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IAPPONETRAMULTILATERALISMOEBILATERALISMONell’ultimo decennio la politica giapponese riguardante gli accordi commerciali internazionali è profondamente cambiata: a una politica multilaterale è seguito un approccio bilaterale o, al più, regionale. Il Giappone era sempre stato favorevole a negoziazioni e trattati globali sotto l’egida dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, OMC, che includessero quindi tutti i paesi membri; questi accordi erano prevalentemente rivolti ai soli scambi internazionali di merci e servizi e prevedevano l’eliminazione o la riduzione dei dazi doganali (e delle quote) nonché altre misure tese alla liberalizzazione delle importazioni/esportazioni. Negli ultimi anni invece il Giappone ha firmato o sta negoziando molti accordi bilaterali, che in genere riguardano anche, e soprattutto, altri aspetti, quali gli investimenti diretti esteri, IDE, standard tecnici e sanitari, regole di comportamento.
Molte sono le ragioni di questo radicale cambiamento: tra esse si possono ricordare la crisi del 1997 e la rapida ascesa della Cina; altrettanto significative sono le modificazioni degli equilibri di potere all’interno del mondo politico ed economico giapponese: i gruppi di pressione legati al settore agricolo sono sulla difensiva, mentre quelli che collegano ministeri, enti e imprese industriali acquistano sempre maggior influenza.
La precedente posizione del Giappone
Fissare una data precisa per il passaggio tra le diverse politiche è una forte tentazione, che vorrebbe anche dare maggior autorevolezza al ragionamento; nei fatti è però impossibile individuare uno specifico momento per questi processi che si sviluppano nel tempo. In questo caso molti autori oscillano tra il 1997 (l’anno della crisi asiatica) e il 2000 (erroneamente ritenuto il primo anno del nuovo millennio); ugualmente candidabili sono il 2002 (anno della
Atti XXXI Convegno Aistugia, 2007 (183-194)
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firma del primo accordo bilaterale, con Singapore) oppure il 1999 (anno di pubblicazione del White Paper nel quale per la prima volta viene discussa la nuova strategia).1
Come sopra accennato, il Giappone nella seconda metà del ventesimo secolo ha sempre mantenuto una posizione favorevole agli accordi commerciali multilaterali negoziati in sede GATT e OMC (dal 1995, anno di fondazione di quest’ultima, che sostituisce il primo), applicando costantemente il principio del trattamento della nazione più favorita. Era inoltre contrario e sospettoso di ogni accordo su base regionale. Fino all’inizio degli anni Novanta l’unico caso di successo era quello dell’attuale Unione Europea, vista dal Giappone con (infondato) sospetto come “fortezza” autarchica e protezionistica.
I motivi della posizione giapponese erano vari. In primo luogo il suo ruolo nella politica e sicurezza internazionali è stato per decenni passivo delegando, di fatto, agli Stati Uniti le scelte fondamentali in questi ambiti; solamente la generosa gestione degli aiuti ai paesi in via di sviluppo ha costituito un surrogato della politica estera. Nei paesi dell’Asia Orientale il ricordo del brutale comportamento delle forze armate giapponesi durante la Seconda guerra mondiale era (e, in una certa misura, è) molto vivo consigliando un atteggiamento sottotono.
In campo più direttamente economico la crescita rapida, diffusasi a macchia d’olio tra le economie della regione era favorita anche dai numerosi accordi internazionali firmati in sede GATT nonché da un clima generalizzato di natura libero-scambista che non sembrava richiedere ulteriori trattati bilaterali. Per i paesi asiatici poi il mercato di sbocco più importante per le proprie esportazioni erano gli Stati Uniti, tradizionali fautori e registi di questi accordi multilaterali.
L’integrazione economica della regione era inoltre guidata dal mercato ovvero da operatori privati, i keiretsu giapponesi e i gruppi di emigrati cinesi, gli Overseas Chinese;2 dati gli stretti legami tra burocrazia e imprese non sembrava necessario un diretto coinvolgimento del governo giapponese. Da ultimo occorre ricordare che Accordi di Libero Scambio, ALS, bilaterali avrebbero comportato qualche tipo di liberalizzazione anche per i prodotti agricoli, pena la loro bocciatura in sede OMC: concessioni che il Giappone non poteva fare per l’opposizione del potente gruppo di pressione formato dal ministero dell’Agricoltura, MAFF, e delle associazioni e imprese collegate.
In questi anni l’unica chiara politica in merito fu il sostegno dato al consolidamento dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, ASEAN, e l’attiva partecipazione alla Cooperazione Economica dell’Asia Pacifico, APEC (mentre la politica degli aiuti sostituiva in una certa misura quella estera, lasciata come abbiamo visto agli Stati Uniti).
1 METI (METI nel 1999), White Paper on International Economy and Trade, Tōkyō 1999, cap. 7 e, per i recenti sviluppi, 2007, cap. 4.
2 Urata Shujiro, The shift from “Market-led” to “Institution-led” Regional Economic
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Il cambiamento di strategia
Nella seconda metà degli anni Novanta alcuni aspetti del contesto internazionale incominciarono a modificarsi inducendo il Giappone a riconsiderare la sua politica commerciale. Innanzi tutto la tumultuosa crescita della Cina fece di questo paese un attore protagonista in campo economico (e successivamente anche politico) mettendo in discussione la supremazia giapponese nella regione, già indebolita dalla quasi stagnazione seguita allo scoppio della bolla speculativa nel 1990.3
Inoltre molti paesi incominciarono a firmare ALS il cui effetto fu quello di accelerare il proprio sviluppo economico tramite effetti diretti, più intensi flussi commerciali e conseguente maggiore produttività, e indiretti, più elevati IDE, maggiore specializzazione, erosione di rendite monopolistiche, parassitarie.
Il fattore decisivo fu però la crisi asiatica, iniziata il 2 luglio 1997 con il crollo della borsa di Bangkok e la svalutazione del baht, che sconvolse gli equilibri in essere e minò alcune certezze. Da un lato la Cina emerse come potenziale leader per il modo con cui riuscì a gestire la crisi resistendo alla tentazione di svalutare (anche se una delle cause di medio periodo della crisi fu proprio una precedente svalutazione della valuta cinese). Dall’altro lato diventò evidente la necessità di integrare operatori e alleanze privati con istituzioni e accordi sovranazionali: le politiche favorevoli all’iniziativa privata e le sinergie informali stato-mercato non erano più sufficienti a governare le economie nazionali immerse in un mondo sempre più interconnesso e globalizzato.
Molti caratteri di quel modo di gestione del settore pubblico e delle imprese improntate all’armonia confuciana, che in passato erano stati sottolineati e apprezzati come elementi positivi per la crescita, furono additati come responsabili della crisi. La cooperazione tra burocrazia e imprenditori diventò collusione e spesso corruzione; i legami di gruppo, stabili, di lungo periodo diventarono nepotismo e immobilismo; la preferenza per accordi flessibili e non formali diventò opacità e ambiguità. Fu chiesto a tutti i livelli un nuovo modo di comportarsi con regole (da leggi a principi contabili) chiare e valide per tutti e con organi (tribunali e autorità di sorveglianza) indipendenti e competenti per farle rispettare. Questo cambiamento investe anche le politiche economiche e commerciali (in particolare del Giappone) tese a rinnovare i sistemi produttivi nazionali aumentandone la produttività e riducendo le aree protette, inefficienti.
Mentre l’influenza della Cina cresce, il Giappone e l’ASEAN vedono diminuire il proprio peso. Si diffonde inoltre la convinzione che le imprese giapponesi diminuiranno il loro impegno e la loro presenza nella regione: è un’opinione smentita sia dall’ammontare degli aiuti, non solo finanziari, che
3 Hirakawa Hitoshi, “Development of Japan’s East Asian Regional Integration Policy and Problems”, The Journal of East Asian Affairs, Spring/Summer 2007.
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il governo giapponese mette a disposizione dei paesi colpiti dalla crisi (non occorre ricordare che il Giappone è immune da questo specifico contagio), sia dai continui e crescenti investimenti delle multinazionali giapponesi.
Un ultimo fattore che spinge molti paesi a cercare accordi bilaterali è il sostanziale fallimento che si registra, al vertice APEC di Vancouver nel novembre 1997, sull’accelerazione della liberalizzazione commerciale tra tutti i paesi membri, sia pure con tempi differenti per quelli industrializzati e quelli in via di sviluppo.
In Giappone le prime mosse verso accordi bilaterali nascono da un viaggio del presidente coreano nell’ottobre 1998, all’indomani della crisi asiatica.4
Viene suggerito un ALS: le reazioni giapponesi sono relativamente tiepide, mentre in Corea si mettono in cantiere iniziative analoghe con altri paesi. Da parte nipponica si rilancia con la proposta di un ALS esteso a tutta l’Asia Orientale, che viene però vista più come una fuga in avanti che come una proposta concreta.
Gli accordi firmati o in corso di negoziazione
Prima di analizzare i processi che hanno portato il governo giapponese alla firma di numerosi ALS è utile fare un quadro della situazione attuale.
Il Giappone ha concluso otto accordi bilaterali; ne sta negoziando altri sette, di cui due regionali, con più paesi; sta inoltre esaminando la fattibilità di parecchi altri (fine ottobre 2007).5
Gli accordi già firmati sono quelli con:
1. Singapore – Economic Agreement for a New-Age Partnership (gennaio 2002)
2. Messico – Economic Partnership Agreement (settembre 2004) 3. Malesia – Economic Partnership Agreement (dicembre 2005) 4. Filippine – Economic Partnership Agreement (settembre 2006) 5. Cile – Economic Partnership Agreement (marzo 2007)
6. Tailandia – Economic Partnership Agreement (aprile 2007) 7. Brunei – Accordo di Libero Scambio (giugno 2007)
8. Indonesia – Economic Partnership Agreement (agosto 2007)
Gli accordi in corso di negoziazione (del tipo Economic Partnership
Agreement) riguardano l’Australia, la Corea del sud, l’India, la Svizzera e il
Vietnam; quelli più tradizionali (del tipo ALS) coinvolgono i paesi del Golfo e l’ASEAN, con la quale un’intesa di massima è già stata siglata nell’ottobre 2003. Inoltre sono stati proposti (senza iniziare alcun tipo di negoziazione)
4 Munakata Naoko, Evolution of Japan’s Policy toward Economic Integration, RIETI
Discussion Paper, December 2001.
5 Ministero degli Esteri giapponese – http://www.mofa.go.jp/policy/economy/fta/index. html. Si veda anche Aoki Maki, New Issues in FTAs: The Case of Economic Partnership
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187 oppure sono semplicemente allo studio di apposite commissioni giapponesi accordi con tutti i paesi dell’Asia Orientale, con il Canada, con la Cina più Corea del sud (in aggiunta a quello bilaterale con quest’ultima solamente) e con l’Unione Europea.
In termini numerici gli accordi del Giappone non sono particolarmente numerosi: Singapore ne vanta trentuno (di cui tredici già firmati), l’India ventotto (di cui però solo otto già firmati), la Tailandia e il Pakistan ventitré (di cui, rispettivamente, otto e sei già firmati).
Si può subito notare un particolare non trascurabile: il nome più usato non è quello consueto di “accordo di libero scambio”, ma quello più complesso e impegnativo di “accordo per un’associazione economica”. La nuova dizione non è solamente strumentale (per superare resistenze interne al Giappone, come vedremo), ma sostanziale: si tratta di una nuova concezione delle relazioni economiche internazionali che abbraccia non solo gli scambi di merci e servizi, ma anche gli IDE e molti altri aspetti, quali regole di comportamento delle multinazionali, specifiche tecniche, standard sanitari e di sicurezza, telecomunicazioni, protezione della proprietà intellettuale, per ricordarne solo alcuni.
Negli anni più recenti le importazioni/esportazioni di merci hanno subito un drastico ridimensionamento come rilevanza nel più ampio contesto dei rapporti economici tra paesi: altri problemi stanno emergendo, più difficili da definire e risolvere. Per quanto riguarda direttamente la produzione di beni, le innovazioni tecniche e organizzative hanno frammentato il processo produttivo: una merce non viene più prodotta in un solo impianto ma in parecchie fabbriche spesso assai lontane tra di loro. Le varie fasi della lavorazione sono effettuate in luoghi differenti per sfruttare a pieno i vantaggi comparati offerti da ciascun sistema economico. Le nuove tecnologie informatiche permettono di controllare a distanza tutto il processo; nascono le imprese senza fabbriche: un’impresa può acquisire un’idea, un brevetto, far produrre le varie componenti del bene, farle montare e finalmente distribuire il prodotto tramite une serie di altre imprese, magari semplicemente collegate da contratti senza neppure una diretta partecipazione azionaria.
Come si può facilmente comprendere in tale situazione non è tanto lo scambio di merci che risulta rilevante, quanto la certezza che le fasi produttive si possano svolgere senza ostacoli o interruzioni e che le clausole sottoscritte siano rispettate o possano esser fatte valere senza costi (monetari o solo temporali) eccessivi.
All’altro estremo delle relazioni economiche internazionali il rispetto di regole minime in campi assai diversi tra loro – protezione dei minori, condizioni di lavoro, rispetto dell’ambiente – diventa essenziale soprattutto, ma non solo, nei paesi industrializzati. I nuovi gruppi della società civile, nonché le tradizionali organizzazioni dei sindacati e partiti, premono per la difesa dei diritti dei soggetti sopramenzionati e per la loro inclusione in accordi o trattati internazionali.
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Le spiegazioni teoriche dei nuovi accordi
Molteplici sono le interpretazioni offerte dagli economisti per spiegare questi cambiamenti. Le numerose applicazioni della teoria delle scelte pubbliche li considerano come il risultato di un calcolo economico che un gruppo organizzato (non semplicemente un singolo individuo) effettua prima di prendere una decisione. Il soggetto in questione cerca di calcolare nel modo più preciso possibile (date le informazioni a sua disposizione e le previsioni più attendibili) i costi e i benefici della decisione stessa. In altre parole si cercano di valutare i guadagni che possono risultare da una data azione o politica e i costi necessari per porla in essere. Le decisioni relative sono poi assunte sulla base dei risultati di questa valutazione: se i guadagni risultano superiori ai costi, la politica viene attuata, in caso contrario viene abbandonata.
L’ipotesi alla base di queste teorie è relativamente semplice e condivisibile; si tratta in altre parole di comportarsi in modo da trarre dei benefici, un maggior benessere. Le difficoltà sorgono quando si vuole precisare la funzione obiettivo di un gruppo (che cosa si vuole ottenere? che cosa si intende per beneficio o benessere?) e quando si vogliono calcolare costi e benefici in termini omogenei, ovvero monetari (quale valore, quale prezzo attribuire a componenti immateriali o non scambiate sul mercato?).
Queste applicazioni non sono limitate alle relazioni internazionali ma coprono più in generale i comportamenti dei gruppi di pressione in tutti i loro ambiti: politici, sociali, religiosi ecc. Spesso gli strumenti formali utilizzati si richiamano alla teoria dei giochi. Il protezionismo o l’imposizione dei dazi doganali può essere esaminato in termini di un “gioco” tra un gruppo economico che chiede alle autorità politiche dazi elevati e un altro gruppo che al contrario vuole dazi bassi o addirittura nulli. Entrambi i gruppi calcolano i costi diretti e indiretti della propria politica e li confrontano con i vantaggi ottenibili nel caso in cui la data politica sia posta in essere.6
Tradizionalmente in passato, nelle prime fasi dell’industrializzazione dei paesi ora sviluppati (con l’eccezione della Gran Bretagna), i gruppi favorevoli al protezionismo erano quelli industriali mentre quelli favorevoli al liberismo commerciale erano quelli agrari. I primi infatti chiedevano protezione per poter crescere, rafforzarsi e superare le difficoltà legate all’industria “nascente”, mentre i secondi temevano ritorsioni da parte di paesi stranieri contro le proprie esportazioni nel caso in cui fossero applicati dazi. La situazione è oggi esattamente l’opposto: i gruppi industriali sono in genere più favorevoli alle liberalizzazioni commerciali mentre quelli agrari sono più protezionisti.
Un secondo aspetto di grande importanza è la relazione tra liberalizzazioni e ALS. Nei paesi industrializzati durante gli anni Cinquanta e Sessanta
6 Stanislaw Wellisz & Robert Findlay, “The State and the Invisible Hand”, The World
Bank Research Observer, January 1988, pp. 59-80, e Giovanni Maggi & Andrés
Rodrìguez-Clare, “A Political-Economy Theory of Trade Agreements”, American Economic Review, September 2007, pp. 1374-1406.
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189 l’intervento dello stato era visto con molto favore per motivi teorici ed empirici. Sul piano teorico le teorie keynesiane sembravano la soluzione ottimale per raggiungere e mantenere la piena occupazione. Sul piano empirico l’intervento pubblico prendeva spesso la forma di spese o trasferimenti a favore di molti gruppi sociali: i benefici erano evidenti, i costi (nella forma di crescente regolamentazione e debito pubblico) molto meno apparenti. Nei paesi in via di sviluppo questa fase di accentuato intervento pubblico continua fino all’inizio degli anni Ottanta con la crisi del debito estero. In parecchi paesi dell’Asia Orientale la tradizione storica e culturale, di derivazione confuciana, ha fornito un’ulteriore giustificazione per una profonda interrelazione tra stato e mercato, tra imprese e burocrazia. Nei periodi di rapida crescita le sinergie positive hanno superato i costi che potevano derivare da questi stretti e spesso opachi legami, anche perché in questa regione sono stati evitati gli eccessi parassitari comuni ad altre aree.
La crisi del 1997 e ancor prima, per il Giappone, lo scoppio della bolla speculativa ha portato in primo piano le inefficienze insite nella situazione esistente. I legami pubblico-privato diventavano scambi di favori; le relazioni personali, di lungo periodo diventavano connivenze; il sistema decisionale basato sull’unanimità diventava lentezza e immobilismo; l’avversione a leggi chiare e contratti scritti diventava un paravento per nascondere irregolarità.
In Giappone l’avvento di Koizumi scuote il mondo politico ed economico, iniziando un processo di riforme nella direzione di un minor peso della burocrazia (e soprattutto della sua discrezionalità), di liberalizzazioni e privatizzazioni che, per la verità, è restato incompiuto. Molto spesso un governo che desidera attuare riforme di questo tipo cerca di “legarsi le mani” sottoscrivendo impegni internazionali, quali appunto un ALS. Esso infatti teme che i gruppi di pressione, indeboliti da una crisi, possano riacquistare influenza una volta che la ripresa economica si sia consolidata ritornando alla situazione precedente: una soluzione a questo problema è appunto impegnarsi con paesi terzi su comportamenti che impediscano o almeno rallentino un ritorno al passato.7
Gli attori giapponesi
Nella società giapponese i principali attori di questa commedia sono da un lato il MAFF con i gruppi di pressione legati al mondo rurale e, naturalmente, i parlamentari eletti in tali collegi e dall’altro le imprese industriali e le loro associazioni con il sostegno del METI. Il primo gruppo ha avuto (e tuttora ha) un rilievo eccessivo, sproporzionato rispetto al suo peso quantitativo, comunque sia misurato: in termini di occupati o di valore aggiunto o di esportazioni. Il
7 Mark Manger, “Competition and bilateralism in trade policy: the case of Japan’s free trade agreements”, Review of International Political Economy, December 2005, pp. 804-828.
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secondo stentava a farsi sentire nonostante fosse predominante nel paese. Anche in questo caso è possibile trovare una semplice spiegazione: i gruppi relativamente piccoli e focalizzati su un interesse specifico sono molto più efficaci di quelli molto ampi che perseguono interessi generali.
Gli agricoltori sono una minoranza (sempre più piccola) ma riescono a trarre dei vantaggi rilevanti dalla politica protezionista del governo; i costi di questa politica sono diffusi tra tutti i consumatori, in numero molto elevato: ogni persona paga un piccolo prezzo addizionale che diventa sempre meno avvertito perché la percentuale del reddito spesa nei beni alimentari decresce al crescere dei guadagni. Di conseguenza il mondo rurale ha un forte incentivo a utilizzare risorse di tempo e denaro in attività che inducano i politici a continuare le politiche protezioniste. Si tratta di attività che non servono a produrre direttamente alcun bene o servizio e che in passato erano giudicate dagli economisti irrazionali; il loro risultato è però quello di cambiare la distribuzione del reddito: chi si impegna in queste azioni si appropria di una parte del prodotto nazionale. I consumatori invece, in numero molto elevato hanno da un lato difficoltà nell’organizzarsi in gruppi di pressione e dall’altro sopportano singolarmente un costo relativamente basso.
Anche i politici hanno forti incentivi a sostenere il protezionismo perché ricevono dai gruppi di pressione agricoli varie forme di sostegno nelle campagne elettorali e in genere per le loro attività: fare politica ha dei costi non irrilevanti ed è conveniente che qualcuno li copra, almeno in parte. Come già indicato, sull’altro versante non si formano strutture organizzative analoghe per contrastare il protezionismo in modo efficace.
Finché a livello internazionale era prevalso il multilateralismo sotto l’egida GATT/OMC un terzo gruppo di potenziali attori, le imprese industriali, non aveva un forte interesse a entrare nel gioco: gli accordi commerciali globali assicuravano una costante diminuzione delle barriere ai prodotti industriali e un’espansione del commercio internazionale, che coinvolgeva poi anche il PIL in una spirale virtuosa. Interessi specifici (ma analoghi a quelli esistenti in