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Cap 5: La PMI tra globalizzazione, internazionalizzazione e competitività

Il tumultuoso evolversi del contesto socio-economico mondiale, connesso con il fenomeno della globalizzazione dei mercati e dell’internazionalizzazione delle imprese, è stato da sempre oggetto di controversi studi ed analisi. Per quanto concerne gli aspetti economico-finanziari, il processo di globalizzazione ha ridisegnato gli orizzonti entro i quali si muovono gli operatori, che se da un lato hanno visto aprirsi nuovi contesti relazionali di approvvigionamento e di vendita, dall’altro hanno subìto un forte aumento della pressione competitiva. Ad ogni modo, poiché la globalizzazione appare espressione di una situazione di forte interdipendenza tra le diverse regioni del Mondo a livello non solo economico, ma anche politico, sociale e culturale, essa rappresenta un fenomeno intrinsecamente ambivalente, nel senso che ha delle forti potenzialità

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positive, cui si accompagnano però, aspetti negativi79. Infatti, non tutte le imprese si dimostrano capaci di cogliere le opportunità offerte dal mercato globale80 e di trasformarle in fattori di vantaggio competitivo; conseguentemente si crea una frattura nel mondo imprenditoriale, sempre più diviso tra le imprese che sono in grado di competere nel mercato globale e quelle che, invece, ne restano ai margini. Per il primo gruppo di imprese la globalizzazione costituisce una grande opportunità, in quanto offre la possibilità di sfruttare, in un contesto molto più ampio, le risorse e gli elementi di forza che esse hanno a disposizione. Per le atre invece, l’integrazione economica internazionale comporta fondamentalmente una riduzione di potere contrattuale, poiché rende concreta la possibilità di sostituzione dei propri prodotti/servizi con quelli offerti da imprese localizzate in altri Paesi81.

L’internazionalizzazione in questo contesto, rappresenta la risposta forzata o la scelta deliberata, alla sfida della globalizzazione. Ne deriva che le azioni delle singole imprese non sono più solamente una mera conseguenza delle strategie aziendali, ma vengono indirizzate, a volte anche inconsapevolmente, dal macro comportamento del sistema in cui sono inserite. Premesso ciò, le possibilità di successo di un processo di internazionalizzazione dipendono oggi, oltre che da un adeguato set di capacità di base (in termini di disponibilità di risorse materiali e immateriali), anche dalla capacità dell’Organo di Governo (OdG) dell’impresa di attivare adeguati meccanismi di creazione e sviluppo della conoscenza82. In poche parole, le imprese, devono imparare a governare nuove risorse per lo sviluppo, prevalentemente di tipo immateriale: informazioni, conoscenze, relazioni. Sono queste che consentono lo sviluppo adeguato delle “capacità chiave” dell’impresa, quali la capacità di valutare, di decidere e di innovare, per potersi porre come soggetto competitivo in un mercato globale e fortemente dinamico. È solo mediante queste tre capacità che il tradizionale “saper fare”, proprio dei sistemi di impresa, può essere adeguatamente rivitalizzato e diventare decisivo nei nuovi contesti competitivi83.

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Polese F., Un’analisi relazionale dei processi di internazionalizzazione delle imprese minori. Il ruolo del temporary manager, “Sinergie Italian Journal of Management” 2004, n. 63, p. 120-142

80 Caselli L., Processi di globalizzazione e democrazia economica, “Economia e Politica Industriale”,

1997, n. 94, p. 40

81 Polese F., Un’analisi relazionale dei processi di internazionalizzazione delle imprese minori. Il ruolo

del temporary manager, “Sinergie Italian Journal of Management” 2004, n. 63, p. 120-142

82 Conoscenza e fattori produttivi immateriali (dalla qualificazione del capitale umano alla disponibilità di

capacità organizzativa, ecc.) costituiscono il nuovo modo di avere successo nella trasformazione economica. Vaccà S., Cozzi G., “Come governare la globalizzazione dello sviluppo economico”, p. 61

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5.1 Internazionalizzazione: solo un processo “per grandi”?

“L’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese è ancora una realtà senza teoria84”. Così si esprimevano in molti, trent’anni or sono. In effetti, la maggior parte dei contributi teorici di International Business (impresa internazionale) hanno avuto, in modo esplicito o implicito, come primario oggetto di riferimento imprese di grandi dimensioni, considerando le operazioni internazionali delle PMI solamente come eventi fortuiti, originati da dinamiche congiunturali favorevoli piuttosto che da scelte strategiche ben definite. Nei contributi ricollegabili allo studio delle determinanti dell’internazionalizzazione (da Vernon, a Hymer, a Dunning, tanto per citare alcuni epigoni), si sviluppa infatti un profilo di impresa multinazionale “che possiede dei vantaggi competitivi che sfrutta e consolida, attraverso la realizzazione di economie di scala a livello internazionale, ottimizzando il gioco competitivo oligopolistico, attraverso una conveniente scelta localizzativa85”. Ma anche quando i contributi teorici, recuperando la centralità dell’impresa e dei meccanismi decisionali di tipo imprenditoriale e manageriale si soffermano sui processi organizzativi e strategici che sostengono l’internazionalizzazione, il riferimento va ad un’impresa dotata di una quantità di risorse materiali e immateriali tali da sostenere processi di graduale espansione internazionale e di mobilitazione intelligente di risorse a livello globale. Tutto questo è dovuto principalmente al fatto che i processi di internazionalizzazione di questa categoria di imprese vengono spesso analizzati attraverso teorie economiche (come quelle dell’internalizzazione o del vantaggio competitivo) che non sono in grado di analizzare correttamente il fenomeno. Questo approccio però, è stato messo in discussione dalla teoria comportamentale di Uppsala (vedi Capitolo 7) che considera l’internazionalizzazione come un processo complesso di coinvolgimento incrementale (a stadi) dell’impresa all’estero, che non dipende solo da variabili economiche, ma anche da componenti come l’esperienza e l’apprendimento che, da un lato influenzano la percezione dei costi e rischi connessi alle attività estere, e dall’altro, contribuiscono allo sviluppo delle capacità organizzative necessarie per operare sui mercati internazionali.

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Grandinetti R. e Rullani E., Internazionalizzazione e piccole imprese: elogio della varietà, “Piccola impresa” 1992, n. 3, p. 3

85 Compagno C., Aspetti di governance e processi di internazionalizzazione nelle pmi, “Sinergie Italian

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Oggi, quindi, grazie anche al consolidamento del fenomeno della globalizzazione e ai vantaggi da questo portati, l’internazionalizzazione è un percorso che può essere intrapreso e associato anche alla piccola e media impresa, specie nella realtà italiana, da cui emerge che peraltro, non ci sono barriere assolute di ordine dimensionale né all’ingresso e né all’espansione di tali imprese sui mercati internazionali; sono le modalità, gli strumenti, e le forme di coinvolgimento, che possono essere diverse rispetto a quelle delle grandi imprese.

5.2 La realtà italiana

La realtà italiana è certamente in grado di smentire la visione elitaria dell’internazionalizzazione descritta inizialmente, presentando un modello incentrato sul ruolo delle PMI e dei distretti, che si pone in netta antitesi ai modelli implementati dalle grandi organizzazioni. Come possiamo vedere in Tabella 4, le imprese italiane preferiscono forme di internazionalizzazione elementari (es. esportazioni) rispetto a strutture più complesse (es. IDE). Inoltre, tra le 191.262 imprese esportatrici attive al 2013, più del 90% (189.401) ha meno di 250 addetti86, e quindi rientrano nella categoria di PMI (vedi Tabella 5).

Tabella 4: Caratteristiche strutturali delle imprese per forme di internazionalizzazione

FORME DI INTERNAZIONALIZZAZIONE Numero di imprese Numero di addetti Dimensione media (addetti) Solo esportatori 323.776 13,4

Importatori di beni intermedi 412.095 30,3 Importatori di altri beni e servizi 143.983 18,9 Esportatori-importatori 992.827 35,2

Global 933.482 89,2

MNE 647.232 206,6

Controllo estero 4.261 936.749 219,8

Totale 87 4.390.145 48,0

Fonte: “Rapporto ISTAT sulla competitività delle imprese e dei settori, 2013.

Si distinguono sette classi di imprese in base al grado di complessità della modalità operativa adottata sui mercati internazionali. In particolare, le prime cinque classi individuano le diverse tipologie di internazionalizzazione commerciale, mentre le rimanenti due si riferiscono all’internazionalizzazione produttiva. La classe più elementare, “Solo esportatori”, è costituita da imprese che non importano ma svolgono una qualsiasi attività di esportazione verso i paesi Ue e verso un massimo di quattro aree geografiche extra-Ue. Nella seconda e terza classe sono state considerate le imprese che svolgono solo attività di importazione, distinguendo quelle che importano esclusivamente beni intermedi (“Importatori

86 Istat, “Annuario statistico italiano” 2015

87 Il dato (Istat) si riferisce ad un campione rappresentativo di imprese italiane in riferimento all’anno

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di beni intermedi”) da quelle che importano tutte le altre tipologie di beni (“Importatori di altri beni e servizi”). La quarta classe include le imprese che effettuano attività sia di esportazione che di importazione (“Esportatori-importatori”) e la quinta quelle che vendono in almeno 5 aree extraeuropee (“Global”). Le ultime due classi, infine, relative all’internazionalizzazione produttiva, comprendono rispettivamente le imprese che hanno controllate estere (“MNE”) e quelle localizzate sul territorio italiano ma a loro volta controllate dall’estero (“Controllo estero”).

Tabella 5: Imprese esportatrici attive al 2013, suddivise per classi dimensionali

CLASSI DI ADDETTI Imprese (valore assoluto) Imprese (%) 0-9 addetti 125.403 10-19 20-49 50-99 100-249 250-499 0,54 500 addetti e oltre Totale

Fonte: “Annuario statistico italiano” 2015, Istat. Rielaborazione personale

A questa preferenza per modalità “poco impegnative” di internazionalizzazione, hanno senza dubbio contribuito anche gli stessi modelli di governance di tali imprese, centrati sul ruolo dell’imprenditore e della famiglia, e caratterizzati da scarso ricorso a profili manageriali e a forme organizzative adeguatamente strutturate per affrontare le sfide internazionali. Tuttavia l’esportazione, non va considerata un modello meno evoluto di internazionalizzazione: in determinate circostanze tale forma può risultare più adatta degli investimenti esteri, ad esempio in tutti quei casi dove il valore dell’offerta dipende da vantaggi che sono prevalentemente di tipo country specific 88 come quelli

identificabili nelle economie di agglomerazione tipiche dei distretti industriali italiani. I vantaggi locali indicati da Porter nel suo “diamante” (vedi Capitolo 8), sono infatti quelli su cui hanno fatto leva le PMI italiane nei decenni passati per aumentare la loro competitività. In questi termini, sarebbe quindi la necessità di conservare i vantaggi dell’appartenenza a sistemi del valore a base territoriale ad indurre la PMI italiane a preferire il modello esportativo agli IDE. Inoltre, come evidenziato da Grandinetti e Rullani (1996), le PMI italiane hanno un rapporto naturale con l’internazionalizzazione, per il fatto che le loro competenze di nicchia possono essere messe in valore semplicemente attraverso un’estensione mondiale delle vendite. I vantaggi competitivi delle nostre imprese sono infatti fortemente radicati sul territorio e sono intrinsecamente

88 I vantaggi specifici per Paese derivano principalmente da due aspetti: dotazione di risorse e fattori

istituzionali. H. R. Zhang, Literature Review on Country-Specific Advantage, “Journal of Service Science and Management” 2016, Issue 9, p. 111-118

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di natura globale, in quanto adatti ad essere sfruttati a livello internazionale senza un elevato adattamento dell’offerta ai diversi mercati.