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di una frontiera

III. Prime interpretazioni

III.5.1 Quale capitale?

Uno studio come questo porta con sé la consapevolezza implicita che all’interno della vasta categoria di tutte le fonti storiche (scritte, monumentali, figurative, materiali…) le quali costituiscono testimonianze, anche solo involontarie, della storia del potere, della mentalità e dell’immaginario, ve ne siano alcune il cui obiettivo è esattamente quello di diffondere una specifica immagine della città: esse sono fatte per convincere, per orientare il giudizio e la percezione identitaria di una data comunità. Tali fonti ovviamente non si distribuiscono uniformemente nel corso del tempo, in quanto risultano utili o addirittura necessarie in determinati momenti storici, in cui vengono chiamate a descrivere una realtà da celebrare o da criticare, in ogni caso sentita come problematica.

A questo proposito Giovanni Ricci, esperto di storia della città e delle sue rappresentazioni, nell’intervento d’apertura dell’opera in quattro volumi Storia illustrata di Ravenna individua quattro momenti salienti legati alle reazioni alle fortune e sfortune alterne della città. Secondo lo storico essi possono essere scanditi nella costruzione del prestigio del V secolo, nella difesa di tale prestigio nell’altomedioevo, nella lunga fase del bassomedioevo e dell’età moderna in cui venne subita la decadenza della città, infine nel vezzeggiamento di tale decadenza nel corso dell’Ottocento e nel primo Novecento242. Al di là di queste suddivisioni, il saggio è utile perché offre notevoli spunti di riflessione.

Innanzitutto va chiarito che Ravenna fu una capitale di ripiego, funzionale e contingente, scelta sostanzialmente per i vantaggi difensivi che poteva offrire data la sua posizione, comoda anche per i collegamenti e gli approvvigionamenti, in un momento di forte instabilità per l’Impero romano d’occidente quale fu il V secolo. E infatti l’imperatore vi si trasferì, ma con lui non molti degli alti funzionari del patriziato romano, così che gli atti pubblici più importanti continuarono ad essere emanati da Roma. Fu Roma a continuare ad essere l’alter ego di

240 FABRI 1678, p. 9.

241 Anche nel finale del libro II del Rubeus, per dimostrare quanto gli altri vescovi avessero accettato di buon grado la subordinazione a Ravenna, si porta come esempio l’operato di Prospero d’Aquitania: egli, da vescovo di Reggio, nelle sue vicinanze dedicò a sant’Apollinare – sempre ricordato come primo vescovo di Ravenna e apostolo dell’Emilia – una chiesa in cui volle persino essere seppellito (PIERPAOLI 1997,p. 119).

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Costantinopoli, forte di un carisma di cui Ravenna non riuscì mai a dotarsi; la corte ravennate non dettò mai legge sul gusto o sulla moda in occidente, né si distinse particolarmente per lo sviluppo culturale che vi favorì.

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Come se non bastasse, negli ambienti romani si sviluppò una polemica contro la nuova capitale, il cui nome fu ricondotto etimologicamente a Remo, primo nemico di Romolo, che avrebbe così fondato “l’anti-Roma”. La risposta ravennate si concretizzò nella riesumazione di un epiteto nobile e prestigioso – quello di antica – probabilmente preesistente ma che riacquistò nuovo slancio a partire dal suo impiego in un carme encomiastico di Claudio Claudiano, poeta alla corte di Onorio, proprio l’imperatore responsabile del trasferimento della sede imperiale. Certo il nuovo rango di capitale favorì lo sviluppo della città, che pure sorgeva in un contesto territoriale semiabbandonato, stando alle parole con cui sant’Ambrogio descrive i centri dell’entroterra cispadano intorno al 400; Ravenna stessa nel 467 forniva ancora un quadro desolante rispecchiato nelle parole di Sidonio Apollinare243. È piuttosto con il regno di Teoderico che si ebbe il maggiore investimento di risorse e di volontà per fare di Ravenna una capitale di successo. Come esposto nel secondo capitolo, in età teodericiana venne intrapreso un imponente programma di costruzione di nuovi edifici e di restaurazione dei preesistenti; si provvide alla decorazione della cappella palatina con apparati iconografici dai connotati fortemente ideologici244; venne coniata una moneta recante un busto femminile turrito e la legenda Felix Ravenna. Insomma, Ravenna veniva proposta e promossa come equivalente e sostituta di Roma, in modo tale che il re dei Goti potesse essere considerato in tutto e per tutto l’interlocutore appropriato per l’imperatore d’oriente. Dunque, la volontà politica di Teoderico spazzò via l’idea di una Ravenna antitesi di

243 Sidonio Apollinare, Epistola VIII (1,8).

244 Di essi, oggi quasi del tutto perduti, è possibile rintracciare l’eco in alcuni passi del Liber Pontificalis di Andrea Agnello. Dopo la riconquista bizantina infatti l’arcivescovo Agnello fece epurare molte parti dei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo per cancellare la memoria del re goto e dell’eresia ariana.

Fig. 24 - Moneta coniata a Ravenna in età gota con iscrizione “[FEL]IX RAVENNA”, inizio VI secolo. Da Classe, quartiere portuale, scavi 2003 (AUGENTI,BERTELLI 2007).

Fig. 25 - Il Medaglione di Senigallia, una delle poche raffigurazioni di Teoderico superstiti (AUGENTI 2002).

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Roma, per sostituirla con quella di una erede di quest’ultima, ossia di una Ravenna connotata come “seconda Roma”.

Gradualmente nel corso del basso medioevo e poi per tutta l’età moderna la città si trovò a fare i conti con il proprio isolamento e decadimento, che rendevano il ricordo dello splendore passato più che altro sinonimo di una gloria estinta245. Lo scarto con la realtà – la spazio urbano effettivamente occupato si era ristretto all’interno della cinta muraria, mentre pressoché scomparse risultavano Classe e il sobborgo di Cesarea – suggeriva razionalmente ai gruppi di potere di restringere l’ostentata grandeur al campo religioso246, riscontrabile nella temporanea autocefalia raggiunta dalla chiesa ravennate e nei restanti continui tentativi di maggiore indipendenza dalla chiesa romana.

Non a caso sono sguardi stranieri a restituire la situazione in maniera più obiettiva: l’ugonotto francese Maximilien Misson, a Ravenna nel 1688, addirittura stentava a riconoscere la città, dubitando che si trattasse di quella citata nelle fonti antiche, mentre il Grand Tour sei-settecentesco, che pure prevedeva tra le sue tappe le vicine Venezia e Loreto, escludeva Ravenna, per la quale non valeva la pena affrontare un viaggio scomodo e insicuro via mare o lungo le strade impraticabili247.

Come esposto nella carrellata storiografica di questo capitolo, l’epiteto di “antica” (talvolta, come in Serafino Pasolini, “più antica” di Roma stessa), che diventa topos ripetuto dai vari eruditi che si cimentano nella narrazione del passato della città, ebbe una certa diffusione, tra l’altro molto durevole nel tempo (arrivando fino a Teseo Dal Corno e Antonio Zirardini). Dall’attardarsi storiografico di Ravenna nel suo ruolo di capitale ereditato dalla tradizione imperiale tardoantica risulta un’immagine che è paragonabile, secondo Augusto Vasina, a quella del biblico e poi dantesco “veglio di Creta”, dal grande capo aureo e il fragile piede in argilla248. Il ricorso a un passato da capitale tanto remoto quanto mitico era funzionale a fondare radici e tradizioni comunitarie. Si è mostrato come gli eruditi ravennati abbiano concretizzato tale ricorso nelle loro opere attraverso la lente deformante che vedeva come fulcro la Chiesa vescovile: in virtù di quest’ultima – dalla fine dell’VIII secolo erede di fatto dell’esarcato bizantino – è stata letta la continuità storica e il senso stesso della storia cittadina.

Chiaramente è il ruolo di capitale a inorgoglire maggiormente i Ravennati, così tutti gli autori nelle loro introduzioni e nei loro discorsi esornativi lo annoverano tra le maggiori ragioni di lode. Ma è altrettanto chiaro che gli storiografi si riferiscano soprattutto al primo momento, in cui Ravenna fu capitale dell’impero romano d’occidente; questa prima fase è ritenuta più importante, sebbene venga accompagnata anche dalla menzione del suo essere stata in

245 RICCI 1989.

246 Questo sebbene anche la residenza del Legato della Romagna, che avrebbe dovuto essere il centro politico e culturale della città, lasciasse molto a desiderare: ne riferisce a papa Urbano VIII nel 1640 un anonimo estensore di un promemoria per il buon governo della Romagna (v. RICCI 1989,p. 9).

247 CHEVALLIER 1973;CUSATELLI 1986;RICCI 1989. 248 VASINA 1993,p. 11.

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seguito capitale per il regno degli Eruli (seppure brevemente con Odoacre), dei Goti (con Teoderico e i suoi successori) e dell’Esarcato bizantino. Tuttavia, è stato dimostrato come tale menzione possa essere proposta in modi diversi: in Ravenna dominante ad esempio Teseo Dal Corno offre una lettura della dominazione gota come mera parentesi in un processo unidirezionale che interpreta gli esarchi bizantini come i più naturali continuatori del potere romano.

Eppure, nella fase storiograficamente più celebrata – quella da capitale “romana” – Ravenna non fu né celebre né amata ma scelta, come spiegato, per ripiego, a causa delle impellenze di difesa dalle migrazioni barbariche incombenti. Ancora più paradossalmente la fase gotica e quella teodericiana in particolare, durante la quale Ravenna venne davvero potenziata ed esaltata dai suoi governanti, viene spesso storiograficamente oscurata, fino ad arrivare all’assurdo ed ostinato negazionismo della “goticità” del mausoleo di Teoderico.

Alla vicenda si è scelto di dedicare per la prima volta ampio spazio in quanto, oltre a non essere mai stata sviscerata nel dettaglio, risulta emblematica sotto diversi aspetti. Innanzitutto l’accesa disputa che si consumò tra i due “partiti” attraverso i botta e risposta su riviste nazionali e operette pubblicate ad hoc vide le due fazioni attestarsi su posizioni molto nette e stereotipate. Secondo il “partito dei Romani” – rappresentato nei testi analizzati dal fiammingo Lovillet, Rinaldo Rasponi, padre Andrea Rubbi, il disegnatore Pietro Santi e Giovanni Bianchi – questi ultimi sarebbero stati gli unici in grado di costruire opere mirabili e durevoli nel tempo come “la Rotonda di Ravenna”, mentre i Goti ne sarebbero stati del tutto incapaci; inoltre la tesi della costruzione gotica si baserebbe essenzialmente sulle parole dell’Anonimo Valesiano, la cui cronaca viene ritenuta piena di grossolanità, e su quelle di Agnello che, seppure autorevole per la sua antichità, viene giudicato del tutto privo di analisi critica.

Il partito opposto è affidato essenzialmente alle parole dotte e a un tempo ironiche e taglienti del conte Ippolito Gamba Ghiselli: egli inasprisce ulteriormente i toni e non solo demolisce uno ad uno gli argomenti degli avversari con piena cognizione di causa, ma dichiara che la difesa della goticità della Rotonda equivale a sostenere «l’onore della nostra Patria»249. Qualora l’interpretazione di Caterina Casanova fosse corretta – la storica però non prende neppure in considerazione l’identificazione tra Bodia Zefiria e Gamba Ghiselli, nonostante l’outing di quest’ultimo – ai fini di questo studio apparirebbe estremamente interessante che gli ambienti filogesuitici, per fomentare il discredito sugli studi condotti e impartiti dai monaci camaldolesi, facessero ricorso a una controversia sulla “identità etnica” del mausoleo di Teoderico, servendosi così di quest’ultimo per un uso ideologico.

Altrimenti altrettanto interessante risulta comunque in primo luogo il fatto che la vicenda metta a fuoco un forte dualismo tra filo-Romani e filo-Goti che vede le due popolazioni totalmente contrapposte, così diverse da essere incompatibili (e non una raccogliere il testimone dell’altra come altre letture hanno suggerito). In secondo luogo, il partito dei Romani nella vicenda tagliava del tutto fuori la presenza bizantina, esplicitando a più riprese

249 GAMBA GHISELLI 1767,p. XX.

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come la Rotonda fosse l’unico monumento ravennate ad essere degno di nota: Lovillet arriva a disprezzare il mausoleo di Galla Placidia e, se è vero che Bodia Zefiria gli ricorda le meraviglie di San Vitale e Sant’Apollinare in Classe, non si può tralasciare che la stessa definisca i Bizantini («gli emissari di Giustiniano») come rozzi barbari che mandarono in fumo le tradizioni antiche. Evidentemente le chiese e gli edifici paleocristiani e bizantini non erano ancora unanimemente sentiti come gli emblemi della città.

L’opera ottocentesca di Paolo Pavirani si potrebbe dire conciliatrice dei due partiti, perché ne annulla la contrapposizione o, meglio, azzera l’assunto della superiorità romana, per elevare i Goti non solo a legittimi eredi, ma quasi a provvidenziali salvatori della romanità in decadenza, restauratori della “retta” romanità. A suscitare ulteriore interesse è il giudizio estremamente negativo riservato ai Bizantini: non solo agli esarchi ma anche ai loro «padroni», gli imperatori d’oriente dai quali dipendevano. Condannato senza possibilità di appello è persino Giustiniano, così ambizioso e arrogante («quel protervo») da avere scatenato il ventennio di guerra greco-gotica per la sua sete di riconquista250.

Probabilmente era stata l’influenza imperiale napoleonica a dare l’imprinting alla rilettura del passato ravennate in chiave di una continuità storica che vedeva allineati senza iati Romani e Goti, agli antipodi rispetto alla visione proposta da Teseo Dal Corno un secolo e mezzo prima. Sta di fatto che, come sostenuto di recente da Salvatore Cosentino, non solo Bisanzio non giocò alcun ruolo funzionale alla propaganda politica nel dibattito risorgimentale sui valori fondanti l’identità italiana, ma finì addirittura per impersonare un «modello di cultura ‘straniera’ (greca e ortodossa) e ‘altra’ (dispotica e orientale) da cui prendere le distanze»251. Per il resto dell’Italia, dunque, la nozione culturale di bizantino era ormai bruciata, non più spendibile; si procedeva così alla “romanizzazione a posteriori” di città, di popolazioni, e persino di barbari.

Per Ravenna invece a un certo punto dovette subentrare “un’inversione di rotta”. Per la città, infatti, nel corso de tempo, si dovette verificare l’esatto contrario se oggi, e probabilmente senza soluzione di continuità da quando questo processo identitario è stato innescato, Giustiniano e Teodora restano le “icone vincenti” della città. E se Marco Fantuzzi nella seconda metà dell’Ottocento poteva osservare che il materiale storico su Ravenna appariva ancora svariato, disgiunto e confuso252, evidentemente l’ordine stava per arrivare.

250 PAVIRANI 1846,p. XI.

251 COSENTINO 2011,p. 28. 252 FANTUZZI 1869, p. xv.

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IV. Una città in cerca di immagine: