 1988, n. 486 di integrazione della legge del 1982, n. 726

La normativa premiale della fine degli anni '70, soprattutto riferita ai reati di terrorismo ed eversione dell'ordinamento costituzionale, contribuì a far crescere il il numero di dissociati e pentiti. Questi fenomeni, come abbiamo visto in precedenza, si svilupparono in un primo momento tra i membri delle organizzazioni terroristiche ed eversive di matrice politica che agirono in Italia tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, successivamente tra gli affiliati della criminalità organizzata di stampo mafioso.

Il numero sempre più in crescita di dissociati e “pentiti” e la novità di questo fenomeno resero manifesta la necessità di garantire nel nostro ordinamento un'adeguata protezione e riservatezza agli imputati che collaboravano con la giustizia. La nostra legislazione infatti non disponeva di strumenti normativi adeguati per risolvere in modo appropriato le esigenze di questi soggetti, quindi vennero adottate «soluzioni dettate dalla contingenza ed ispirate a criteri spesso lontani dalla legalità, difformi dalla deontologia ed estranei alla professionalità degli operatori» . 40

In questo contesto normativo furono in primo luogo i pubblici ministeri che cercarono di risolvere il problema della protezione dei collaboratori, attività che invece sarebbe dovuta essere di competenza di organi amministrativi come le forze di pubblica sicurezza.

In questo modo però si venne a creare un particolare e discusso rapporto tra pubblico ministero e collaboratore che portò a pericolose conseguenze: le dichiarazioni del "pentito", che molto spesso furono di fondamentale rilevanza per

A.BERNASCONI, La collaborazione processuale. Incentivi, protezione e strumenti di

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le indagini, in taluni casi indirizzarono l'obiettività valutativa dell'autorità giudiziaria . 41

Per sopperire alla mancanza di disposizioni normative anche l'autorità di pubblica sicurezza e l'amministrazione penitenziaria intervennero creando soluzioni di stampo «artigianale-volontaristico» . 42

Generalmente la protezione dei collaboratori si tradusse nella custodia all'interno delle caserme delle forze dell'ordine oppure, dove possibile, vennero destinate alla protezione di questi soggetti delle sezioni carcerarie; in sostanza in quegli anni ci si affidò alla prassi, ai pubblici ministeri titolari delle indagini, al contributo di questori e prefetti, ai Comitati provinciali per l'ordine e la sicurezza e 43

all'impegno delle forze di pubblica sicurezza.

Ad esempio l'amministrazione penitenziaria, per colmare la lacuna normativa, predispose strutture ad hoc per i collaboratori di giustizia che fossero ancora imputati e sottoposti a misure di restrizione della libertà personale. Una soluzione che venne criticata in quanto si ritenne che tenere in stretto contatto i collaboratori durante le indagini o il processo, potesse avere dei risvolti negativi sulla veridicità delle loro dichiarazioni . Spesso invece l'autorità giudiziaria richiese 44

all'amministrazione penitenziaria che il detenuto-collaboratore venisse trasferito dal penitenziario alle caserme della forza di pubblica sicurezza situate nel

Ritiene necessaria una separazione di competenze tra il pubblico ministero e l'autorità

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che si occupa della protezione del collaboratore, N. AMATO, Intervento, in «La sicurezza

dei testimoni nei processi di criminalità organizzata», (atti dell’omonimo convegno

nazionale, Torino 1988), a cura del Consiglio regionale del Piemonte – Associazione nazionale magistrati sezione Piemonte-Valle d’Aosta, Utet, Torino, 1989, p. 77

M.LAUDI, Imputati pentiti (sistema di protezione), in «Digesto penale», VI, Torino,

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1992, p.276.

Il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica è un organo di consulenza

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del prefetto per l'esercizio delle sue attribuzioni di autorità di pubblica sicurezza. Istituito con la legge n. 121/1981 in ogni prefettura-ufficio territoriale del governo, presieduto dal prefetto, è composto dal questore, dai comandanti provinciali dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e del Corpo Forestale, dal sindaco del comune capoluogo e dal presidente della provincia, nonché dai sindaci di altri comuni territorialmente interessati.

P.L. VIGNA, La gestione giudiziaria del pentito:problemi deontologici, tecnici e

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psicologici, in AA.VV., Chiamata in correità e psicologia del pentitismo nel nuovo processo penale, CEDAM, 1992, p. 133 ss.

territorio di competenza del magistrato titolare delle indagini o del giudice del dibattimento. Ma anche questa soluzione non andò esente da rilievi e critiche da parte di dottrina e giurisprudenza che sollevarono il problema dei diritti e doveri del detenuto: il collaboratore-detenuto infatti, anche se trasferito nelle caserme di polizia, era ancora sottoposto formalmente alla vigilanza dell'autorità penitenziaria e quindi ci si chiese se i diritti e doveri a lui riferiti fossero da applicare anche nelle caserme e se il magistrato di sorveglianza potesse esercitare su quegli stessi luoghi una forma di giurisdizione.

Diverse furono invece le misure che nella prassi vennero adottate per i collaboratori di giustizia che non fossero ristretti nella libertà personale o avessero finito di scontare la pena: questi soggetti, a seconda dell'esigenza di protezione, potevano subire misure più lievi come un trasferimento, che comportava il cambio di domicilio e del posto di lavoro, oppure misure più decise come l'espatrio e il cambio di generalità.

Le problematiche e le disfunzioni della prassi utilizzata in quegli anni per sopperire al vuoto normativo in merito alle misure di protezione dei collaboratori di giustizia resero ancora più evidente la necessità di un intervento legislativo. Era necessario innanzitutto affidare ad un organo centralizzato la gestione del sistema di protezione, evitando di coinvolgere in qualsiasi modo il pubblico ministero titolare delle indagini. Inoltre sarebbe stato importante individuare dei parametri normativi ai quali ci si doveva attenere per decidere se attivare o meno il programma di protezione. Infine parte della giurisprudenza, rendendosi conto dell'inadeguatezza del sistema carcerario, propose di predisporre un sistema di protezione basato su misure extra murarie . 45

Grazie soprattutto alle pressioni fatte da parte della magistratura, il Parlamento emanò, anche se in ritardo, il tanto attesto intervento legislativo che, seguendo le linee guida sopra citate, avrebbe dovuto risolvere il problema della protezione dei

N. AMATO, Intervento, in «La sicurezza dei testimoni nei processi di criminalità

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organizzata», (atti dell’omonimo convegno nazionale, Torino 1988), a cura del Consiglio

regionale del Piemonte – Associazione nazionale magistrati sezione Piemonte-Valle d’Aosta, Utet, Torino, 1989, p.77 ss.

collaboratori: venne emanata la legge n. 486 del 15 novembre 1988. Questa legge però portò a scarsi e poco efficaci risultati in quanto si limito ad attribuire all'Alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa il 46

potere di «adottare o [..] fare adottare tutte le misure che valgono ad assicurare [...] l'incolumità delle persone esposte a grave pericolo per effetto della loro collaborazione nella lotta contro la mafia o di dichiarazioni da esse rese nel corso di indagini di polizia o di procedimenti penali, riguardanti fatti riferibili a organizzazioni e attività criminose di stampo mafioso. Tali misure potranno anche essere adottate per garantire l'incolumità dei prossimi congiunti» . 47

Il problema di questa normativa era dato dalla genericità dei poteri attribuiti all'Alto commissario: non vennero specificati dalla legge né i presupposti né i contenuti delle misure di protezione che potevano essere adottate e lo stesso Alto commissario sembrava avere un potere di intervento abbastanza limitato. Inoltre aver attributo ad una sola autorità le competenze in materia di misure di protezione, rese incontrollabile l'esercizio concreto che, tra l'altro, era ristretto alla collaborazione per reati di mafia.

Anche Giovanni Falcone ribadì molte volte l'inadeguatezza dei mezzi a disposizione dei magistrati che combattono la mafia e la lontananza delle istituzioni. 48

L'articolo 1 quinquies comma VI, della legge n. 486 del 1988, relativo alla protezione dei collaboratori detenuti presentava tra l'altro una formulazione del tutto lacunosa anche perché non prevedeva alcun tipo di coordinamento tra l'Alto

L'Alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa era

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un ufficio creato per garantire un contrasto più efficace alla mafia. Dopo la Strage di via Carini del 3 settembre 1982 a Palermo con cui vennero uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie e un agente di scorta, venne istituito con il decreto legge 6 settembre 1982 n. 629 - convertito nella legge 726 del 12 ottobre 1982.

Articolo 1 ter comma III legge n.726 del 1982 introdotto dall'articolo 2 legge n.486 del

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1988.

G.FALCONE, Cose di cosa nostra, BUR, 2013, p. 163 . Falcone parlò così dell'Alto

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Commissariato: « Il famoso Alto Commissario per la lotta contro la mafia, creato sull’onda emotiva suscitata dall’assassinio di Dalla Chiesa, ne è l’esempio lampante: da allora il ministro dell’Interno e il governo nel suo insieme hanno potuto scaricare sull’istituto la colpa delle inefficienze attribuendogli la responsabilità di ogni insuccesso»

commissario per la lotta alla criminalità organizzata e l'amministrazione penitenziaria.

Un'innovazione importante della legge n.486 del 1988 fu invece prevista sempre nell'articolo 1 ter comma III che attribuì una potestà speciale all'Alto commissario nell'adozione delle misure di protezione al fine di garantire la riservatezza, «anche in atti della pubblica amministrazione». Però questa norma regolava solo in modo astratto la riservatezza nei confronti degli atti della Pubblica Amministrazione che potrebbe comunque incidere sulla sfera di protezione, ma non riguardava la riservatezza nei singoli procedimenti amministrativi. Emerse quindi la grande difficoltà di azione per gli uffici che dovevano predisporre le misure di protezione, i quali dovevano in primo luogo cercare di difendere i collaboratori e i loro familiari dalla vendetta delle organizzazioni criminali, ma nel contempo dovevano anche rispettare tutte le regole imposte dalla Pubblica Amministrazione.

Inoltre risultò ben presto chiaro che i collaboratori e i loro familiari non necessitavano solo di protezione ma avevano anche bisogno di essere reinseriti nella società, di ricostruirsi un'esistenza tranquilla e non dipendente dallo Stato. Obbiettivi raggiungibili solo con mezzi straordinari, che furono introdotti solo dall'articolo 10 della legge n. 82 del 1991, con il c.d. «speciale programma di protezione». Purtroppo però questo tardivo intervento legislativo «ha consentito un intollerabile rafforzamento - in termini militari, economici e politici - delle organizzazioni di tipo mafioso, manifestatosi nel modo più terribile con le stragi palermitane del 1992» . 49