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Ossessioni identitarie: Goti e Bizantini nel Ravennate tra storia e storiografia

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Udine

_________________________________________________________________________________________________________________

CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN

Storia: Culture e strutture delle aree di frontiera

Ciclo XXVI

O

SSESSIONI IDENTITARIE

:

G

OTI E

B

IZANTINI NEL

R

AVENNATE TRA STORIA E STORIOGRAFIA

Tesi di Dottorato di Ricerca

Tutors:

Presentata dalla Dott.ssa:

Prof.ssa L

AURA

C

ASELLA

R

OMINA

P

IRRAGLIA

Dott. S

TEFANO

M

AGNANI

(2)
(3)

I

I

NDICE

Introduzione p. 1

Premessa: Lo sguardo multidisciplinare 3

I. Usi del passato, selezione e costruzione della memoria 13

I.1 La luminosa stella della memoria 13

I.2 Memorie costruite e partecipate 15

I.3 La memoria al servizio dell’identità 17

I.4 La memoria sociale 18

I.5 La memoria culturale 21

I.6 Oblio, dimenticanza e risignificazione 23

I.7 Usi del passato nel passato e “the sense of place” 26 I.8 Riflessioni conclusive: la memoria in questo studio 28

II. Goti e Bizantini a Ravenna: esistenza e/o invenzione di una frontiera 31

II.1 I due sovrani allo specchio 32

II.2 Il rompicapo dell’identità bizantina 39

II.3 Il rompicapo dell’identità gota 44

II.3.1 I barbari nelle letture interpretative 44 II.3.2 Questioni di etnicità: visibili o invisibili? 46 II.4 Le attestazioni di età gota a Ravenna e nelle zone limitrofe 64 II.4.1 I dati disponibili secondo le fonti scritte e le fonti materiali 64

II.4.2 Le letture interpretative 81

II.5 Teoderico il sognatore contro le frontiere reali o presunte 90

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II

III. Prime interpretazioni 107 III.1 Il “neo-esarcato” e la dimensione antiquaria dal XVI al XVII secolo 107

III.1.1 I primi tentativi di lettura del passato 107 III.1.2 Le Historiae Ravennates di Girolamo Rossi 113

III.1.3 Alcune considerazioni generali 121

III.2 Le prime guide storiche della città 122

III.3 Fermenti settecenteschi 129

III.3.1 La parentesi “barbara” nella Ravenna dominante 133 III.3.2 Il partito dei Goti e quello dei Romani nella «città delle favole» 135 III.3.2a La polemica consumatasi su Novelle letterarie 135 III.3.2b Columbarium romano o sepolcro del re 139

III.2.2c Aquile e cornacchie 146

III.4 La rivisitazione in chiave romana e la dimensione

politico-amministrativa a seguito della Restaurazione napoleonica 150 III.4.1 «Cessino le ingiuste invettive…» 152

III.5 Riflessioni conclusive 156

III.5.1 Quale capitale? 159

IV. Una città in cerca di immagine: la riesumazione della Felix Ravenna 165

IV.1 Cenni introduttivi 165

IV.2 I resoconti di viaggio ottocenteschi e la mort douce della città 167

IV.3 Alla riscoperta degli antichi fasti 169

IV.3.1 Dalle Commissioni alle Soprintendenze 169 IV.3.2 La spregiudicatezza delle pratiche progettuali di Filippo Lanciani 171 IV.3.3 Odoardo Gardella contro «l'inerzia che regna nell'antica Ravenna»176 IV.3.4 Cose da Pazzi: dal Museo Civico Bizantino al Museo Nazionale 186 IV.3.5 Corrado Ricci e la scelta della memoria storica più qualificante 192

IV.3.5a Il restauro secondo Ricci 195

IV.3.5b Il declassamento del barocco 201 IV.3.5c L’allestimento dei musei ravennati 205

IV.3.5d Tra seguaci e detrattori 206

IV.3.5e Il Fondo Ricci della Biblioteca Classense 210 IV.3.6 L’operato prosecutore e pioneristico di Giuseppe Gerola 212 IV.3.7 La voce fuori dal coro di Gaetano Savini 217 IV.3.8 Mario Mazzotti e l'archeologia dentro e fuori l’archivio 222 IV.4 Riflessioni conclusive: La dimensione storico-artistica, il restauro

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III

V. La passione bizantina ravennate a confronto con il contesto nazionale tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo 237

V.1 Passione bizantina: nascita, storia degli studi e interessamento di massa 237 V.1.1 Agli occhi degli addetti ai lavori 238 V.1.2 Agli occhi degli esteti italiani: Cronaca bizantina e il

marketing di Angelo Sommaruga 240

V.1.3 Agli occhi del popolo: la condanna di Teodora 247

V.1.4 Agli occhi degli italiani 249

V.2 Schieramenti e fazioni 250

V.2.1 Parigi pro Bisanzio ergo versus Roma 250 V.2.2 Orient oder Rom, ovvero il crollo della visione romano-centrica 251 V.2.3 La demonizzazione (tutta italiana) di Bisanzio 252 V.2.4 «Questi messeri che trascinano così vilmente gli studi nella

politica…» 253

V.2.5 Lo sparuto fronte filobizantino 255

V.2.6 La grande vetrina dell’Enciclopedia Italiana 257

V.2.7 Il fronte ravennate 259

V.2.7a «Il disdegno pel bisantino» agli occhi di Corrado Ricci 259 V.2.7b L’amicizia di Ricci e Ojetti e il silenzio sul bizantino 261 V.2.7c Giuseppe Gerola e la supervitalità dell’arte bizantina 263

V.3 L’esaltazione della romanità 265

V.3.1 La romanizzazione di Giustiniano e di Ravenna 268 V.3.2 Deliri razzisti: Semiasiatici o Preasiatici? 270 V.3.3 La situazione dopo la caduta del fascismo 275

V.4 Riflessioni conclusive 278

Conclusioni 283

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1

Introduzione

Questa ricerca, dal titolo Ossessioni identitarie: Goti e Bizantini nel Ravennate tra storia e

storiografia, prevede un duplice livello di indagine: da un lato l’analisi delle relazioni

“interetniche” e delle dinamiche sociali nel particolare contesto di contatto tra culture diverse di età tardoantica e altomedievale presenti nell’area prescelta, dall’altro un esame delle elaborazioni, delle costruzioni e anche delle forzature dell’indagine storica successiva.

Il progetto ha preso avvio dopo una tesi di laurea incentrata su una tematica a cavallo tra archeologia, storia e antropologia culturale, ma soprattutto da una tesi di specializzazione sull’etnicità nella Ravenna tardoantica e altomedievale.

Della prima mi trascino dietro una lezione quasi “metodologica”, inerente il riconoscimento del valore e della necessità della multidisciplinarietà, che ho esplicitato poi nella Premessa di questo elaborato.

Dalla seconda invece ho ereditato la passione per le problematiche inerenti l’identità, la sua definizione, le sue declinazioni, fino alla decostruzione della sua fissità, del suo valore di “dato” in senso assoluto e unitario, in favore di una connotazione più fluida, plurima, situazionale e relazionale. Senza tralasciare la consapevolezza dell’abuso, sia linguistico sia concettuale, del termine, di cui dichiaratamente si dà conto nel titolo stesso di questa ricerca, che rimanda a

L’ossessione identitaria, recente raccolta di saggi dell’antropologo Francesco Remotti: identità

è «una parola avvelenata», non solo invenzione bensì «costruzione illusoria», e tuttavia «grande mito del nostro tempo», «cappa ideologica» e vera e propria «mania» da cui siamo invasi e posseduti1.

Nella presentazione dei risultati raggiunti si esordisce (cap. I) fornendo le coordinate teoriche – l’uso del passato e la costruzione della memoria culturale – nell’ambito delle quali il lavoro di questi tre anni si è svolto.

A seguire (cap. II), si restituisce un inquadramento complessivo delle conoscenze storiche e delle evidenze archeologiche sulla Ravenna tardoantica e altomedievale come supposta area di frontiera tra gruppi di “Goti” e di “Bizantini”. Si tratta di conoscenze ed evidenze a disposizione non solo degli studiosi odierni ma, almeno in parte, anche e soprattutto a uso e consumo degli eruditi di fine Ottocento e di inizio Novecento.

Infatti, l’obiettivo è quello di confrontare quanto conosciuto del contesto cittadino di V e VI secolo con quanto di esso nel passato si sia voluto storicamente e storiograficamente esaltare. Per farlo, ho proposto un lungo excursus storiografico a partire dal XVI secolo (cap. III), anche in virtù del fatto che per Ravenna ancora non esista una trattazione che offra una visione d’insieme delle letture interpretative succedutesi. Al di là della frammentarietà e della desolante genericità delle prime menzioni storiografiche, ho cercato di sottolineare alcuni

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2

passaggi decisivi nei processi di esegesi del passato cittadino, finalizzati alla trasformazione e all’intensificazione della sua eredità culturale.

Come si vedrà, ampio spazio è stato dato al periodo compreso tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo (cap. IV), proprio perché emerso come momento cruciale nella costruzione dell’identità culturale ravennate. Esplicatosi grazie a una classe di eruditi locali attraverso operazioni ardite e investimenti notevoli riportati nel dettaglio, esso finisce per consolidare una facies bizantina – a scapito di quella gota e di possibili altre – che ha eletto fino ad oggi e senza soluzione di continuità Giustiniano e Teodora come icone vincenti della città.

Fig. 1 - Alcuni esempi dell’identità bizantina promossa oggi dalla città di Ravenna: il dépliant dell’Ufficio Turismo del Comune, quello della Curia, quello di un’associazione culturale e persino il nome di una birra artigianale locale.

Infine (cap. V), si propone il confronto di un’identità cittadina così fortemente forgiata con il contesto nazionale e in particolare con la demonizzazione di Bisanzio e il “romanesimo” di età fascista, che finirà per delineare quella che ho definito l’anomalia ravennate.

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3

Premessa: Lo sguardo multidisciplinare

In the perspective of methodology, historical archaeologists are

distinguishable from other kinds because they must learn to appreciate and manage texts as well as dirt.

[…] The hybrids, the medieval, post-medieval and historical archaeologists are lords of smaller kingdoms, wracked by anxieties of alignment.

[…] it is now time to stop blowing our trumpet and find others to make music with1.

(Martin Carver)

Questo lavoro prende avvio da un interesse coltivato, maturato e declinato negli anni, per i campi di interazione della ricerca storica, di quella archeologica e di quella antropologico-culturale.

Il dottorato in Storia: culture e strutture delle aree di frontiera attivo presso l’Università di Udine ha alla base della sua stessa strutturazione la multidisciplinarietà2, e si configura pertanto come una delle cornici più adatte per verificarne la validità, e prima ancora la sua stessa percorribilità.

A questo proposito suonano quanto mai appropriate le parole di Matilde Callari Galli e Danielle Londei usate per la presentazione di un seminario internazionale sul meticciato culturale, tra l’altro facendo più volte riferimento al concetto di frontiera:

Si potrebbe dire che questo dibattito coincida con il declino di un modello autosufficiente, poco sensibile alla complessità, alle innumerevoli situazioni di frontiera, e conduca a ripensare ogni disciplina al di là del suo statuto disciplinare. Come dire che, mentre il progetto disciplinare distingue, privilegia, conserva, il programma multidisciplinare combina, solidarizza, demistifica. Del resto, il movimento della conoscenza implica, in permanenza, uno spostamento delle frontiere, o meglio la creazione di territori transfrontalieri. In questo processo va sottolineato che gli eventuali ‘incidenti’ di frontiera possono rivelarsi fruttuosi perché creano spazi di libertà, individuano interstizi inattesi, consentono scambi poco usuali,

1 CARVER 2002, pp. 475, 467, 493.

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interessanti e fecondi e confermano che il movimento del sapere genera sempre dei rapporti di reciprocità. La chimera della ‘purezza’ disciplinare è del tutto illusoria e si scontra con la realtà del ‘meticciato’ multidisciplinare3.

Le due studiose sostengono che l’esigenza di multidisciplinarietà risponda ad una critica della specializzazione, o quanto meno di quella parcellizzazione causata dall’«imperialismo disciplinare» imperante nei primi decenni del XX secolo, che a sua volta avrebbe prodotto una destabilizzazione della conoscenza nonché, secondo Andrén, una “professionalizzazione” talmente spinta da ostacolare la comprensione tra diversi studiosi, ritrovatisi chiusi in nicchie intellettuali sempre più ristrette4.

Il superamento di un sapere legato alle specificità di una singola disciplina come antidoto al rischio di sterilità scientifica è stato sperimentato nel corso dello svolgimento di questo progetto di ricerca. Entrando più nello specifico del campo d’azione anche cronologico di questo studio, una recente riflessione “intorno alla storia medievale”5, in merito proprio alle intersezioni e contaminazioni – non solo auspicabili, ma sempre più inevitabili e correnti – con settori scientifici vicini, ha messo a fuoco e problematizzato alcuni aspetti a lungo rimasti non esplicitati. In particolare, l’analisi dei rapporti tra storia e archeologia, storia e storia dell’arte, storia e antropologia culturale, volutamente impostata evitando un’astratta riflessione epistemologica, ha evidenziato relazioni non simmetriche tra le singole discipline, nonché scambi di non pari intensità.

Per quanto riguarda l’archeologia, quest’ultima ne esce, potrei dire, come “partner privilegiata” della disciplina storica, con la quale condivide (negli ultimi anni sempre più strettamente) oltre a temi e argomenti, un sostanziale obiettivo di fondo: «Archeologi e storici sono chiamati a concorrere, affiancati o su tavoli separati, ognuno con le proprie armi e pratiche intellettuali, al raggiungimento di un medesimo obiettivo scientifico: la ricostruzione di spazi umani, di società e comunità nel passato e le loro trasformazioni nel tempo»6.

Sauro Gelichi, nel ripercorrere le tappe fondamentali dello sviluppo dell’archeologia medievale nel nostro paese, ricorda come tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso la neonata disciplina si rivolgesse proprio alla storia medievale per ottenere quei tematismi su cui desiderava sperimentare le proprie nuove tecniche, partorendo in seguito alcune riflessioni metodologiche particolarmente avanzate e in parte tuttora sottoscrivibili (ad esempio in relazione all’archeologia come registrazione casuale di dati di prima mano che opera diversamente dalle selezioni su base sociale riflesse nelle fonti scritte)7. Si tratta, come sottolineano le parole di Cristina La Rocca, di una vera e propria

3 CALLARIGALLI,LONDEI 2005. 4 ANDRÉN 1998, pp. 10, 84, passim.

5 Intorno alla storia medievale è esattamente il titolo scelto dalla Società Italiana degli Storici Medievisti per l’incontro di due giornate organizzato a Roma nel 2010: VARANINI 2011.

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peculiarità dell’Italia dove, nel periodo di nascita e primo sviluppo dell’archeologia medievale, storici e archeologi intraprendono un dibattito la cui intensità non è riscontrabile altrove: in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, nonostante il dialogo dei singoli studiosi, le due discipline restano lontane, così come nettamente separati rimangono i rispettivi canali di discussione e di diffusione8.

Tuttavia, si tratta di un “vantaggio” che in Italia è andato esaurendosi presto, se per tutto il corso degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso invece non risulta affatto facile individuarvi un dibattito teorico, e non solo, sulla ridefinizione dei rapporti tra archeologia medievale e ricerca storica, essendosi la prima particolarmente concentrata sull’attività sul campo e sulla produzione delle moli di dati che ne derivavano. Ma soprattutto, mentre l’Italia restava fuori dal vivace dibattito nato più di cinquant’anni fa sugli orientamenti dell’archeologia processuale9 prima (a sua volta evoluzione della new archaeology statunitense degli anni Cinquanta), e di quella post-processuale10 poi, l’archeologia medievale che vi si pratica è sembrata abdicare alla possibilità di riconoscere i cosiddetti

cross-long patterns, ossia i processi che hanno rilevanza a lungo termine, percepibili dai

gruppi sociali del passato solo da una prospettiva limitata, e per noi ricostruibili retrospettivamente grazie a una visione diacronica.

D’altro canto bisogna allertare sul rischio, purtroppo a lungo sperimentato, di incasellare le enormi quantità di dati ottenuti da scavi archeologici nella meccanica replica di grandi temi storiografici generalizzanti e in un certo senso preconfezionati (la transizione post-classica, la cristianizzazione, l’incastellamento, etc.). Il suggerimento che si ricava dalla discussione intavolata nel 2010 dalla Società Italiana degli Storici Medievisti è di concentrarsi su tematiche più specifiche e articolate, ritornare a contesti territoriali più circoscritti che forniscano risposte più settoriali ma anche qualitativamente più significative (Gelichi propone di analizzare “ad alta intensità” fenomeni più generali); questo dovrebbe fermare quella specie di “ubriacatura” o “vertigine” che pare avesse colpito gli archeologi, illudendoli di potersi confrontare alla pari sui grandi temi della storiografia fornendo spiegazioni globalizzanti11.

Paolo Delogu, uno degli storici medievali che certamente si è servito in maniera più consistente delle informazioni prodotte dalla ricerca archeologica, esplicita un pensiero che, nella sua semplicità quasi “utilitaristica”, è a mio avviso incontrovertibile: perché mai non dovremmo avvalerci di tutto ciò che ci è possibile per immaginare il passato, «per immaginarlo nella maniera più sfaccettata e complessa possibile»12?

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elaborazioni non solo i dati, ma anche le ricostruzioni fornite dagli archeologi, nonché i processi attraverso i quali si è approdati ad esse, in quanto si tratta di ricostruzioni con valore storico a tutti gli effetti, che per di più condividono l’oggetto (il passato) e lo scopo (la sua ricostruzione) dell’indagine13.

Certo non va dimenticato il fatto che si lavora su tipologie di fonti con caratteristiche diverse, e tale diversità va tenuta in forte considerazione nelle fasi di critica e interpretazione. Va riconosciuto inoltre che per la formazione dispensata dalla nostra società i messaggi riportati dai testi risultano molto meno ambigui e più facilmente assorbibili rispetto a quelli veicolati da oggetti, architetture, sequenze, siti, simboli. E così l’urgenza di sviluppare metodologie o ruoli speciali per qualificare le proprie fonti come evidenze del passato proviene senz’altro più dagli archeologi che dagli storici, i cui testi (laddove esistono) continuano a detenere un certo “primato”. Non è certo un caso se proprio per l’Europa altomedievale, le cui fonti scritte e materiali risultano parimenti esigue ed enigmatiche, il confronto interdisciplinare – seppure spesso acceso – sia condotto in termini maggiormente paritari14.

Se Gelichi parla di un rapporto, quello tra ricerca storica e archeologia medievale, da non dare per scontato, su cui riflettere e soprattutto da rinegoziare e ricalibrare, affinché non lo si declini nelle forme banali della sussidiarietà o della complementarietà15, Delogu considera l’archeologia non solo collaterale alla ricerca storica, bensì “trainante”, in particolar modo per le conoscenze sul passato medievale.

La collaborazione dunque non deve essere più limitata alla fornitura, da parte degli storici, di fonti scritte e di quadri storiografici, o di contributi per cataloghi di mostre di materiali provenienti da attività di scavo o di ricognizione archeologica: bisogna puntare a una partnership e ad una convergenza durante l’intero corso della ricerca, a partire dalla sua fase di elaborazione progettuale16.

Anche il rapporto con la storia dell’arte – privato dei solidi paradigmi evolutivi e delle comuni “grandi narrazioni” (l’età romanica, quella gotica, quella rinascimentale..) – sembra essersi negli ultimi tempi allentato, nonostante la condivisione dell’approccio storico, del campo cronologico (storici e storici dell’arte medievale si occupano, solitamente, principalmente di storia bassomedievale), e la sempre più diffusa consuetudine da una parte degli storici a considerare l’immagine come fonte, dall’altra degli storici dell’arte a maneggiare la documentazione scritta.

Invece, come Marco Collareta tiene a sottolineare, lo storico dell’arte condivide con «lo storico senza complementi di specificazione»17 lo stesso confronto con problematiche politiche, economiche, religiose e sociali, dal momento che i valori artistici non sono mai

13 Ibid.

14CARVER 2002, pp. 473, 479. 15 GELICHI 2011, p. 16.

16 Sauro Gelichi accenna anche a un problema di recupero della priorità del progetto, e di costruzione di un record archeologico di qualità.

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scissi dalla storia: ad essere diverso è l’oggetto della conoscenza, mentre l’approccio metodologico è il medesimo.

Infine, l’andamento altalenante delle relazioni tra storia e antropologia culturale, che ha visto il passaggio dagli scambi assidui precedenti il primo conflitto mondiale al brusco raffreddamento successivo alla fine dello stesso conflitto18. Se in un primo momento infatti gli storici, soprattutto del mondo classico, chiedevano l’ausilio degli schemi interpretativi dell’antropologia per ricostruire le società antiche, ricevendo in risposta una consistente documentazione etnografica comparativa, in seguito fu proprio la validità della comparazione tra società di “selvaggi” e civiltà classiche ad essere messa in discussione. Dal canto loro, a partire dagli inizi degli anni venti del secolo scorso, anche gli antropologi iniziarono a rinnegare il connubio con la disciplina storica, tramite gli autorevoli scritti di due dei padri fondatori dell’antropologia sociale britannica.

Se nel 1874 le Notes and Queries on Anthropology consigliavano di iniziare le ricerche sul campo dai censimenti delle famiglie19, nel 1922 Alfred Reginald Randcliffe-Brown poneva l’accento sulla mancanza di documentazione storica relativa alle popolazioni studiate, che avrebbe consentito una ricostruzione meramente ipotetica del loro passato, e pertanto di dubbia utilità20. Parallelamente Bronislaw Malinowski, con la pubblicazione di Argonauti del

Pacifico occidentale destinato a diventare uno dei capisaldi della disciplina, decretava la

centralità assoluta della ricerca sul campo e la svalutazione dell’antropologia “da tavolino”, sentenziando come l’etnografo sia «cronista e storico nello stesso tempo» e come il suo mestiere risulti particolarmente complesso in quanto prevede il maneggiamento di fonti che «non sono fissate in immutabili documenti materiali ma incarnate nel comportamento e nella memoria di uomini viventi»21. Da lì ad elaborare un vero e proprio atteggiamento di ostilità nei confronti del metodo storico e ad asserire nei suoi ultimi scritti la completa inutilità delle fonti d’archivio per il lavoro dell’antropologo, il passo fu breve.

La ricucitura dei rapporti avvenne con l’introduzione nella disciplina antropologica, a partire da Victor Turner, dell’analisi e della visione processuale – mutuata proprio dalla storia – a scapito di una visione da continuo presente etnografico dei cosiddetti “popoli senza storia” (che ovviamente una storia ce l’avevano, ma non custodita in archivi). Ma alla vera svolta si assistette con la famosa conferenza del 1950 di Edward Evans-Pritchard in cui l’autore, pur ribadendo l’importanza dell’indagine etnografica, prendeva le distanze dalle posizioni di Malinowski e Randcliffe-Brown e asseriva l’impossibilità di comprendere adeguatamente una società non conoscendone il passato22: tale virata a favore di una dimensione diacronica

18 Cfr. SORGONI,VIAZZO 2010.

19 Studi antropologici più recenti hanno in un certo senso continuato a seguire la stessa indicazione manualistica se per l’Europa controriformata sono stati sfruttati i cosiddetti “stati delle anime” relativi agli abitanti delle parrocchie, per il Meridione italiano i catasti onciari predisposti da Carlo III di Borbone, e poi i registri parrocchiali e comunali delle nascite, gli atti notarili o quelli delle visite pastorali, fino ad arrivare alle fonti inquisitoriali (cfr. SORGONI,VIAZZO 2011, pp. 332-334).

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gettò le basi per il processo di riavvicinamento tra le due discipline che si esplicitò quasi un ventennio più tardi.

La crisi in cui verso la metà degli anni Sessanta era entrata l’antropologia britannica, a seguito dei contraccolpi subiti dallo sgretolamento dell’impero e dalla conseguente decolonizzazione, spinse anche a ripensare all’estraneità della storia come ad un elemento di debolezza teorica del funzionalismo. Le numerose lamentele sui limiti insiti in indagini etnografiche meramente sincroniche indussero dapprima all’inserimento negli studi di fonti storiche secondarie come la letteratura storiografica, e poi a vere e proprie ricerche d’archivio, divenute oggi parte integrante della quasi totalità delle ricerche etnografiche realizzate, in accordo con la concezione del mixed method: un’etnografia che prevede accanto all’osservazione partecipante altre strategie di raccolta dati, tra le quali la ricerca d’archivio risulta imprescindibile23.

Nel frattempo dal connubio tra storia e antropologia culturale hanno preso vita almeno altri due campi di ricerca. Innanzitutto quello dell’etnostoria, il cui termine venne coniato in ambito statunitense dall’etnologo Clark Wissler che, nel catalogo di una mostra del 1909 dedicata alle culture indiane della regione inferiore del fiume Hudson, in relazione allo studio di popolazioni in prevalenza prive di scrittura per le quali ci si avvaleva di fonti indirette come quelle linguistiche ed archeologiche, “apriva” alla documentazione archivistica (in particolare a quella prodotta dalle autorità governative, dagli ordini missionari e dalle compagnie commerciali)24.

In tempi più recenti invece si registra la nascita e lo sviluppo dell’antropologia storica definita, appunto, a cavallo tra le due discipline da cui prende il nome, imperniata su una concezione di campo e archivio visti come complementari sì, ma comunque distinti25. C’è di più: l’applicazione di un «metodo psicologico-sociale» alle analisi storiche viene vista come un tentativo di via d’uscita dalle difficoltà in cui la spiegazione dei fenomeni storici si è impantanata, e dunque come esito inevitabile dell’evoluzione della disciplina storica26. Infine l’ineluttabilità, mi si passi il termine, del confronto con la disciplina antropologica riguardo tematiche inerenti le costruzioni identitarie – in questo caso favorito soprattutto dagli studi storici modernistici –, e a monte il “prestito” del concetto stesso di identità. Va rilevato inoltre il dialogo, in un certo senso più puntuale, tra antropologi e altomedievisti, in relazione ai fenomeni migratori e all’incontro/scontro epocale tra “Romani” e “Barbari”27, nonché alle conseguenti teorie di essenzializzazione, assimilazione oppure di ibridazione delle rispettive culture.

Volgendo lo sguardo al di fuori dal nostro Paese, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti si nota facilmente come più spesso siano archeologi e antropologi a collaborare tra loro,

23 AXINN,PEARCE 2007, pp. 9-10.

24 WISSLER 1909 e COHN 1968, cit. in SORGONI,VIAZZO 2010. 25 VIAZZO 2000; GUREVIČ 1991, pp. 3-32.

26 GUREVIČ 1991, p. 13.

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ormai già da qualche tempo, ed in maniera più che prolifica: basti pensare alla diffusione britannica di dipartimenti comuni (ma separati da quelli storici) o allo sviluppo americano della ethnoarchaeology – disciplina che si occupa dello studio dei comportamenti culturali di società contemporanee da una prospettiva archeologica – e al dibattito teorico scatenatosi intorno ad essa28.

La proficuità degli scambi con l’antropologia culturale ha il suo elemento fondante (e a mio parere ineludibile) nell’arricchimento interpretativo di cui la prospettiva antropologica è portatrice. Non si tratta di pericolosi paralleli etnografici a pronta spiegazione di culture passate - «per molto tempo gli antropologi sono stati convinti di viaggiare nel tempo, mentre viaggiavano nello spazio»29 –, ma di arricchire il nostro statico punto di vista con altri sguardi, «to widen the horizons of the interpreter»30.

L’altomedioevo per di più, per la sua connaturata scarsità di fonti scritte e informazioni, nonché per la notoria deperibilità dei materiali costituenti i suoi resti, è divenuto, seppure involontariamente, il banco di prova su cui si sono incontrate storia, archeologia e antropologia: di necessità virtù, si potrebbe osservare. In particolare, l’impossibilità di tracciare per l’altomedioevo dettagliate storie seriali o locali, a fronte di maggiori opportunità nell’effettuare indagini di storia sociale o culturale, ha provveduto ad avvicinare gli studiosi del periodo a tematiche antropologiche31.

L’antropologia può equipaggiare la storia – ovviamente non solo quella altomedievale – di un notevole bagaglio di categorie, concetti e idee da applicare (o anche solo da testare) alle interpretazioni del passato, ammonendoci sempre di ricordare la distanza che ci separa dall’alterità, quantunque essa sia solo “temporale”.

Se è vero che la prima condizione della comprensione scientifica è l’estraneità del comprendente32 – Gurevič parla addirittura di «decifrazione di ‘geroglifici’ di una cultura aliena»33 – altrettanto evidente è che le domande che pongono gli studiosi di oggi sono nuove per le culture del passato: esse non se le ponevano, non potevano porsele, e i documenti di cui sono autrici non sono stati generati per risponderne.

28 KRAMER 1979; VIDALE 2004. 29 AUGÉ,COLLEYN 2006, p. 20.

Un concetto analogo è espresso anche in ORME 1981, che critica l’avvalersi da parte degli archeologi di

piecemeal parallels, ossia di somiglianze frammentarie e decontestualizzate rintracciabili tra i loro rinvenimenti

archeologici e alcune informazioni dei resoconti etnografici di società tradizionali viventi, al solo scopo di corroborare una loro interpretazione di una data evidenza (cfr. Preface e Introduction – Recent trend in the use

of ethnography and anthropology).

La comparazione infatti deve necessariamente essere ponderata e avvertita dell’esistenza di due limiti: - due o più culture aventi elementi simili, non necessariamente saranno paragonabili in toto: si possono e si devono fare delle “comparazioni selettive”, mirate ai fattori che ritornano in maniera analoga nelle società messe a confronto;

- elementi apparentemente simili possono avere significati anche solo parzialmente diversi. 30 UCKO 1969, p. 262.

31 LA ROCCA 2011.

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Risulta necessario dunque prefiggersi e realizzare collaborazioni più strette e, perché no?, anche più strutturate, che mirino allo scambio di strumenti e di modelli (non paradigmi), di volta in volta da ricontestualizzare in maniera adeguata; tutto ciò al di là della suppongo condivisa convinzione che i confini tra le discipline vadano costantemente ridefiniti, alla luce di verifiche costanti, confronti vivaci e letture vicendevoli.

Per completezza di cronaca va comunque segnalata l’esistenza di critiche all’educazione interdisciplinare, vista come una riedizione di improbabili Aristotele o Leonardo da Vinci del XXI secolo, e giustificata dalla rara pubblicazione di lavori interdisciplinari su riviste scientifiche34. Approfondendo le motivazioni di questo scetticismo si apprende però che in realtà ad essere presa di mira è la “cattiva” interdisciplinarietà, quella inseguita forzatamente, dal momento che in passato i risultati migliori sono stati raggiunti non tramite imposizioni, ma nel momento in cui validi studiosi hanno intravisto la possibilità di collaborazioni proficue. La qualità dei progetti, la tipologia dei docenti coinvolti e anche le richieste degli studenti sembrano essere gli unici parametri in base al quale gli atenei possono scegliere se incentivare o meno la multidisciplinarietà.

Se c’è stato un momento in cui la parola “interdisciplinarietà” è diventata insopportabilmente trendy, dotata di una sorta di potere di trasformare qualsiasi normale attività o progetto in eccellenza, è innegabile che la sua strada non sia stata percorsa fino in fondo, o quanto meno non in maniera sistematica e scientificamente valida, se non solo molto settorialmente.

Gli approcci metodologici di storia, archeologia, antropologia culturale e storia dell’arte sembrano essere, quando non gli stessi, per lo meno affini, volti così come sono a ricostruire la “coscienza del sistema”35, le logiche di funzionamento delle realtà del passato: dunque il confronto è possibile. Gli oggetti, o i mezzi, o le fonti della conoscenza delle singole discipline invece sono distinti, pertanto ciascuna di esse non ci dice le stesse cose che ci dicono le altre: dunque il confronto è opportuno o, meglio, necessario.

Tuttavia va chiarito che non si tratta di annettere una o più appendici al “consueto” metodo storico impiegato o, detto in maniera più eloquente, «di aggiungere al precedente edificio della scienza storica una nuova ala, ma di ricostruire in profondità tutto questo edificio, in tutte le sue sezioni»36. In una diversa prospettiva, opportunamente definita

trans-disciplinare, l’attenzione dei ricercatori è rivolta a oggetti di studio condivisi e non a una

specifica e accademica tradizione di studi37. Bisogna iniziare abolendo il sistema della leading

discipline in favore di un approccio multidisciplinare e multiteoretico, in cui le diverse fonti

siano a tutti gli effetti equal partners e le rispettive discipline passi successivi di uno stesso

34 PEROTTI 2008, pp. 145-146. 35 CAPITANI 1992.

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11

progetto: tale approccio, pur confermandosi sempre il più difficile e quello a più alto rischio di superficialità, risulta essere ancora il più produttivo38.

Infatti la storia della cultura in senso lato richiede sforzi di comprensione più vasti rispetto a quelli che siamo soliti fare, richiede il “gusto”, dice Collareta (io aggiungerei anche la “curiosità”, in un certo senso) di studiare molte cose diverse, di far fronte a questioni, sollecitazioni, domande, prospettive, variabili di volta in volta.

Al di là delle critiche esposte, resta l’incontrovertibile insegnamento delle Annales, il cui «primo, ultimo e più profondo motto» ordina «la chiamata a raccolta delle scienze umane a favore di un lavoro comune, interdisciplinare, e, oggi, metadisciplinare, ovvero acquisizione di logiche più che di tecniche altrui»39. Il gruppo prima, la Scuola poi, hanno fornito la più esauriente giustificazione metodologica all’apertura della ricerca storiografica verso discipline quali l’economia, la sociologia, la geografia umana, la psicologia sociale, l’antropologia culturale, nonché altre, considerate «le migliori compagne di strada», da cui assorbire non solo metodologie, ma anche mentalità.

Il concetto di mentalité – mutuato, cambiandone il significato, da quello con cui Lévi-Bruhl indicava il «pensiero prelogico dei selvaggi» – dei medievisti Bloch e Febvre stava ad indicare il modo di pensare, la forma mentis, la psicologia collettiva degli uomini costituenti una società. Si tratta di un «determinato ‘strumentario intellettuale’ comune, di una ‘attrezzatura psicologica’ che dà loro la possibilità di recepire a proprio modo e di prendere coscienza dell’ambiente naturale e sociale circostante oltre che di se stessi», favorendo una rielaborazione a livello della propria coscienza delle percezioni ed impressioni più caotiche ed eterogenee, per ricavarne una «visione del mondo» in grado a sua volta di influenzare la loro condotta: insomma un riversarsi del «lato soggettivo» del processo storico (i modi di pensare e sentire dei componenti di una data comunità) nel «processo oggettivo» della loro storia40.

Pertanto concordo con Aron Ja. Gurevič quando sostiene che lo studioso, pur non essendo strettamente uno storico delle mentalità, è costretto a considerarla, a metterla in conto – a “cimentarsi con essa” si potrebbe parafrasare – anche solo a causa dell’impronta lasciata sulle stesse fonti storiche create da uomini pur sempre portatori di una certa mentalità.

‘Non si può abbracciare l’infinito’, ma ci si deve orientare nei rami più diversi della conoscenza. (…) Lo storico di oggi non può non essere lo storico della cultura e della mentalità. Egli deve imparare continuamente e poliedricamente. Il rinchiudersi nei ristretti limiti tradizionali del mestiere dello storico lo condanna al provincialismo intellettuale, all’insensibilità nei confronti della nuova conoscenza e all’incapacità di porre problemi scientifici adeguati. Proprio in questo campo della conoscenza umanistica più che in qualsiasi altro, si rivelano l’arretratezza e l’inerzia del sistema,

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ereditato dai tempi lontani, di ammaestramento degli storici, sistema che non li ha formati alla vastità della visione e all’audacia della ricerca.

Se sono consentite delle ipotesi futurologiche, direi questo: la scienza storica del secolo futuro sarà, innanzitutto, un sapere antropologicamente orientato il quale perseguirà lo scopo di raggiungere una sintesi degli aspetti sociali e culturali della vita umana. Questa prognosi si fonda sullo studio delle correnti storiografiche più recenti e dotate di maggiori prospettive. Queste ricerche saranno, senza dubbio, proseguite e, soprattutto, riceveranno la dovuta base teorica.

La storia si trasformerà in quella scienza dell’Uomo sognata da Marc Bloch e Lucian Fevre41.

È in quest’ottica che il presente studio vuole inserirsi, nel proposito di esplicitare le problematiche segnalate e di avanzare per esse delle risposte.

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13

I. Usi del passato, selezione e costruzione

della memoria

La questione della memoria è oggi onnipresente1. (Paul Connerton)

The overlap between history and memory is much greater than purists will have us believe2. (Jay Winter)

I.1

L

A LUMINOSA STELLA DELLA MEMORIA

Every once in a while there emerges a new innovative term [in the social sciences], like a bright shining stars, with some great promise of clearing up old controversies and shedding new light on an all too familiar field of knowledge3.

A dispetto della natura pervasiva della memoria – il cui ruolo essenziale svolto nella quotidianità di tutti gli individui e gruppi umani, così come nella formazione delle identità personali, nonché nell’istaurazione di relazioni tra persone e comunità è sotto gli occhi di tutti – l’esplosione di interesse nei suoi confronti, da parte sia del pubblico sia della ricerca accademica, è un fenomeno relativamente recente. Soltanto nell’ultimo trentennio infatti la funzione e l’importanza della memoria sono state messe al centro di una mole ingente di studi inerenti la psicologia, la sociologia, la filosofia, la cultura, l’economia, la filologia, l’architettura, la letteratura, il cinema, i media4. Più in generale, il termine “memoria” – specialmente nelle sue accezioni di “memoria sociale” o “collettiva” – è stato visto come generatore di nuove prospettive di ricerca nei settori delle scienze sociali e umane. L’applicazione all’interpretazione del materiale archeologico delle teorie della memoria sviluppate nell’ambito delle scienze sociali è inoltre ascrivibile a tempi ancora più recenti e, sebbene il concetto di memoria possa essere di grande aiuto nello studio delle società del passato, fino a oggi soltanto pochi studi in questo campo hanno sfruttato tale potenziale. Se in un primo momento la memoria era stata considerata una componente della storia, in seguito entrambe le categorie concettuali sono state viste essenzialmente come “altre” (la storia come disciplina, la memoria come facoltà)5 o contrapposte (la memoria per le sue caratteristiche intrinseche agli antipodi della Storia pensata come scritta, oggettiva, verificabile e pubblica)6, una successiva all’altra7 o una minaccia dell’altra8, e questo forse

1 CONNERTON 2010, p. 5.

2 WINTER 2010, p. 12.

3 GEDI,ELAM 1996,p. 30, cit. in DEVLIN 2007,p. 1. 4 RADSTONE 2000.

5 Cfr. le riflessioni di WINTER 2010.

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spiega perché in maniera sempre più crescente gli storici trattino la memoria come una materia di studio a se stante, più che come una fonte tra le altre9. La definizione e la spiegazione stessa del concetto di memoria spaziano dalla concretezza all’astrazione più pura, variando non solo tra diverse discipline, ma anche all’interno di una stessa10.

Entrando più nello specifico, nel suo articolato studio dei cimiteri medievali anglosassoni Zoe Devlin sottolinea come, data la natura propria del materiale sul quale storici e archeologi lavorano (diversamente da quanto avviene per le indagini sulla memoria condotte ad esempio da scienziati sociali, non si tratta di soggetti interrogabili in merito alle risposte fornite o il cui comportamento è osservabile in condizioni sperimentali controllate), essi dovrebbero riflettere maggiormente sul modo in cui le teorie psicologiche e sociologiche della memoria possano essere applicabili nei loro ambiti di ricerca e, allo scopo di determinarne l’utilità per questi ultimi, la studiosa ne ripercorre le tappe principali11, qui a seguire ulteriormente riassunte.

Alla fine dell’Ottocento fu la psicologia cognitiva ad iniziare ad interessarsi della memoria, in relazione alle modalità di apprendimento12 e dunque sviluppando sperimentalmente modelli sui modi in cui il cervello processi e archivi le informazioni, oppure fallisca e ceda il passo all’oblio; non a caso la meccanicistica definizione di memoria che si trova in A Student’s

Dictionary of Psychology la indica come «il temine generale dato al deposito e al

conseguente recupero delle informazioni»13. Anche gli studi che l’hanno vista come un “costrutto ipotetico” ne hanno confermato la visione di funzione del cervello strettamente collegata all’apprendimento e ai processi di registrazione, archiviazione e recupero dati14. Ricerche più recenti hanno esaminato invece la relazione e le differenze tra memoria a lungo e a breve termine, facendo anche distinzioni qualitative e suddivisioni interne (ad esempio la memoria a lungo termine può dividersi a sua volta in memoria semantica, episodica e procedurale)15. All’esistenza di diversi tipi di memoria, comprovata dall’evidenza medica di malattie o danneggiamenti del cervello che possono colpire un tipo di memoria lasciandone

fondamentale per l’argomento un’opera giovanile di Nietzsche, Dell’utilità e del danno della storia per la vita, in cui si trova la rappresentazione della memoria come vantaggio e della storia come danno (ASSMANN 2002, pp. 146-147).

7 Laddove il passato non è più ricordato, ossia vissuto, inizierebbe la storia: HALBWACHS 1987.Per Halbwachs inoltre, la memoria percepisce somiglianze e continuità, al contrario la storia esclusivamente differenze e discontinuità.

8 Cfr. NORA 1989e NORA 1992per la minaccia costituita dalla storia; per la minaccia costituita dalla memoria v. KLEIN 2000. Il filosofo francese Paul Ricoeur, nel suo La memoria, la storia, l’oblio, muove da una fenomenologia della memoria, passa attraverso la critica della conoscenza storica e approda a un’ermeneutica della condizione storica (RICOEUR 2003).

9 DEVLIN 2007, p. 1.Di parere del tutto diverso è il teorico Dan Diner, uno dei fondatori di «History and Memory», tra le più importanti riviste di studi sulla memoria, secondo il quale storia e memoria vanno completamente identificate (ASSMANN 2002,p. 149).

10 In OLICK,ROBBINS 1998il censimento delle tante teorie sociologiche sulla memoria porta a descrivere i memory studies come una «impresa non paradigmatica, astratta e priva di centro» (p. 105, tr. mia).

11 DEVLIN 2007. 12 EBBINGHAUS 1885.

13 HAYES,STRATTON 1993,p. 113 (tr. mia). 14 GROSS 1992,p. 309.

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15

del tutto intatta un’altra16, in primo luogo consegue che la formazione della memoria non implica un unico processo bensì tanti processi; in secondo luogo ne scaturisce la distinzione, particolarmente rilevante nello studio delle società del passato, tra ricordi personali e conoscenza acquisita.

Altrettanto centrale per le stesse finalità è la questione dell’opposto atto del dimenticare; essendo quest’ultimo causato dal decadimento biologico della memoria, dall’interferenza con altri materiali, dagli effetti di malattie o traumi celebrali o piuttosto dalla repressione come meccanismo di difesa dai “brutti ricordi”17, esso ha permesso ad altri psicologi di avanzare ipotesi sul ruolo giocato da fattori esterni.

I.2

M

EMORIE COSTRUITE E PARTECIPATE

Frederic Bartlett (1886-1969), considerato insieme a Hermann Ebbinghaus (1850-1909) uno dei fondatori degli studi di psicologia sperimentale sulla memoria, sostenne che il momento finale dell’atto del ricordare avviene non nella fase dell’apprendimento, ma in quella successiva in cui le informazioni vengono richiamate alla mente. Comprese inoltre che sono molti i fattori che influenzano il modo in cui la memoria funziona e che pertanto i ricordi non sono una registrazione oggettiva degli eventi; piuttosto i ricordi sono costruiti in modo diverso nel momento in cui vengono richiamati: essi sono creati nel presente, più che nel passato e si adattano a bisogni attuali18. I ricordi sono rappresentazioni non di un evento in quanto tale, ma di come noi lo abbiamo vissuto19. Inoltre, realtà e immaginazione possono combinarsi in percentuali differenti; le attuali conoscenze in merito alla similitudine tra i meccanismi neuronali che richiamano alla memoria e quelli usati per immaginare suggeriscono che vi sia una base fisiologica per l’incorporazione di materiale “scorretto” nel ricordo20. Gli esperimenti di Bartlett hanno dimostrato anche come la memoria sia strettamente collegata a emozioni e preconcetti; le ricerche condotte successivamente hanno evidenziato quanto la memoria sia selettiva e dipendente dagli interessi della persona che ricorda21 e dunque possa essere alterata per adattarsi alle conoscenze e alle aspettative dell’individuo; si tratta di una «costruzione» o «ricostruzione immaginativa»22. Infine, secondo Bartlett, un ruolo chiave in questo “processo costruttivo” è svolto dal contesto sociale in cui la memoria viene richiamata: intenzioni e personalità di chi ricorda e di chi

16 HAYES 1994;ENGEL 1999.

17 in accordo con Sigmund Freud e il suo interesse per il disvelamento di eventi legati all’infanzia tramite la psicoanalisi: FREUD 1972 [1914]. Cfr. anche FREUD 1995[1915];GROSS 1992;HAYES 1994.

18 BARTLETT 1932.Esperimenti più recenti hanno dimostrato che il sistema di impulsi nervosi per richiamare date informazioni non è mai esattamente identico a quello associato alla ricezione iniziale dello stimolo, confermando così le teorie di Bartlett (FISCHBACH,COYLE 1995).

19 SCHACTER 1996.

20 ENGEL 1999, p. 5;CASEY 1977.

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16

ascolta, così come le ragioni del racconto, le convenzioni sociali e le credenze, hanno un effetto formativo sulla memoria stessa23.

In questa direzione altri studi nell’ambito delle scienze sociali hanno formulato teorie ancora più radicali, ritenendo così forte l’influenza esercitata dalla società da rendere del tutto fallace la nozione di memoria individuale24; quest’ultima non sarebbe in grado di spiegare nulla riguardo al modo in cui la memoria si formi e venga usata, in quanto essa avrebbe funzione e significato esclusivamente all’interno di un contesto comunitario. Le definizioni in questo filone di ricerca si sono moltiplicate nel tempo – memoria sociale, memoria collettiva (a sua volta divisibile in memoria ufficiale, vernacolare, pubblica, popolare, familiare, etc.)25, storica, culturale, condivisa, e altre ancora – venendo ritenute intercambiabili da alcuni studiosi, dotate invece di valenze di significato diverse secondo altri autori26, finendo inevitabilmente per creare anche una notevole confusione27. Andando persino oltre l’idea del contesto “immediato” di Bartlett, secondo il quale l’atto del ricordare dimostra che lo scrigno dei ricordi non appartenga soltanto all’individuo ma al gruppo sociale di cui l’individuo fa parte, condividere, costruire e negoziare le memorie sarebbero momenti importanti per lo sviluppo e il mantenimento di relazioni sociali28.

Nonostante l’influenza esercitata dalla società sulla memoria sia ormai largamente riconosciuta, a differire sono gli approcci, che possono vedere la memoria “sociale” per: i modi in cui si forma e si struttura, attraverso il linguaggio e la conversazione che formulano e giustificano i pensieri, influenzando cosa viene ricordato e le forme assunte da queste memorie in una situazione “di gruppo”; oppure per il suo contenuto, come le memorie trattenute da alcuni individui e non necessariamente da tutto il gruppo di appartenenza, che si riferiscono però a eventi significativi per la comunità nel suo insieme, oppure i contenuti ascritti alla memoria del passato attraverso la negoziazione e la discussione tra più individui, nonché l’eventuale trasmissione tra individui, tra gruppi, o tra più generazioni29; o ancora per una combinazione di entrambi i fattori (modi di formazione e contenuti)30.

A questo proposito non si può non richiamare il concetto di «rappresentazioni collettive»31 introdotto da uno dei fondatori della sociologia moderna, Émile Durkheim, e riferito alle credenze e alle opinioni condivise dalla media dei membri di una società. Non a caso fu proprio un allievo di Durkheim e di Henri-Louis Bergson, ossia il filosofo e sociologo francese Maurice Halbwachs che, estremizzando la suddetta categoria e sostenendo come il ricordo prenda forma esclusivamente all’interno di un gruppo sociale di cui bisogna adottare gli atteggiamenti e la prospettiva, arrivò a sviluppare il fortunato concetto di memoria

23 BARTLETT 1932; COHEN 1989; ENGEL 1999. 24 GASKELL,WRIGHT 1997.

25 OLICK,ROBBINS 1998.

26 CATTELL,CRIMO 2002;BASABE,GONZALEZ,PAEZ 1997.

27 VINITZKY-SEROUSSI 2001;BURKE 1989;GEDI,ELAM 1996;HACKING 1999. 28 ENGEL 1999.

29 Cfr. DEVLIN 2007,pp. 4-5 e bibliografia citata. 30 CONNERTON 1989.

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17

collettiva32. La tesi principale di Halbwachs sostiene il carattere socialmente condizionato e “costruito” della memoria nonché il ruolo fondamentale dei quadri di riferimento sociale (cadres sociaux) senza i quali nessun ricordo potrebbe costituirsi, stabilizzarsi e conservarsi. Un qualsiasi evento però, per continuare a vivere nella memoria di un gruppo, deve dotarsi di senso, ossia deve divenire una nozione, un simbolo, una verità significativa per il sistema di idee di quella società. Quindi, secondo lo studioso, senza riferirsi alla memoria collettiva la memoria individuale non sarebbe neanche possibile, dal momento che è proprio la cornice sociale a determinare cosa sia da ricordare e in che modo i ricordi vadano organizzati e richiamati33. Come è immaginabile tale posizione è andata incontro a dure critiche da parte di molti sociologi, anche se i lavori di Halbwachs, largamente ignorati fino agli anni Settanta del secolo scorso ma ormai unanimemente riconosciuti come imprescindibili per qualsiasi discorso sulla memoria, continuano a dare adito a più letture, per quanto contrastanti.

I.3

L

A MEMORIA AL SERVIZIO DELL

IDENTITÀ

Studi antropologici, psicologici e sociologici convergono nell’asserire che il modo in cui si ricorda il passato definisce chi siamo sia come individui sia come gruppi34. Parimenti, la ridefinizione di un’identità singola o comunitaria passa sempre per la costruzione di una nuova memoria35.

Per la psicologia il sé è il prodotto di una memoria selettiva36 delle proprie azioni e dei propri pensieri37, strettamente connesso dunque alla memoria episodica38 nonché, secondo gli studi sociologici, influenzato dal contesto sociale di appartenenza (famiglia, società, etc.) e dal suo passato39. Dal momento che nuove esperienze si accumulano continuamente, mentre le vecchie vengono reinterpretate o addirittura dimenticate40, l’identità personale non è fissa, viene costantemente creata e ricreata, rinegoziata in rapporto alla visione che gli altri hanno di noi stessi41 e concettualizzata attraverso la narrazione, solitamente nell’ambito di conversazioni, di storie di sé verificatesi nel passato42.

32 Halbwachs sviluppa la sua teoria soprattutto in tre libri: Les cadres sociaux de la mémoire (1925), La topographie légendaire des évangiles en terre sainte. Etude de mémoire collective (1941) e La mémoire collective (1950). Cfr. HALBWACHS 1987.

33 Sull’importanza o meno della memoria individuale in Halbwachs si veda DEVLIN 2007,p. 6 e bibliografia citata. 34 CATTELL,CLIMO 2002.

35 ASSMANN 2002, p. 68. 36 ARCHIBALD 2002.

37 COHEN 1989;OLICK,ROBBINS 1998. 38 BADDELEY 2001.

39 HALBWACHS 1987;BOYARIN 1994;FRIJDA 1997. 40 BARCLAY 1994;ARCHIBALD 2002.

41 BARCLAY 1994.

(24)

18

Analogamente l’identità di una comunità, altrettanto fluida e variabile, si forma a partire da esperienze e ricordi condivisi la cui narrazione – creazione e ri-creazione – svolge un ruolo di primaria importanza43:

Communities […] have a history – in an important sense are constituted by their past – and for this reason we can speak of a real community as a ‘community of memory’, one that does not forget its past. In order not to forget that past, a community is involved in retelling its story, its constitutive narrative44.

Ovviamente possono coesistere anche narrazioni diverse, del tutto opposte (una storia “ufficiale” e una “popolare” alternativa alla prima) o, più comunemente, in parte sovrapponibili45; si tratta di una dissonanza di voci che, nello studio del passato, non va sottovalutata (si pensi alla discrasia che a volte si verifica tra fonti scritte e fonti archeologiche). In ogni caso, chi partecipa alla detenzione di una memoria comune attesta proprio attraverso tale partecipazione la propria appartenenza a quel dato gruppo.

La memoria è «forse l’elemento essenziale in ogni forma di identità umana»46, nonché elemento chiave di qualsiasi processo di costruzione comunitaria, prendendo avvio quest’ultimo solitamente dalla condivisione di esperienze e interpretazioni. Non a caso progressivamente anche storici e archeologi hanno iniziato ad interessarsi alla declinazione delle teorie della memoria nelle rispettive ricerche. Capire come la memoria operi sul passato e come le persone percepiscano la propria storia è importante non solo per rivelare mentalità e atteggiamenti degli individui verso il proprio tempo, ma anche per comprenderne gli effetti registrabili sulle stesse fonti su cui storici e archeologi lavorano, dal momento che si tratta di atteggiamenti verso il passato che governano sia la conservazione sia la distruzione di resti documentari e materiali47.

I.4

L

A MEMORIA SOCIALE

Storici e archeologi sono partiti dalle medesime basi e dagli stessi approcci teorici già esposti48, per lo più preferendo alla categoria sociologica di “memoria collettiva” quella di “memoria sociale”49. Come brevemente accennato in precedenza si deve a Maurice Halbwachs l’allargamento della discussione sulla memoria oltre i confini dell’individuo e

43 HALLAM,HOCKEY 2001.

44 BELLAH et al. 1985,p. 153 (cit. in OLICK,ROBBINS 1998,p.122e in DEVLIN 2007, p. 7).

45 Sebbene si riferisca agli stati-nazione moderni, sul tema delle diverse “versioni” del passato nella costruzione dei gruppi sociali si veda ALONSO 1988.

46 SMITH 1999,p. 218 (tr. mia).

47 DEVLIN 2007,p.8.Sul tema dell’oblio si veda anche GEARY 1994.

48 Ad esempio numerosi studiosi hanno seguito l’approccio negazionista di Halbwachs in merito all’esistenza della memoria individuale, almeno per quanto riguarda la sua significatività per la società: WILLIAMS 2003a, 2003b; INNES 2001.

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19

della persona sui quali si era concentrata la psicoanalisi freudiana, con l’introduzione nel 1925 della visione della memoria come fenomeno di gruppo, sociale50, appunto.

Similmente a quanto avvenuto nel campo delle scienze sociali, alcuni studiosi hanno posto l’accento più sul contenuto della memoria, altri sul suo processo formativo51, ma trovare una chiara esplicitazione di cosa essi intendano per “memoria sociale” risulta alquanto complicato52. Un delle definizioni più convincenti sembra essere quella proposta dalle archeologhe Ruth M. Van Dyke e Susan E. Alcock: «the construction of a collective notion (not an individual belief) about the way things were in the past»53, in quanto vi è implicata l’idea di un processo nel quale gli individui di una data società sono parte attiva, e non assistono passivamente54. La stessa visione “partecipata” è proposta da James Fentress e Chris Wickham, i quali dichiarano di optare per la nozione di “memoria sociale” proprio per sottolineare come l’individuo non subisca e interiorizzi passivamente la volontà collettiva, prendendo così le distanze da alcune affermazioni di Halbwachs, di cui invece condividono l’idea dell’influenza esercitata dall’identità di gruppo sulle memorie individuali. Per i due storici a dover essere esaminato con attenzione è il modo in cui una visione condivisa del passato venga costruita attraverso la comunicazione55. Un altro ruolo chiave nella selezione e costruzione delle memorie passate è inevitabilmente giocato dal contesto sociale56, che ovviamente incide anche sulla conservazione del patrimonio e dunque sul lavoro degli storici contemporanei57.

Se è vero che allargando eccessivamente il campo di applicazione del concetto di memoria sociale si corre il rischio paventato da Vinitzky-Seroussi – if memory is everything and

everything is memory, memory becomes such a cath-all phrase that it loses its significance58 – non si può negare che oggi esso possa essere impiegato in relazione a qualsiasi forma di conoscenza o comportamento che si riferisca al passato. Per mantenere l’utilità della memoria come categoria della ricerca storica può essere utile ricalcare in un certo senso la distinzione appartenente all’ambito psicologico tra memoria inconscia e conscia: è chiaro che l’accezione che interessa la presente ricerca non è quella di memoria “reale”, che viene accumulata con la propria esperienza o testimonianza diretta, ma quella di conoscenza culturalmente rilevante del passato, che si apprende nel processo di costruzione identitario e nelle relazioni sociali59. Vi è infine un’ultima espressione che merita attenzione ed è quella

50 HALBWACHS 1997[1925].

51 INNES 1998è un esempio per il primo caso, BUTLER 1989oTONKIN 1992per il secondo. 52 WILLIAMS 2003C;DEVLIN 2007.

53 VAN DYKE,ALCOCK 2003,p. 2, cit. in DEVLIN 2007,p. 9. 54 OLLILA 1999;THELEN 2001.

55 FENTRESS,WICKHAM 1992,pp. ix-x. 56 VAN HOUTS 1999;2001.

57 THOMPSON 2000;NIP 2001;QUIRK 2001;WATKINS 2001;MCKITTERICK 2004;GEARY 1994(tutti cit. in DEVLIN 2007, p. 10).

58 VINITZKY-SEROUSSI 2001, p. 495.

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20

della “memoria immaginativa”60, la quale, richiamando la componente creativa che si ritrova nelle leggende e nella loro capacità di venire talvolta percepite come reali, sottolinea come la memoria, oltre che ricordata, possa essere inventata.

Fentress e Wickham mettono a fuoco un'altra questione centrale per questo studio, ossia l’azione del preservare la memoria nel contesto sociale attraverso la sua perpetuazione in discorsi o scritti; la memoria diventa “sociale” non solo mediante la ri-attuazione della stessa esperienza, ma anche tramite la semplice condivisione con altre persone: si tratta di un atto volontario assimilabile alla commemorazione61. Analogamente a quanto verificatosi in alcuni studi psicologici e in parte esposto in precedenza, anche i due storici riconoscono nella

narrazione uno dei principali mezzi attraverso i quali la memoria del passato viene condivisa

all’interno di un gruppo: è come se capire appieno il significato di un’esperienza possa verificarsi solo in un secondo momento, attraverso la successiva elaborazione delle informazioni62, con la comprensione dell’evento esperienziale assieme al suo contesto e alle sue ripercussioni, che a quel punto diviene narrativa. L’esistenza di una narrazione indica che la memoria è stata analizzata, razionalizzata e inserita in un contesto; sono quelle memorie ad essere state selezionate come rilevanti in quanto si adattavano ad alcuni aspetti del presente63.

La struttura della memoria sociale è influenzata dai generi narrativi in cui è perpetuata nonché dal contesto sociale e politico del tempo in cui è narrata, al quale si adatta64; questo significa che il ricordo di uno stesso sovrano, ad esempio, può assumere connotati diversi (la sua personalità può essere giudicata debole oppure forte, le sue azioni positive o al contrario negative) a seconda dei periodi storici in cui lo si attua (ad esempio in base alle caratteristiche dei suoi discendenti contemporanei che si vogliono elogiare o criticare)65. È proprio il contesto a “trasformare” la memoria in narrazione in quanto fornisce la ragione per cui la memoria deve essere raccontata, definisce i modi in cui essa debba prendere forma e il pubblico al quale è diretta. Ma è importante notare che come dei ex machina si stanno individuando programmi o cambiamenti politico-ideologici solitamente a scala ridotta, circostanze sociali locali, specifiche di una determinata comunità66.

locale (non appartenente a tutti i membri di una società), limitata ai soli testimoni diretti di una certa esperienza (sebbene essa poi possa essere condivisa con altri membri della società).

60 REMENSNYDER 1995;1996.

61 FENTRESS, WICKHAM 2008. Di parere opposto Sarah Foot, secondo la quale i termini stessi di “memoria sociale/collettiva” sarebbero viziati: la memoria infatti sarebbe esclusivamente personale e derivante da un’esperienza individuale; i ricordi condivisi che coinvolgono l’apprendimento (e non l’esperienza) di qualcosa, andrebbero piuttosto ascritti nel campo della “commemorazione”, non della “memoria”. Quest’ultima infatti, per la studiosa, sarebbe un processo cognitivo del tutto distinto dalla composizione narrativa del passato, la quale sarebbe condizionata dalle circostanze politiche (FOOT 1999).Tuttavia la psicologia insegna come anche i propri ricordi personali siano condizionati ed assumano forme differenti a seconda delle circostanze, e dunque un certo grado di interpretazione sia ineludibile non soltanto nei discorsi e nelle versioni scritte del passato apprese da terzi.

62 NEISSER 1982;FENTRESS,WICKHAM 2008. 63 DEVLIN 2007,p. 11.

64 FENTRESS,WICKHAM 2008. 65 REMENSNYDER 1995.

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