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Le Historiae Ravennates di Girolamo Rossi

di una frontiera

III. Prime interpretazioni

III.1.2 Le Historiae Ravennates di Girolamo Rossi

La composizione coeva e sodale delle ben più fortunate Historiae Ravennates di Girolamo Rossi restituisce l’idea della rinascita tardocinquecentesca della storiografia ravennate in senso umanistico-rinascimentale. Girolamo Rossi fu, seppure per breve tempo, archiatra pontificio di Clemente VIII e, insieme a Carrari, costituisce la testimonianza più lampante di come sia stata l’erudizione ecclesiastica in primis a guidare la spinta al distacco da una tradizione strettamente locale che era stata tipica della cronachistica tardomedievale, per dare spazio a produzioni di più ampio respiro spaziale (regionale) e temporale (diacronico).

Girolamo Rossi (1539-1607) è considerato il più importante storico ravennate del

Cinquecento. Dopo gli studi letterari e retorici conseguì la laurea in filosofia e medicina e praticò la professione medica oltre a ricoprire incarichi diplomatici per principi e cardinali. Della quarantina di suoi scritti di varia natura e tematica pervenutici, le Historiae Ravennates rappresentano l’opera più significativa, oltre che la più fortunata30; essa è ritenuta tra le migliori storie cittadine a livello nazionale31. Gli eventi cittadini vi vengono narrati in un latino aulico, in ordine cronologico e senza soluzione di continuità a partire dalle origini mitiche fino al 1588. Per la sua stesura l’autore ricorse a circa duecento fonti tra autori classici e contemporanei (tra cui Vincenzo Carrari), alle memorie familiari, a fonti archeologiche e artistico-monumentali oltre all’ampio utilizzo della documentazione soprattutto degli archivi ecclesiastici cittadini (monastici e arcivescovile), ma anche di quelli laici e di quelli romani, vagliando tutte le testimonianze e sottoponendole al confronto con la tradizione storiografica. L’editio princeps in dieci libri venne pubblicata a spese del Comune di Ravenna nel 1572 dopo quasi otto anni di lavoro, dedicata al cardinale di Urbino Giulio Feltrio Della Rovere che all’epoca ricopriva anche la carica di arcivescovo di Ravenna. L’opera celebrava i fasti della chiesa ravennate attutendo gli scontri succedutisi nel tempo tra la città e Roma; soprattutto nelle vicende comprese tra i secoli protocristiani e il Cinquecento si sottolineava la collaborazione e anche la subordinazione del metropolita al papa32. L’edizione definitiva, aggiornata e ampliata con l’aggiunta di un libro dedicato alla cronaca degli ultimi venti anni, fu data alle stampe nel 1589, rispondendo probabilmente alle nuove esigenze sopraggiunte con la crisi ecclesiastica della chiesa ravennate segnata dall’istituzione della nuova metropoli

29 ZACCARINI 2009,p. 299; cfr. in merito anche MASCANZONI 2009,p. XVIII, dove l’autore non manca di soffermarsi sulla questione, che però in un certo senso spiega riconducendola alla rigida griglia annalistica cui si attiene Carrari e, più in generale, alla ristretta prospettiva storica della sua epoca.

30 Hieronymi Rubei Historiarum Ravennatum libri decem hac altera editione libro undecimo aucti…, Venetiis MDLXXXIX, ex Typographia Guerraea. Ci si è avvalsi della traduzione ed edizione di Mario Pierpaoli: PIERPAOLI

1997.

31 VASINA 1997,p. VII. 32 Ivi,p. X.

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di Bologna; non a caso essa reca la dedica al papa, Sisto V, nonché in appendice l’edizione degli atti di quattro concili provinciali ravennati (succedutisi nel 1286, 1311, 1314, 1317) a testimoniare la continuità di giurisdizione di cui aveva goduto la metropoli ravennate sulla diocesi bolognese. Data l’ampiezza delle questioni trattate, le riedizioni successive recano un titolo appropriatamente più esteso alle “storie italiche”: Historiae: Italicarum et Ravennatum

historiarum Hieronymi Rubei libri XI (…).

Lo spazio riservato da Girolamo Rossi all’età tardoantica e ai primi secoli del medioevo è indubbiamente più esteso di quello speso da Carrari, spalmato tra la prima parte del libro secondo e la fine del libro quarto33.

Innanzitutto si segnala che nel libro II del Rubeus34 la scelta di trasferire la capitale a Ravenna viene ricondotta all’attrazione che la città, per la sua nobiltà, esercitò su Onorio fin dal 396, quando l’imperatore stanziava ancora a Milano ma, desideroso di abitare a Ravenna, vi ordinò la costruzione di un palazzo degno di accoglierlo35. Dopo il trasferimento dell’imperatore a Ravenna, si sottolineano le lamentele degli ambasciatori romani sull’abbandono dell’antica capitale, a più riprese si loda il rifugio sicuro che offriva Ravenna fortificata (forte il confronto con Roma messa a saccheggio nel 410), si elenca nel dettaglio la mole di leggi che Onorio formulò ed emanò proprio da Ravenna potendo giovarsi della sua (relativa) tranquillità e, infine, si dice di non credere a coloro che scrivono che Onorio in punto di morte volle farsi trasportare a Roma. Si dà poi rilevanza al fatto che l’assunzione delle insegne imperiali da parte dell’infante Valentiniano (figlio di Galla Placidia e Costanzo) fosse avvenuta proprio a Ravenna, e a Valentiniano si riconduce la nomina della città a capitale d’Italia. Sempre a Valentiniano si fa risalire la sottomissione dei dodici vescovi di Rimini, Cesena, Forlì, Forlimpopoli, Faenza, Imola, Bobio, Bologna, Modena, Reggio, Parma e Piacenza all’arcivescovado di Ravenna36. Inoltre, vi trovano spazio l’emanazione di molti editti a Ravenna ancora da parte di Valentiniano, la descrizione della chiesa di San Giovanni Evangelista costruita per volere di Galla Placidia, la ricelebrazione con grande sfarzo e entusiasmo dei Ravennati del matrimonio di Valentiniano e della moglie Tessalonica (figlia dell’imperatore d’Oriente Teodosio) al loro rientro da Bisanzio, i miracoli religiosi avvenuti in città, i vescovi che vi accorrevano anche da oltralpe37, l’operato dell’arcivescovo Pietro

33 Corrispondenti alle pagine 65 e 229 dell’edizione in latino del 1589; pp. 66-243 nella traduzione a cura di Mario Pierpaoli.

34 Nel settore dell’antiquariatola definizione “il Rubeus”, dal nome latinizzato dell’autore, è passata ad indicare la sua opera principale.

35 G. Rossi, rifacendosi al Liber Pontificalis di Andrea Agnello (cap. 35), sostiene che, al posto del palazzo, fosse stata invece costruita una chiesa, poi demolita nel 1553 e il cui materiale edilizio venne impiegato per la costruzione di S. Maria in Porto.

36 Girolamo Rossi rimanda al libro II delle Historiarum ab inclinatione Romanorum decades di Biondo, e riporta un diploma del 427 apparso falso a Cesare Baronio e ad A. Testi Rasponi (PIERPAOLI 1997,pp. 104-105, note 344 e 348). Sarebbe un falso non anteriore alla seconda metà del IX sec. anche il diploma di papa san Gregorio Magno da cui si desumerebbe, sempre secondo G. Rossi, la conferma da parte di papa Leone della subordinazione di quei vescovi alla chiesa di Ravenna (PIERPAOLI 1997,p. 119, n. 431).

37 È il caso ad esempio di Germano, vescovo di Autissiodorum, nella Francia centro-orientale (PIERPAOLI 1997,p. 112).

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Crisologo, le decorazioni del Battistero neoniano, l’esenzione della città dalle distruzioni di Attila e del suo seguito38.

Nell’incipit del terzo libro si disquisisce su quali sepolture ospiti il mausoleo di Gallia Placidia, della quale si lodano saggezza, buona amministrazione e santità; si passa poi alle lotte intestine al senato ravennate che dopo la morte di Valentiniano elesse e fece uccidere molti imperatori; si elencano i provvedimenti legislativi di Flavio Giulio Valerio Maggioriano tra 457 e 458. I barbari vengono ovviamente descritti come portatori di devastazioni e rovina: dopo il sacco per mano di Alarico e del suo seguito avvenuto quarantacinque anni prima, Roma fu nuovamente saccheggiata nel 455 d.C. ad opera di Genserico re dei Vandali. Con l’occupazione di Ravenna da parte di Odoacre e la fuga di Romolo Augustolo a Roma dove avvenne la sua deposizione, si tratteggiano gli ultimi anni di vita dell’impero romano d’Occidente.

Il regno assoluto e dispotico di Odoacre risulta funzionale a introdurre la figura di Teoderico, fin da subito connotata in senso positivo: nominato re degli Ostrogoti alla morte del padre, fu chiamato a Costantinopoli dall’imperatore d’oriente Zenone, che lo accolse con doni, gli dedicò una statua equestre nel foro, lo dotò della dignità patrizia, lo nominò console e comandante dell’esercito orientale. Teso a mostrare la sua gratitudine e il suo impegno, Teoderico mise da parte la sua riservatezza e si offrì per la risoluzione della questione della provincia italica, ottenendo che gli venisse assegnata. Fatto il suo ingresso in Italia nel 489, dopo le prime vittorie contro l’esercito di Odoacre lungo il fiume Isonzo e a Verona, inseguì Odoacre a Ravenna e pose sotto assedio per tre anni, scanditi da varie battaglie, la città difesa dalle paludi e dalla marea. Alla fine, il 27 febbraio del 493, con la città stremata per la scarsezza dei viveri, Odoacre fu costretto ad arrendersi, e in seguito trucidato a tradimento insieme a suo figlio e ai suoi commilitoni. Di Teoderico si dice che cercava di onorare il senato, di accettare le leggi dei sovrani, di riordinare l’intero territorio italico perché «dopo essere stato educato liberalmente alla corte romana di Bisanzio aveva deposto tutta la sua rozza barbarie»39; l’abbellimento di Ravenna gli stava particolarmente a cuore: statue, colonne, insegne e marmi vennero fatti venire appositamente da Roma mentre molti nuovi edifici venivano eretti (il palazzo imperiale, la basilica palatina di S. Apollinare Nuovo, la chiesa di San Salvatore, la basilica di Ercole, S. Andrea o chiesa Gotica, l’anfiteatro con la torre, il proprio mausoleo) e le infrastrutture restaurate (l’acquedotto). Inoltre si sottolinea la scelta di Ravenna come sede del regno nonché sua residenza, sia perché la città era ormai più fortificata di Roma e non aveva mai subito devastazioni nemiche, sia per la sua posizione più adatta ad impedire l’ingresso dei “barbari” nella penisola, sia in segno di continuità con i precedenti sovrani. L’Italia cominciò a rifiorire e Ravenna vi viene descritta come ampia e popolosa, destinata ad accogliere molte migliaia di Franchi e di Galli; questi vi furono deportati nel 508 d.C., puniti per avere, al seguito di Clodoveo, ucciso Alarico, re dei Visigoti e genero di Teoderico, per poi occupare l’Aquitania.

38 Il passaggio degli Unni a Ravenna è considerato una invenzione di Agnello riportata nel suo Liber pontificalis al cap. 37 (PIERPAOLI 1997,p. 118, n. 428).

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Ancora, il sovrano viene descritto come «animato da ispirazione divina»40, spesso dedito alla preghiera, capace di riconoscere gli uomini “santissimi” come il vescovo di Arles Cesario o il monaco Ilaro, disposto a concedere privilegi alla chiesa ravennate così come a quella milanese41. Tuttavia, nella complessa e diversamente tramandata vicenda dell’espulsione degli ariani da parte dell’imperatore d’oriente Giustino, della spedizione di papa Giovanni I a Costantinopoli e dell’adoperarsi di Teoderico per ripristinare i riti ariani, l’autore mostra di apprezzare l’intransigenza del papa e le sue esortazioni a consacrare al culto cattolico le chiese degli ariani, senza temere alcuna minaccia. La condanna a morte del papa, di Simmaco e di Boezio ordinata da Teoderico e l’eresia ariana di cui era imbevuto vengono presentate come le uniche macchie di un sovrano che altrimenti «facilmente ognuno potrebbe paragonare con qualsiasi degli imperatori»42.

Altrettanto celebrata è Amalasunta, figlia di Teoderico, alla cui morte amministrò il regno in nome del proprio figlio Atalarico, ancora bambino: autorevole e coltissima, promulgò gli editti ritenuti necessari per garantire la sicurezza e la pace tra Goti e Romani. Ma i contrasti interni tra i capi goti e la tirannide da essi esercitata sulla popolazione rendono l’avvento di Giustiniano provvidenziale. Girolamo Rossi ne riporta i dettagli facendo ricorso, pur dissentendone, all’opuscolo La costruzione della chiesa di S. Vitale di Giovanni Pietro Ferretti, con tutti i connotati miracolosi annessi: il trafugamento ad opera della nutrice per salvare Giustiniano dai nemici dopo l’assassinio del padre l’imperatore Giustino (527), il riconoscimento da parte dei legati nella casa ravennate del mercante Giuliano Argentario e dunque l’incoronazione a imperatore avvenuta al rientro a Costantinopoli43. Poi l’autore specifica di aderire alla versione di Marcellino e di altri autori che riporta l’illirico Giustiniano, figlio della sorella dell’imperatore Giustino, prima console e poi successore designato alla guida dell’Impero romano d’oriente, incarico che assunse solo all’età di 43 anni. Sta di fatto che dopo la morte di Atalarico Amalasunta si affiancò al potere il cugino Teodato, la cui violenza e il cui governo tirannico spinsero Giustiniano a intraprendere la guerra contro i Goti per mano del valoroso comandante Belisario, mentre nel frattempo i Goti sostituirono Teodato con l’elezione di Vitige.

Anche all’inizio del racconto della guerra greco-gotica (535-553), mentre Vitige assediava Roma e Belisario tentava di far cadere Ravenna, si ribadisce l’inespugnabilità della città, troppo fortificata sia artificialmente che naturalmente. Ad ogni modo Ravenna venne occupata dai Bizantini nel 540, Belisario rientrò a Costantinopoli, ma dopo qualche anno fu costretto a tornare a Ravenna a causa dell’acuirsi delle ostilità e da lì nel 545 portò rinforzi alla città di Roma posta sotto assedio da Totila, nel frattempo acclamato re dai Goti. Nell’ultima fase della guerra (550-553) il comando delle truppe imperiali fu assegnato a Narsete, che pare si avvalse anche di dodicimila Longobardi, oltre a Gepidi, Unni, Eruli, Persiani e Arabi44 e che sconfisse sia Totila che il suo successore Teia. Narsete permise ai Goti di vivere in Italia alle obbedienze

40 Ivi, p. 141. 41 Ivi,rispettivamentepp. 141, 151, 145 e 147, 152. 42 Ivi,p. 151. 43 Ivi, pp. 154-155. 44 Ivi, p. 173.

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dei Romani, per l’inverno si asserragliò nel palazzo di Ravenna con 300 uomini, in seguito presso l’odierna Capua sterminò i Franchi che erano venuti in aiuto dei Goti, fece arrendere quelli tra i Goti che ancora intentavano azioni di guerriglia a Cassino, e li spedì a Costantinopoli. Dopo aver descritto la fine della guerra, nelle Storie ravennati si passa ad elogiare il popolo dei Goti in primo luogo per il loro valore e la loro tattica militare, ma anche per la capacità di governo, nonché gli esempi di giustizia e umanità. Altrettanto lodato è Giustiniano, che ordinò a Narsete di elargire alla chiesa ravennate tutti i beni dei Goti (altari, chiese, servi) e che tramite il vescovo Agnello fece purificare tutte le chiese contaminate dal culto ariano riconducendole al «vero culto»45. Viene descritta l’attività edilizia (in particolare, ma non solo, la costruzione di San Vitale e di Sant’Apollinare in Classe) ai tempi dell’arcivescovo Ecclesio (521-532), seguito da Ursicino e poi da Massimiano46, per volere di Giustiniano e con il sostegno economico di Giuliano Argentario.

Girolamo Rossi riporta anche l’istituzione di un ginnasio ravennate fin dai tempi di Teoderico, mentre il suo traduttore Mario Pierpaoli specifica come la presenza di attività scolastica in città47 sia testimoniata con esattezza da Paolo Diacono soltanto intorno al 55048.

Risulta interessante che Giovanni, Bessa, Vitale e Costanziano, i personaggi lasciati a reggere la provincia italica alla partenza di Belisario, a cui per volere di Giustiniano venne aggiunto Alessandro, vengano definiti autori di così tanti mali da superare di gran lunga i danni provocati da tutti i barbari e da aver persino reso gli Italiani ostili all’imperatore49. Parimenti, il successore di Giustiniano, Giustino II, viene descritto come un uomo malvagio e scellerato, per nulla paragonabile allo zio50, per di più accompagnato da una moglie, Sofia, altrettanto superba e offensiva nei confronti di Narsete.

Il quarto libro copre l’arco temporale dal 568 al 758 ed è dunque dedicato all’Esarcato. Infatti si apre con l’istituzione in Italia della nuova magistratura della “prefettura del pretorio” – che a partire dal 584 circa diverrà esarcato51 – inizialmente assegnata dall’imperatore d’oriente Giustino II a Longino (568-582), inviato nella penisola per contrastare la calata dei Longobardi di Alboino. In particolare a difesa del territorio ravennate, dove il prefetto confermò la sua residenza, Longino costruì un vallo e un fossato a Cesarea, il sobborgo situato tra Ravenna e Classe, installandovi un presidio di soldati. Tuttavia i Longobardi, pur non osando avventurarsi nella conquista della «munitissima» Ravenna, riuscirono ad espugnare Classe, da dove partivano per incursioni quotidiane con le quali molestavano i Ravennati «cultori della fede

45 Ivi,p. 179.

46 Sarà proprio Massimiano a consacrare San Vitale nel 547 e Sant’Apollinare in Classe nel 549. 47 Della scuola ravennate si avvalse anche il noto poeta latino Venazio Fortunato.

48 Ivi, pp. 170 e 172, n. 296. 49 Ivi, p. 153.

50 Giustino ordinò che tutti i tributi della provincia italica venissero versati all’erario imperiale; Narsete, più lungimirante, era contrario a lasciare l’Italia sguarnita di risorse in quanto la penisola rimaneva comunque esposta agli attacchi di Burgundi, Franchi e Visigoti.

51 In merito a quest’ultima denominazione Mario Pierpaoli segnala che la prima attestazione sicura si trova in una lettera del 585/586 di papa Pelagio II recante «l’eccellentissimo Smaragdo esarca» (PIERPAOLI 1997,p. 187, n. 1).

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cattolica»52. Fu così che l’imperatore Maurizio sostituì Longino con Smaragdo (esarco dal 584 al 587), espertissimo di guerra, che raggiunse Ravenna con molti rinforzi.

Rossi inserisce qui la tematica della rivalità tra la chiesa di Roma e quella di Ravenna, criticando i tentativi della seconda di distaccarsi dalla prima; infatti, secondo alcuni autori a partire da Giovanni gli arcivescovi ravennati, ricoperti di onori da imperatori ed esarchi, si sarebbero più volte spinti a compiere tale affronto nei confronti della «madre e maestra di tutte le chiese»53, unica vicaria di Dio in terra, trascinando in questa “eresia” anche altri vescovi, come quello di Aquileia. Sebbene il Rubeus sveli poi di non dare credito a tali autori in quanto secondo le sue fonti né l’esarco Smaragdo né l’arcivescovo Giovanni sarebbero stati contrari all’autorità pontificia, con ciò dichiara la sua somma venerazione per la chiesa romana. Ci si sofferma sui rapporti tra gli arcivescovi ravennati (Giovanni, Mariniano) e il papa (Gregorio Magno), sulle questioni di onore e rispetto reciproco54, sull’accrescimento della dignità della chiesa ravennate grazie all’arrivo delle salme e delle reliquie di alcuni santi e sul diploma papale con il riconoscimento dei privilegi concessi alla chiesa di Ravenna55. Insomma il Rubeus nel libro quarto ricorre in maniera consistente al Gregorii I Papae Registrum Epistolarum, fornendo così un quadro dettagliato dei rapporti e dei dissapori tra le due chiese.

I riferimenti al potere imperiale e alla sua manifestazione a Ravenna e nell’esarcato sono rari. Le vicende politico-militari ritornano centrali quando l’esarco Callinico56, stanco del generale clima di insicurezza e sospetto istauratosi nell’Italia divisa tra Longobardi e Bizantini, decise di attaccare Parma e poi condurne a Ravenna il duca longobardo e la moglie (figlia del re Agilulfo), dichiarando così aperta la guerra. Avendo messo a grosso rischio Ravenna e l’intero esarcato, dopo pochi anni, anche su esortazione di papa Gregorio, Callinico depose le armi e alla sua morte fu sostituito da Smaragdo, scelto per la seconda volta come esarco dal nuovo imperatore Foca (602-610). Il successore di quest’ultimo, Eraclio (610-641), diede pieni poteri al nuovo esarco Eleuterio, il quale scelse la pena capitale per punire in maniera molto severa i Ravennati che avevano ucciso il suo predecessore, il sesto esarco Giovanni Lemigio; il delitto pare fosse stato provocato dalla sua superbia, dalla sua arroganza, e dall’eccessivo rigore nell’esigere i tributi57. Sta di fatto che la morte di Eleuterio, che si era sfrontatamente proclamato re d’Italia, ad opera dei capi dei soldati ravennati (nonostante l’esarco avesse lautamente pagato l’intero stipendio all’esercito) fu accolta con gioia anche dall’imperatore, il quale nominò suo successore il virtuoso generale armeno Isacio. Di quest’ultimo si riferisce anche dei calorosi onori riservatigli dal popolo romano alla sua venuta in città per la conferma della nomina a pontefice di Severino; l’esarco Isacio tuttavia depredò pesantemente i tesori

52 PIERPAOLI 1997,pp. 190-191. 53 Ivi, p. 192.

54 Vi è una lunga disquisizione sull’uso del «pallio» (una banda bianca di lana da mettere al collo) da parte dell’arcivescovo di Ravenna Giovanni, ritenuto da papa Gregorio più o meno legittimo in determinate occasioni come le suppliche (PIERPAOLI 1997,pp. 194-198).

55 Il testo della lettera di Gregorio Magno, ossia della pergamena n. 1 conservata presso l’archivio storico arcivescovile di Ravenna, è da tempo ritenuto un falso: cfr. PIERPAOLI 1997,p. 201, n. 107.

56 Callinico o Gallicino secondo Paolo Diacono: Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, IV, 20. 57 Liber Pontificalis Ecclesiae Romanae, I, 117; Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, IV, 34.

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della chiesa laterana, per dividerli tra i soldati, i Ravennati e Bisanzio; si riporta anche il suo agguato ai danni del duca della Tuscia Tatone.

Si dice che Ravenna e tutta l’Italia godevano di pace e serenità, essendo i Longobardi al tempo governati da re Adaloaldo (figlio di Agilulfo, primo re longobardo di fede cattolica), cattolico fervente come la madre Teodolinda e non avvezzo alla guerra; dopo di lui invece il potere passò al duca di Torino Arioaldo, anche lui pacifista, ma “contaminato” dall’eresia ariana. A Isacio successe come esarco d’Italia Teodoro, sotto il quale i Ravennati subirono pesanti perdite (7000) nella battaglia contro il re dei Longobardi Rotari (è la battaglia dello Scoltenna, odierno Panaro, del 647) che, votandosi all’arianesimo, aveva interrotto trent’anni di pace con i Romani.

Le vicende ravennati diventano sempre più strettamente connesse con quelle dei vescovi e dei pontefici. L’autore, in ottime relazioni con la gerarchia ecclesiastica locale ma anche con quella romana, nella sua narrazione aveva già indugiato, oltre che sull’esaltazione degli