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Tsutomu Hoshino

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ACULTURAGIAPPONESE COME

CULTURADI TRADUZIONE

Oggi, in epoca di globalizzazione, non solo siamo in grado di conoscere attraverso i media quanto accade nel mondo proprio come se ciò avvenisse accanto a noi, ma gli stessi contatti interculturali sono divenuti un fatto ordinario. Tali contatti vanno sviluppandosi seguendo regole globali che superano i confini dello Stato, come testimoniato in primo luogo dalla cultura del mondo giovanile. D’altra parte, è altrettanto vero che essi generano anche attriti culturali, i quali possono persino sfociare in conflitti politici.

Situato nel cosiddetto Estremo Oriente, ovvero alla periferia piuttosto che al centro del mondo, e avendo conosciuto in passato una fase di isolamento dall’esterno, il Giappone ha sviluppato la sua tradizione culturale attraverso costanti contatti con progredite culture d’oltremare, come la Cina e la penisola coreana prima dell’epoca moderna e l’Occidente successivamente alla Restaurazione Meiji. Pertanto, si può dire che la cultura giapponese abbia precorso l’era della globalizzazione, essendo una ‘cultura mista’ (konsei bunka 混成文化) formatasi attraverso la ricezione di varie culture strutturalmente eterogenee e con tradizioni differenti. Tuttavia, per ‘cultura mista’ non si intende un semplice ‘miscuglio’ (gotamaze ごた混ぜ) tra varie culture, né una mera ‘imitazione’ (manegoto まね事) di culture straniere. Piuttosto, la peculiarità della cultura giapponese risiede nel suo essere ‘cultura mista’ senza per questo essere un semplice ‘miscuglio’, né una mera ‘imitazione’. E questo mio intervento sulle peculiarità della cultura giapponese si fonda sull’ipotesi che tale peculiarità derivi proprio da ciò.

La cultura giapponese viene spesso definita – non senza una certa ironia – come una ‘cultura di traduzione’ (hon’yaku bunka 翻訳文化), intesa in termini di ‘miscuglio’ tra vari elementi culturali di importazione oppure come ‘imitazione’ di culture straniere, e priva di una sua originalità. L’assorbimento di culture straniere avviene attraverso la traduzione, dove per traduzione s’intende riprodurre (o copiare) l’originale. Tuttavia, a una più attenta analisi, ciò che è riprodotto non è mai del tutto simile all’originale. Quanto meno, Atti XXXI Convegno Aistugia, 2007 (39-52)

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esiste una sottile discrepanza. E se proviamo a esaminare le cause di tale discrepanza, ci troviamo di fronte a rilevanti problemi che non possono essere ricondotti semplicemente a errori di interpretazioni dovuti alla limitata competenza linguistica del traduttore. Uno riguarda la traduzione stessa, cioè il problema della traducibilità e intraducibilità; un altro riguarda invece il ruolo che, attraverso tale discrepanza, la traduzione è venuta a svolgere nella formazione e nella trasmissione della cultura giapponese. Cercherò qui di chiarire le caratteristiche della cultura giapponese intesa come ‘cultura di traduzione’, assumendo appunto come prospettiva di analisi il ruolo che la traduzione, la quale inevitabilmente comporta discrepanze, è venuta a svolgere nella sua formazione e trasmissione.

Trasposizione e creazione di significati nella traduzione

L’incontro e i contatti con culture straniere possono verificarsi in vari modi, così come avviene anche nel caso della comprensione e accettazione di culture altre. In tale comprensione e accettazione, la traduzione svolge un ruolo davvero rilevante. La traduzione presenta due aspetti: uno riguarda la trasposizione dei significati, l’altro la creazione di significati.

Consideriamo in primo luogo il problema della traduzione come traspo-sizione di significati. Da questo punto di vista, la traduzione non consiste altro che nella ricerca del significato equivalente – attraverso una corrispondenza di uno a uno – tra lingue e culture differenti, presupponendo l’esistenza di un certo grado di identità tra lingue e culture o, per assurdo, di una perfetta corrispondenza tra lingue, sebbene sia innegabile che tra lingue e culture diverse esistono differenze nette e profonde. In tal caso, nella misura in cui traspone il significato, la traduzione persegue caparbiamente la corrispondenza del significato. In altre parole, essa mira a una corrispondenza del significato tra lingua e testo originali e lingua e testo in cui avviene la trasposizione. La qualità della traduzione viene così valutata in base alla possibilità o meno di trasporre correttamente il significato della lingua e del testo originali, ovvero alla possibilità o meno di ricalcare fedelmente il significato originale.

La corrispondenza di significati nella trasposizione è un concetto che si fonda sull’ipotesi che esista una perfetta corrispondenza tra lingue, ma ciò non vuol dire che la traduzione riesca a realizzare effettivamente tale corrispondenza. In effetti, la traduzione non può essere un fedele calco del significato originale, né può evitare la discrepanza di significato tra testo tradotto e testo originale, ciò che si dice mistranslation. D’altra parte, come affermava Benedetto Croce, tradurre è in qualche modo tradire.

La traduzione può poi essere concepita come creazione di significati diversi da quello che avevano sia le parole e le frasi originali, sia le parole e le frasi tradotte, attraverso una trasformazione del significato di entrambe.

Di certo, la traduzione mira idealmente a trasporre l’equivalente del testo originale nella lingua di traduzione. Tuttavia, persino nel caso di traduzioni

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41 di eccellente qualità, il testo trasposto non equivale mai del tutto a quello originale, esistendo inevitabilmente tra i due una discrepanza di significati. Inoltre, tale discrepanza di significati si verifica non solo tra il testo e la lingua originali e il testo e la lingua di traduzione, ma anche all’interno della stessa lingua di traduzione. In tal senso, la traduzione è creazione, nei termini tradotti, di significati diversi rispetto a quelli che i vocaboli e le frasi – sia quelli originali sia quelli di traduzione – hanno nel rispettivo contesto linguistico e culturale.

Come esempio concreto consideriamo il termine tetsugaku 哲学, che è la traduzione di philosophy. Pur se tradotto in giapponese, il termine occidentale

philosophy non ha un corrispondente nella nostra lingua. Agli inizi del

periodo Meiji, prendendo spunto dall’espressione in kanbun “shikiken” 士希 賢 (ovvero “l’Uomo desidera ardentemente la saggezza” shi wa ken o koinegau 士は賢を希う), Nishi Amane (1829-1897) coniò il termine kitetsugaku 希哲学, nel significato di “amare e bramare l’ingegno del saggio” (kentetsu no akechi

o aishi kikyū suru 賢哲の明智を愛し希求する), modificatosi poi nel 1874 in tetsugaku. Il fatto che in giapponese non esistesse un vocabolo equivalente

a philosophy indica che in Giappone non esisteva una disciplina con un significato strettamente corrispondente. Inoltre, traducendo philosophy con il neologismo tetsugaku, il significato del termine giapponese si discostò seppur lievemente da quello originario. Ciò che equivale esattamente al termine

tetsugaku, dunque, non esiste in Occidente. In altre parole, ciò che esso cerca

di esprimere è una ‘finzione’.

Tuttavia, in quanto il termine tetsugaku diventò assai comune tra i giapponesi, la stessa realtà venne per così dire a essere interessata da tale ‘finzione’. In tal senso, la creazione non fu limitata a interessare la sola lingua. In effetti, nel Giappone post Meiji il termine tetsugaku venne indagato in modo consapevole attraverso un marcato assorbimento della filosofia e del pensiero occidentali. Ciò si verificò nonostante l’apparente corrispondenza e la pur lieve differenza sostanziale che esso presenta rispetto alla philosophy occidentale. E, di certo, così accadde pure nel caso della modernizzazione del Giappone post Meiji.

Se considerata alla luce del concetto di traduzione, la creazione di significati nella traduzione è un elemento negativo che deriva dalla discrepanza di significati esistente tra lingua e testo originali e lingua e testo tradotti, così come nella stessa lingua in cui essi sono tradotti. Eppure, mentre questo elemento negativo avanza, va compiendosi – consapevolmente o meno – un’originale ‘interpretazione’.

Traduzione: ricezione autonoma

Maruyama Masao ci parla della modalità attraverso cui il Giappone accolse la cultura cinese prima della modernizzazione, definendola non come un “modello di inondazione” (kōzuigata 洪水型), ma come un “modello

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di infiltrazione” (amamorigata 雨漏り型) che transitò da una parte all’altra lungo la penisola coreana, trovandosi esso a una distanza geografica “non vicina, né lontana” dal continente.1 Si può dire che l’autonomia della cultura giapponese sia rappresentata proprio dal fatto che, avendo seguito un “modello di infiltrazione” e non un “modello di inondazione”, il Giappone ebbe un margine di tempo sufficiente per mettere a punto ‘misure di adattamento’ alla cultura continentale, recependola e accogliendola pur senza esserne assorbito e senza restarne immune. E il meccanismo attraverso cui fu messo a punto tale ‘adattamento’ non è altro che una traduzione la quale, pur mirando alla trasposizione del significato, crea al contempo nuovi significati.

Lo stesso kanbun kundoku (ovvero la lettura giapponese di un testo in cinese) è un tipico esempio di accettazione indipendente, essendo un genere di traduzione nella misura in cui un testo in lingua cinese viene letto alla giapponese. Sotto questo profilo, si può dire che tutta la cultura giapponese – dove la lingua ha funto da tramite nell’assimilare e introdurre vocaboli e metodi espressivi del cinese – è una ‘cultura di traduzione’; si può inoltre presumere che, in epoca Meiji, questa esperienza abbia consentito al Giappone di tradurre testi occidentali su vasta scala, contribuendo in tal modo a dar forma al Giappone moderno.

Ma cosa sarebbe accaduto se, nel corso del processo di ricezione della cultura cinese, il sistema della lingua cinese fosse stato interamente adottato, seguendo quello che Maruyama Masao definisce “modello di inondazione”? O cosa sarebbe accaduto se l’inglese fosse stato adottato nella sua totalità allorché Mori Arinori, primo ministro dell’Educazione del governo Meiji, nel suo Education in Japan (1873) sostenne la necessità di sostituire la lingua giapponese con quella inglese allo scopo di consentire al Giappone di acquisire la cultura occidentale in breve tempo? La cultura giapponese si sarebbe preservata nella forma in cui esiste oggi?

Considerando tutto ciò, la ‘cultura di traduzione’ non esclude neces-sariamente la creatività. Ad esempio l’originalità della cultura del periodo Tokugawa si individua non solo nel teatro jōruri o nella poetica haikai, ma anche nell’attività intellettuale di studiosi confuciani che avevano una buona padronanza di concetti contenuti in testi cinesi. Ciò non significa tuttavia che gli intellettuali giapponesi seguissero sempre i loro omologhi cinesi coevi. E, in una certa misura, lo stesso può essere affermato in riferimento alla cultura post Meiji. In tal senso, la traduzione non è tanto una semplice accettazione di concetti e idee stranieri, quanto piuttosto una ricezione indipendente e selettiva. Ed è in ciò che può risiedere il senso positivo della traduzione.

Il valore prioritario che la traduzione ha nella cultura giapponese è riconducibile al fatto che il Giappone è situato alla periferia e non al centro del

1 Maruyama Masao 丸山眞男, “Genkei, kosō, shitsuyō teion” 「原型・古層・執拗低温」 (Prototipo, strato antico e basso ostinato, 1984), in Katō Shūichi et al., a cura di, Nihon

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43 mondo, e che esso svolse il ruolo di destinatario e non di mittente di culture e civiltà altre, quella cinese sin dal periodo antico e quella occidentale a partire dal Meiji. La traduzione da lingue straniere – che si tratti del cinese o di lingue occidentali – al giapponese ha sempre rappresentato un sistema di ‘circolazione a senso unico’ della cultura. Pertanto, questa ‘circolazione a senso unico’ della cultura caratterizza non solo il Giappone nella fase di isolamento dal mondo esterno, ma anche il Giappone moderno. Un elemento, questo, che non deve essere trascurato quando si considerano le caratteristiche della cultura giapponese.

Il senso di disagio verso la ‘cultura di traduzione’

La cultura giapponese è una ‘cultura di traduzione’ formatasi accogliendo costantemente culture straniere. Ma non è tutto. Persino la lingua giapponese, costituita da ‘frasi che mescolano caratteri cinesi e sillabari fonetici’, è di per sé una lingua di traduzione. Pertanto, se eliminassimo del tutto gli elementi di provenienza straniera e ricercassimo soltanto gli elementi indigeni, allora – come afferma Maruyama Masao – ciò “sarebbe un’operazione simile a quella di pelare una cipolla”.2 È pur vero, tuttavia, che la tradizione culturale giapponese è ancora pervasa da un senso di disagio (iwakan 違和感) verso questa ‘cultura di traduzione’ e da una diffidenza verso lo stesso giapponese ibrido.

Il senso di disagio nei confronti della ‘cultura di traduzione’ è facilmente individuabile, ad esempio, nella fase successiva all’interruzione dell’invio di missioni in Cina nel periodo Heian, oppure all’epoca del kokugaku (Scuola nativista) sviluppatasi tra la metà e la fine del periodo di Edo. Motoori Norinaga (1730-1801) e altri esponenti del kokugaku rigettarono la cultura di traduzione incentrata sul confucianesimo e sul buddhismo così come l’idea di traduzione in quanto elemento estraneo, e cercarono di avvicinarsi al ‘culto indigeno’ (shinkō koyū 固有信仰) che andava ricercato nel periodo antico del Giappone, prima cioè che giungesse l’influsso confuciano e buddhista. Ma se proviamo a dare una forma distinta a tutto ciò, allora si potrebbe persino parlare di un ‘pan-nipponismo’ (han Nihonshugi 汎日本主義) che si appellava implicitamente a idee straniere e abbracciava confucianesimo, buddhismo, cristianesimo e così via, come avvenne nel caso di Hirata Atsutane (1776-1843) che tentò di ricostruire l’immagine del mondo in chiave shintoista.

Dall’esempio del kokugaku si può evincere che gli elementi indigeni della cultura giapponese non costituiscono un qualcosa di puro che permarrebbe qualora la ‘cultura di traduzione’ fosse interamente eliminata. Ad esempio, non potremmo parlare della cultura e del pensiero del Giappone trascurando

2 Maruyama, “Genkei, kosō, shitsuyō teion”, cit., p. 137 [nel testo rakkyō, tipo di scalogno].

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la ricezione del buddhismo, del confucianesimo o del taoismo nel periodo precedente al periodo moderno, oppure del pensiero e della cultura occidentali – cristianesimo compreso – in epoca moderna. Anche nel caso dello shintoismo, il culto indigeno del Giappone, fu necessaria una sintesi con la cultura e il pensiero stranieri affinché esso assumesse la forma di una dottrina sistematica. Ma, una volta che le culture e le idee straniere sono accolte attraverso la traduzione, nei loro confronti si manifesta un costante senso di disagio ed esse vengono sottoposte a una costante trasformazione. Sembrano cioè esistere nella cultura giapponese due aspetti complementari, dove da un lato si accettano positivamente gli elementi culturali stranieri, mentre dall’altro nei loro confronti si manifesta un senso di disagio e si attua una potente trasformazione; ed è in ciò che sembrerebbe risiedere una chiave di lettura in grado di chiarire le caratteristiche della cultura giapponese. Si può pertanto pensare che, al fine di individuare le peculiarità della cultura giapponese, è essenziale fare emergere con chiarezza il vettore operante in essa, reinterpretandola all’interno di una ‘cultura di traduzione’ intesa in termini di ricezione selettiva e autonoma, e all’interno della trasposizione e creazione di significati nella traduzione.

Modernizzazione e nipponizzazione dalla prospettiva della letteratura shizenshugi

Gli scrittori del movimento shizenshugi, come Shimazaki Tōson, Tayama Katai e Masamune Hakuchō, i quali erano nati negli anni Settanta del XIX secolo in antiche famiglie di provincia o da famiglie samurai cadute in rovina e che si erano recati a Tōkyō per studiare letteratura inglese, meritano attenzione in quanto promossero una modernizzazione della letteratura giapponese in un senso diverso rispetto a Mori Ōgai e Natsume Sōseki. Prendiamo allora come esempio concreto questa letteratura shizenshugi e analizziamo da lì le peculiarità della cultura giapponese come ‘cultura di traduzione’.

Pare sia stato Mori Ōgai a tradurre il termine naturalism con shizenshugi 自然主義, anche se c’è una differenza di significato tra nature e il termine giapponese shizen 自然. È lecito pensare che ciò abbia provocato uno spostamento nella comprensione del Naturalismo, dando vita al particolare carattere della letteratura giapponese dello shizenshugi.

Di certo, nature corrisponde al giapponese jinen 自然 cioè “essere spontaneo” (onozukarashikari), nel significato di una condizione priva di artificio. Ma in nature e anche nel termine cinese ziran 自然 è racchiuso un altro significato relativo all’essenza e all’ordine ideale delle cose. Tuttavia, il termine giapponese 自然, pur racchiudendo un’idea che prevede un generare naturale nel senso di “essere spontaneo”, non possiede il significato di essenza e ordine delle cose. Inoltre, nell’epoca moderna che ha visto lo sviluppo delle scienze naturali, nature è venuto ad assumere il significato di natura materiale come oggetto delle scienze naturali, quindi ciò che può essere compreso in modo codificato attraverso il metodo scientifico. Ma il giapponese 自然 implica

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45 piuttosto un carattere contingente non soggetto a pronostici, distaccandosi così sempre più dal significato di nature.

Fu Emile Zola (1840-1902) che, sullo sfondo dello sviluppo delle scienze naturali e della Rivoluzione industriale nel moderno Occidente, suggerì di attribuire il termine “naturalismo” alla teoria letteraria atta a descrivere obiettivamente la realtà nella sua condizione naturale e materiale, applicando il metodo dalle scienze naturali anche alla letteratura. È possibile individuare alcune caratteristiche comuni agli scrittori del Naturalismo francese della seconda metà del XIX secolo di cui Zola è rappresentativo, quali l’atteggiamento descrittivo scientifico in cui la soggettività è soppressa, la comprensione dell’essere umano da un punto di vista biologico e fisiologico, lo spirito critico nei confronti delle contraddizioni sociali.

Ciò che invece contraddistingue la letteratura shizenshugi è una letteratura di confessione in cui si annotano incessantemente i dettagli della vita quotidiana e i moti dei sentimenti interiori dello scrittore che li affida al suo protagonista. Futon 蒲団 (1907) di Tayama Katai, ad esempio, è un romanzo in cui il protagonista viene lasciato dalla giovane allieva di cui è vagamente infatuato e piange avvolto nel futon lasciato da lei, e il fatto che lo scrittore descriva un’esperienza “tale e quale” a quanto da lui vissuto rivela l’idea di letteratura shizenshugi. Tuttavia, qui manca un legame con il metodo scientifico adottato dalla letteratura del Naturalismo francese, mentre il tema è limitato a questioni personali dello scrittore più che volto a una critica delle contraddizioni sociali. Secondo Katō Shūichi, gli scrittori giapponesi che lessero i lavori di Zola nella loro versione in inglese non colsero il Naturalismo di Zola, ma solo le tendenze generali della letteratura occidentale del XIX secolo. Vi colsero, cioè, soltanto una “descrizione nuda e cruda” della “verità” umana.3

Tuttavia, è innegabile che, confutando le descrizioni di usi e costumi d’epoca tipiche del Ken’yūsha (Associazione degli amici del calamaio) incen-trato attorno a Ozaki Kōyō, questa peculiare letteratura shizenshugi abbia dato un effettivo contributo alla nascita del romanzo moderno in Giappone. Inoltre, nella “descrizione nuda e cruda” che gli scrittori dello shizenshugi avevano appreso dalla letteratura occidentale del XIX secolo è possibile cogliere un miglioramento nella tecnica descrittiva e un approfondimento dello spirito in termini realistici. Ma il loro tentativo di perseguire la verità riguardava soltanto i banali dettagli dello spazio privato e quotidiano e, se mancavano i principi e i concetti in grado di ordinare l’intero spazio quotidiano così come accadeva nella letteratura del Naturalismo occidentale, mancavano pure gli elementi di critica sociale. Piuttosto, a risaltare sono soltanto osservazioni acute e considerazioni realistiche che operano a seconda delle singole situazioni. Per certi versi, ciò ha un legame con la narrazione dei diari e delle miscellanee

3 Katō Shūichi 加藤周一, Nihon bungakushi josetsu, 『日本文学史序説(下)』 (Introduzione alla storia letteraria giapponese), Chikuma shobō, Tōkyō 1980, vol. 2, p. 361.

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risalenti all’epoca Heian. Come movimento, lo shizenshugi iniziò il suo rapido declino non appena ebbe toccato l’apice. La concezione letteraria lasciata dallo

shizenshugi, secondo la quale l’espressione stessa della propria realtà interiore

è la via maestra della letteratura, ha tuttavia esercitato una grande influenza