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La premessa del prossimo capitolo è che non esiste una teoria universale sull’internazionalizzazione, ma bensì diverse prospettive teoriche susseguitesi e sviluppatesi nel corso degli anni. Tuttavia, prima di elencare le varie teorie, è necessario definre il concetto di internazionalizzazione, il quale presenta diverse possibili interpretazioni. Il dibattito in questione vede due principali contrapposizioni: una prima visione considera internazionalizzate quelle imprese che vendono sui mercati esteri, a prescindere dalla modalità con la quale viene raggiunta la clientela; una seconda visione, in contrasto alla precedente, considera un’impresa realmente internazionalizzata solo quando quest’ultima opera con proprie unità produttive e di vendita all’estero. In realtà, esistono diversi gradi di internazionalizzazione, secondo la numerosità e l’intensità dei rapporti che l’impresa intrattiene con i suoi principali interlocutori internazionali89. Nel mondo delle PMI, molte imprese sono internazionalizzate solo perché vendono saltuariamente all’estero, operando attraverso intermediari e senza una conoscenza diretta del mercato; all’estremo opposto, altre sono internazionalizzate perché hanno localizzato proprie unità produttive in altri Paesi. È forse più opportuno parlare quindi, di diversi gradi di presenza sui mercati esteri: dall’esportazione indiretta a quella diretta, passando da un processo di integrazione crescente attraverso uffici di rappresentanza, sedi e filiali, fino alla definizione di alleanze strategiche e/o investimenti diretti veri e propri. Queste diverse fasi, sottendono per l’azienda diverse entità di impegno, di rischio, di capacità di gestione e controllo dei processi e, non ultimi per importanza, di livelli di marginalità e profitto. L’internazionalizzazione quindi, come sostengono Welch & Luostarinen (1998), può essere considerato come “un processo di crescente coinvolgimento in operazioni internazionali90”, più che uno

status acquisito in un preciso momento storico.

89 Figni M., RCI (Research and Consulting International), Associazione A+Network,

“Internazionalizzazione: scelta obbligata per valorizzare la competitività delle PMI italiane”, Report sui risultati della ricerca sui percorsi di internazionalizzazione della media, piccola e piccolissima impresa, Novembre 2013, p. 1-99

90 Segaro L. E., Larimo J., Jones V. M., Internationalisation of family small and medium sized

enterprises: The role of stewardship orientation, family commitment culture and top management team, “International Business Review” 2014, Issue 2, Vol. 23, p. 381-395

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È possibile individuare tre fasi storiche del processo di internazionalizzazione91:

1. Fase fordista (anni ’70): solo le grandi imprese ricorrevano a forme di internazionalizzazione commerciale e di penetrazione nei mercati esteri;

2. Fase post-fordista (anni ’80): l’internazionalizzazione diviene un fenomeno molto diffuso in quanto le imprese ricercano sul mercato internazionale le condizioni di produzione più efficienti (in particolare basso costo del lavoro e vicinanza ai mercati di sbocco);

3. Fase attuale: adozione di un percorso più complesso che coniuga i tradizionali aspetti commerciali e produttivi con l’incremento degli investimenti diretti all’estero e la costituzione della cosiddetta “impresa a rete”, che permette alle organizzazioni di specializzarsi nello svolgimento di specifiche fasi produttive.

6.1 Le teorie pre-Hymer

Da un punto di vista prettamente teorico, il concetto di internazionalizzazione come attività di impresa nasce negli anni Sessanta, grazie agli studi di Stephen Hymer (1960). Fino ad allora, si riteneva che tale concetto dovesse essere analizzato all’interno dei flussi internazionali dei beni e dei capitali, studiando quindi il fenomeno dal punto di vista delle nazioni e della macroeconomia. A tal proposito, il cosiddetto “commercio internazionale” era spiegato mediante due modelli: quello del vantaggio assoluto (Adam Smith, 1776), secondo cui una nazione esporta i beni o servizi che produce più efficientemente (con un costo di produzione minore) rispetto a tutti gli altri Paesi; e quello del vantaggio comparato, proposto da David Ricardo (1817), e poi ripreso e allargato a più fattori produttivi da Heckscher e Ohlin (1933), secondo cui “i Paesi più ricchi di capitale, si specializzano nella produzione ed esportazione di prodotti ad alta intensità di tale fattore (prodotti ad alta tecnologia), e importano prodotti ad alta intensità di lavoro (prodotti a bassa tecnologia) da Paesi relativamente più ricchi di manodopera”.

6.2 Il primo contributo: la teoria di Hymer

Negli anni Cinquanta, iniziarono ad affiorare i primi dubbi sulla vera natura dei flussi internazionali di beni, servizi e capitali, fino a che nel 1960, Hymer, nella sua tesi di dottorato, affermò che gli investimenti diretti esteri dovessero essere considerati non

91 Negri A., “Internazionalizzarsi”, Progetto “dall’Iter alle Reti: implementazione Sportello Unico”,

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tanto come meri movimenti internazionali di capitale, ma soprattutto come un insieme complesso e organizzato di transazioni, più propriamente riconducibili ad una vera e propria attività d’impresa92

. Facendo riferimento alle analisi di Bain93 (1956) sulle barriere e le condizioni di entrata, il modello di Hymer (o teoria del vantaggio monopolistico) si basa sulla constatazione che l’impresa che si insedia in un Paese estero è soggetta a tutti gli svantaggi connessi alla sua condizione di società non nazionale (“liability of foreignness”) che derivano da un gap informativo rispetto alle imprese locali in termini di: lingua, struttura economica, leggi, cultura, società, sistema politico e istituzionale. Si tratta di barriere che rappresentano costi notevoli, definibili tuttavia fissi, in quanto da sostenere in modalità una tantum94. L’internazionalizzazione delle imprese deriva dai vantaggi operativi specifici che esse possiedono nello svolgere alcune attività: si distinguono (Bain, 1956) al riguardo, vantaggi di costo (es. controllo delle tecniche produttive attraverso brevetti, condizioni di favore sui mercati finanziari, ecc.), e vantaggi di differenziazione (preferenze dei consumatori verso specifici marchi, controllo di punti di vendita strategici, controllo di prodotti superiori attraverso brevetti, ecc.). Secondo Hymer, il motivo del cosiddetto “going international” sta proprio nel godere di alcuni vantaggi rispetto alle aziende locali, tali da compensare i costi fissi delle barriere all’ingresso.

6.3 Le teorie post-Hymer

L’influenza di Hymer si continuò a percepire per anni all’interno della letteratura economica, a tal punto che alcuni economisti decisero di raggruppare le teorie successive sull’internazionalizzazione in due insiemi, le teorie di Cambridge, negli Stati Uniti, e quelle di Reading, in Inghilterra.

Le teorie di Cambridge possono essere a loro volta suddivise in due filoni principali: la teoria del ciclo di vita del prodotto (Vernon, 1966), e il filone oligopolistico95. La teoria del ciclo di vita del prodotto identifica le fasi attraverso le quali un’impresa introduce e successivamente sviluppa un prodotto tecnologicamente nuovo sul mercato estero.

92 Dematté C., Perretti F., “Strategie di internazionalizzazione” 2003, Egea, p. 19

93 Bain, economista statunitense artefice del “paradigma struttura-performance” (1959), sostiene che la

struttura di un settore costituisce l’aspetto centrale che condiziona il comportamento delle imprese, da cui deriva a sua volta il loro conseguimento di determinati livelli di performance economica e di benessere della società, in senso lato. Ferrucci L., “Strategie competitive e processi di crescita dell’impresa”, Franco Angeli, Milano 2001, p. 22

94 Dematté C, Perretti F., “Strategie di internazionalizzazione” 2003, Egea, p. 21 95

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Secondo Vernon, il prodotto viene prima introdotto e commercializzato nel mercato locale, dopodiché, nella sua fase di maturità, i vantaggi di differenziazione spingono le vendite oltre i confini nazionali, e infine, nell’ultima fase, quando ormai il prodotto è maturo e standardizzato, l’impresa cercherà la redditività nella riduzione dei costi di produzione, localizzando perciò le attività produttive nei paesi in via di sviluppo. Questa teoria ha il limite di aver focalizzato l’attenzione sul prodotto e non sull’impresa, tralasciando le possibilità di analizzare un’impresa multi-product, o differenziazioni tecnologiche sul processo e non solo sul prodotto. Il denominatore comune del filone oligopolistico, invece, è la descrizione dell’impresa multinazionale come un’impresa di grandi dimensioni la cui esistenza è supportata da un vantaggio competitivo di tipo oligopolistico o monopolistico, che la rende capace di superare i vantaggi nazionali delle imprese locali.

Le teorie di Reading (Buckley e Casson, 1975) si svilupparono nella seconda metà degli anni settanta nell’omonima Università inglese, e sono riconducibili, oltre ai primi contributi di Dunning (1971, 1973), all’approccio dei costi di transazione di Buckley e Casson (1976). Tale approccio, adottato in seguito anche da Teece (1981) e da Rugman (1981), applica i concetti elaborati da Coase (1937) e, in modo particolare da Williamson (1975, 1981). L’impresa multinazionale viene qui rappresentata come un ente complesso che estende le proprie attività all’estero attraverso forme di organizzazione interna (investimenti diretti all’estero), in quanto più efficienti e vantaggiose rispetto all’uso del mercato (inteso come relazioni e scambi con l’estero), il quale comporta costi di transazione (definiti come costi di comunicazione) molto elevati riconducibili, oltre alla necessità di un volume elevato di informazioni contabili e di controllo, alla distanza geografica e alla diversità ambientale (sociale, economica e culturale), fattori che comportano un rischio nel ritardo o nella correttezza della comunicazione più elevato. L’investimento estero (l’internalizzazione) si basa sul fallimento di alcuni tipi di mercato, e può assumere tre forme diverse96:

- L’investimento estero di tipo verticale (riferito ai processi di integrazione a monte o a valle), il quale mira ad internalizzare i mercati dei prodotti intermedi per sostituirli (ovviando a fenomeni di opportunismo che minacciano la sicurezza della fornitura) o supportarli (ovviando alla mancanza di infrastrutture), quando questi non esistono o sono poco sviluppati;

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- L’investimento estero di tipo orizzontale (stanziamento dei propri impianti produttivi in un altro Paese), riconducibile alla necessità o di sostituire il mercato del know how per proteggere la diffusione delle capacità e delle conoscenze, o allo scopo di supportarlo, per distribuire meglio le conoscenze in assenza di personale qualificato;

- L’investimento estero di tipo conglomerale (riferito alle strategie di tipo finanziario- fiscali), il quale mira a sostituire (per minimizzare il rischio di cambio) o a sostenere (in caso di mercati poco sviluppati), i mercati finanziari.

Un altro contributo teorico allocabile all’interno della scuola di Reading, è il “paradigma eclettico” di Dunning (1977, 1980, 2000) detto anche “OLI” (Ownership,

Location, Internalization), il quale cerca di integrare e conciliare al suo interno diversi

concetti emersi nel dibattito sull’internazionalizzazione, evidenziando alcuni vantaggi che determinano la scelta di internazionalizzare da parte delle imprese:

1) Vantaggi di proprietà (ownership advantages): le imprese aventi una maggiore disponibilità di competenze uniche e risorse specifiche rispetto alle imprese locali, possono ottenere vantaggi all’estero, tramite l’accesso a specifici assets (intangibili o tangibili), o mediante una loro gestione più efficiente;

2) Vantaggi localizzativi (location advantages): condizioni favorevoli del Paese in cui le imprese intendono espandersi (es. basso costo della manodopera, materie prime e mezzi di trasporto, disponibilità di infrastrutture, ecc..), che permettono loro di acquisire vantaggi e valorizzare le proprie risorse;

3) Vantaggi di internalizzazione (internalization advantages): motivazioni che spingono l’impresa a trasferire i propri vantaggi utilizzando una struttura organizzativa propria, coordinando e controllando dall’interno tutte le attività internalizzate.

I vantaggi proprietari si rifanno all’esistenza di vantaggi monopolistici che l’impresa può sfruttare su scala internazionale. La possibilità di sfruttare i vantaggi monopolistici attraverso investimenti diretti esteri è legata ai costi di transazione, ossia alla convenienza da parte dell’impresa di internazionalizzarsi ricorrendo al mercato interno rispetto al mercato esterno. Infine, i fattori localizzativi recuperano la dimensione geografica che spiega perché l’impresa disloca i propri impianti in un paese piuttosto che in altri. Altri contributi teorici sull’internazionalizzazione provengono poi dalle teorie strategiche di Kogut (1985) e Porter (1986, 1990) (vedi Capitolo 8).

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Attualmente, è quindi possibile constatare che non esiste un’unica teoria sull’internazionalizzazione, ma piuttosto un insieme di teorie e modelli che, attraverso un’evoluzione incrementale, hanno cercato di analizzare e spiegare alcuni fenomeni non interpretabili con gli schemi teorici precedenti. Il fatto di non possedere ancora una teoria unificata non significa che non siano stati comunque trovati dei tratti comuni per le imprese intenzionate ad internazionalizzarsi. Di seguito, verranno analizzati i processi e i modelli più utilizzati per descrivere l’internazionalizzazione, la quale sta assumendo negli ultimi anni una dimensione sempre più rilevante all’interno dello strategic

management.