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Jacopo Francesco Acqua

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AMANAKA

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ADAOELAQUOTIDIANITÀDELLAMENZOGNA

Il genere jidaigeki degli anni Venti e Trenta annovera tra i suoi rappresen-tanti due personalità di spicco, Itō Daisuke e Makino Masahiro. La bibliografia che tratta di questi due registi è relativamente sostanziosa, ed è inoltre necessario ricordare che molte delle loro opere hanno influenzato le successive generazioni di autori cinematografici. Tuttavia vi è una figura di quel periodo che è rimasta a lungo nell’ombra; il suo nome è Yamanaka Sadao (1909-1938).

Al giorno d’oggi Yamanaka è ricordato come uno dei più geniali registi giapponesi; il suo collega Aoyama Shinji, ad esempio, lo considera alla pari dei grandi maestri degli anni Cinquanta.1 Eppure, nonostante i riconoscimenti, il materiale bibliografico nei suoi confronti è piuttosto scarso. I motivi sono molteplici: innanzitutto, Yamanaka ha lavorato in ambito cinematografico soltanto per sei anni, dal 1932 al 1937; in secondo luogo, nonostante fosse un regista assai prolifico, su ventisei pellicole girate ben ventitré sono andate perdute; oltre a ciò, la qualità delle immagini, ma soprattutto la qualità del sonoro delle tre opere sopravvissute è davvero povera, e non si è ancora provveduto a un restauro vero e proprio. Stando così le premesse, è facile comprendere come sia complicato scrivere di questo regista, a meno che non si introduca la sua figura in un contesto più ampio, quale può essere il primo cinema di jidaigeki. In questi casi però, spesso ci si riduce a una semplice menzione sulla vita e le opere.2

I critici Satō Tadao e Yamamoto Kikuo3 hanno comunque cercato di

1 Aoyama Shinji, “On humanity and paper balloons”, in Humanity and paper balloons,

a film by Sadao Yamanaka (Jasper Sharp, ed.), Eureka, London 2005, pp. 3-4.

2 Il concetto è ripreso in più occasioni sul sito dedicato alla memoria del regista “Yamanaka Sadao o gozonji desuka?”, http://www5a.biglobe.ne.jp/~shadow/doyouknow.htm

3 Satō Tadao, “Yamanaka Sadao: Nihon eiga ni ‘Amerika’ o toriireta otoko”, in Seishun

no kazu dake meiga ga aru: Nihon eiga besuto 200, Kadokawa shoten, Tōkyō 1990, pp.

104-105; Yamamoto Kikuo, “Tradizione e modelli hollywoodiani in Yamanaka Sadao”, trad. di Giorgio Amitrano e Torii Masao, in Marco Müller (a cura di), Schermi giapponesi (volume

1): La tradizione e il genere, Marsilio, Venezia 1984, pp. 31-38.

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analizzare nel dettaglio i suoi lavori, basandosi sulle poche opere conservate, e sui ricordi di gioventù per quanto riguarda quelle andate perdute. Le conclusioni a cui giungono sono davvero simili: entrambi definiscono Yamanaka Sadao un regista moderno di jidaigeki, positivamente influenzato dai film hollywoodiani suoi contemporanei.

La modernizzazione di Yamanaka risiede nei dialoghi: mentre nei

jidaigeki di Itō Daisuke i personaggi adottano uno stile pomposo ed elegiaco,

di diretta derivazione del teatro kabuki, gli attori dei film di Yamanaka si esprimono con frasi semplici e con termini di uso quotidiano. Inoltre, Yamanaka focalizza l’obiettivo sul cittadino comune, relegando in secondo piano il nobile samurai la cui esistenza è dettata da un severo codice d’onore. Anche per ciò che riguarda l’influenza proveniente dal cinema occidentale Satō e Yamamoto sono concordi: il modello hollywoodiano serve per riproporre l’essenza del

jidaigeki attraverso un’ottica differente, più “moderna”. In termini pratici, se

Yamanaka vuole enfatizzare un determinato momento del film in costume che sta dirigendo, può prendere in prestito ambientazioni da I miserabili, oppure può far muovere la macchina da presa come nelle scene di Grand Hotel.4

I saggi dei due critici proseguono analizzando con meticolosità le opere di Yamanaka Sadao, e per ogni scena importante ai fini della narrazione essi non mancano di notare il corrispettivo occidentale. Di certo tale lavoro mette in luce il concetto di “modernizzazione”; tuttavia dice poco o nulla circa lo stile del regista, non cerca di trovare punti di contatto tra un suo film e quelli successivi, non segnala dei fili conduttori o delle tematiche di base. Anche se le fonti primarie si riducono a tre film soltanto, io credo che al loro interno si possa riconoscere l’evoluzione del pensiero di Yamanaka, il cui pessimismo cresce di pari passo con l’affermarsi del regime totalitaristico nel suo paese.

La prima testimonianza è data da una commedia del 1935 (丹下左膳餘 話百萬兩の壺 Tange Sazen yowa: hyakuman ryō no tsubo, Un aneddoto su Tange Sazen: il vaso da un milione di ryō); l’anno successivo segue un film drammatico in cui serpeggia però una sottile ironia (河内山宗俊 Kōchiyama

Sōshun, id.); e l’esperienza cinematografica si conclude nel 1937 con un altro

dramma, in questo caso senza lasciare spazio al sorriso (人情紙風船 Ninjō

kami fūsen, Sentimenti umani e palloncini di carta). A mio avviso, il filo

conduttore che idealmente collega le tre opere è la menzogna: per Yamanaka Sadao tutti mentono, samurai e commercianti, poveri e benestanti, uomini e donne, giovani e anziani. Molto interessanti sono le modalità con cui la menzogna viene portata in scena, sia dal punto di vista della sceneggiatura, sia da quello della realizzazione tecnica. Si nota infatti che nel 1935 l’inganno è perpetuato solo a livello verbale, mentre nel 1937 i protagonisti stessi

4 I miserabili è stato trasposto su pellicola diverse volte nel corso degli anni; la versione a cui Yamanaka fa riferimento è quella di Raymond Bernard del 1933. Grand Hotel è un film del 1932 che ha come ambientazione un rinomato albergo di Berlino; la regia è di Edmund Goulding.

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55 risultano essere delle contraddizioni viventi. Questo passaggio è secondo me una delle componenti basilari del pensiero di Yamanaka.

Nei paragrafi successivi viene analizzata nel dettaglio l’evoluzione del concetto di menzogna; le trame delle tre opere in questione si trovano riassunte in brevi paragrafi all’inizio delle corrispettive analisi.

Trama di Tange Sazen yowa: hyakuman ryō no tsubo

Un favoloso tesoro del valore di un milione di ryō è sepolto da qualche parte nella provincia di Nara, e la mappa che ne indica l’ubicazione è stata dipinta all’interno di un vaso. Ma il recipiente è talmente brutto che ogni suo proprietario non vede l’ora di disfarsene, salvo poi venire a conoscenza del suo segreto quando ormai è troppo tardi. I due contendenti in questa caccia al tesoro sono il daimyō di Yagyū e il fratello minore Genzaburō, anche se quest’ultimo preferisce dedicare gran parte del suo tempo alle scappatelle amorose.

Il rōnin Tange Sazen e la sua amante Ofuji invece sono i protagonisti di una vicenda parallela: la coppia è costretta dagli eventi a prendersi cura del piccolo Yasu rimasto orfano. Punto di contatto tra le due trame è proprio Yasu, entrato in possesso del vaso e intenzionato a tenerlo come recipiente per il suo pesce rosso.

Tange Sazen – La menzogna fine a se stessa

Nato dalla penna di Hayashi Fubō nel 1927, Tange Sazen diviene una figura oltremodo popolare nel giro di breve tempo, complice il fatto non solo di appartenere alla schiera degli eroi perdenti, ma anche di essere mutilato e di vivere al di fuori della società. La casa produttrice Nikkatsu non si lascia sfuggire la possibilità di trasferire su pellicola un personaggio così singolare, e affida la direzione di tre episodi incentrati sul rōnin al regista Itō Daisuke. Tuttavia, dopo il secondo film Itō abbandona gli studi Nikkatsu, cosicché la terza parte della saga viene affidata al giovane ma promettente Yamanaka Sadao. Insieme allo sceneggiatore Mimura Shintarō, il regista apporta svariate modifiche al soggetto originale, tanto che la vedova Hayashi cerca di bloccare la produzione del film.5 I produttori riescono comunque a distribuire la pellicola, nel 1935, in compenso però nei titoli di testa non viene accreditato il soggetto originale di Hayashi Fubō.

I cambiamenti apportati da Yamanaka e Mimura, in effetti, non sono marginali, ma rivoluzionano sotto ogni aspetto la figura nichilistica di Tange Sazen. In questo film infatti il protagonista non è un samurai vagabondo, ma un brontolone pantofolaio alle prese con un’amante senza peli sulla lingua.

5 Kawabe Shūji, “Tange Sazen yowa”, in Seishun no kazu dake meiga ga aru: Nihon

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Anche i personaggi comprimari sono soggetti a rivisitazioni di sceneggiatura: Genzaburō, dal nobile spadaccino qual era nel romanzo, diventa una macchietta priva di qualsiasi abilità manuale e totalmente sottomessa alla moglie Hagino. Infine, lo spazio dedicato ai duelli con la spada è molto ridotto rispetto ad altri jidaigeki contemporanei: si contano quattro scene di lotta, per un totale di tre minuti sui 91 dell’intero film.6 Le proteste della vedova Hayashi sono dunque comprensibili, almeno per quanto riguarda la fedeltà al romanzo.

Nonostante ciò, il risultato finale è una commedia squisita. L’interesse primario è rivolto al vaso, da tutti considerato di poco valore. Man mano che la storia prosegue, lo spettatore alla pari di Genzaburō distoglie le sue attenzioni dal recipiente e si tuffa tra i vicoli di Edo alla scoperta dei suoi abitanti. A questo punto ritorna il fattore menzogna anticipato nell’introduzione: sembra quasi che vivere a Edo implichi per forza dover mentire, e per Yamanaka non ci sono eccezioni a questa regola.

Una delle caratteristiche della commedia risiede nel ripetere di continuo lo stesso errore; questo vale anche per Hyakuman ryō no tsubo, dove i personaggi possono anche mentire più volte, ma la bugia da essi pronunciata rimane la stessa per l’intera durata della pellicola. L’esempio più lampante è dato proprio da Genzaburō: dopo aver conosciuto Ohisa, deve escogitare una maniera per prolungare all’infinito la ricerca del vaso, così da poter frequentare liberamente il circolo di tiro con l’arco dove la ragazza lavora. Di fronte a una Hagino speranzosa di ritrovare l’agognato vaso nel giro di pochi giorni, Genzaburō smonta le sue aspettative rispondendole che Edo è immensa, e che ci potrebbero volere anche dieci o vent’anni prima di ritrovarlo. L’effetto che Genzaburō ottiene da questa frase è proprio quello desiderato: poter rimanere fuori di casa per tutto il tempo che vuole. Nel corso della storia egli ripete la stessa identica frase alla moglie per ben quattro volte, con risultati non sempre soddisfacenti, specialmente dopo lo smascheramento del flirt.

Ad ogni modo, anche il giovane samurai è vittima degli inganni altrui: infatti sia l’emissario del fratello maggiore, sia un domestico della casa di Edo cercano di approfittare di lui. Procedendo con ordine, il primo dei truffatori è Kō Dainoshin, vassallo del daimyō di Yagyū. Durante i primi minuti della pellicola si assiste alla partenza di Dainoshin per Edo, nel tentativo di recuperare il vaso prima che Genzaburō possa venire a conoscenza del suo segreto; qualche istante più tardi lo si ritrova mentre discute con il novello sposo.

Nella scena introdotta qui sopra, un’immobile macchina da presa riprende Genzaburō a sinistra e Dainoshin a destra; in secondo piano si nota un paravento la cui linea verticale separa idealmente i due personaggi.

6 In molte versioni del film i duelli sono soltanto tre; questo perché un’intera sequenza di circa 21 secondi era stata eliminata dopo la Seconda guerra mondiale. Per molti anni considerata perduta, ne è stata ritrovata di recente una copia non sonorizzata.

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57 Dainoshin si prostra più volte, e al suo inchino segue un primo piano di Genzaburō che informa lo spettatore del suo stato d’animo, una via di mezzo tra l’incredulo e lo spazientito. Non vi sono invece riprese ravvicinate di Dainoshin, di modo che non si possano cogliere le espressioni del suo viso: questo semplice espediente sottolinea ancora di più l’intento subdolo del personaggio. Inoltre, a ogni inchino la figura di Dainoshin si allunga verso il centro della scena, fino a superare quell’ideale linea verticale rappresentata dal paravento. Ed è infatti proprio in quel momento che Genzaburō decide di congedare quell’ospite così riverente. Il ruolo di Kō Dainoshin termina con il negoziato fallito: partito per Edo con la missione di ingannare Genzaburō e riprendersi il vaso, è costretto invece a confessare il segreto sotto la minaccia di venire malmenato dagli allievi della palestra di Hagino.

Il secondo truffatore si incarna nel ruolo di Yokichi, un domestico in servizio presso la dimora di Genzaburō e consorte. Ogni mattina esce di casa al seguito di Genzaburō, ma dopo pochi metri i due si separano; il samurai compra il silenzio di Yokichi e si dirige verso il circolo di tiro con l’arco. Yokichi, dal canto suo, prosegue le ricerche da solo, non nelle veci del suo padrone, bensì per conto del fratello maggiore. Al contrario di quanto avviene per il personaggio di Dainoshin, Yokichi gode di maggiore libertà all’interno della trama, proprio in virtù della sua molteplice natura: egli infatti inganna Hagino, perché non le rivela le vere intenzioni del marito, inoltre tradisce Genzaburō lavorando al servizio della squadra avversaria.

I tre personaggi esaminati fino a questo momento perseguono un determinato obiettivo (la riconsegna di un oggetto per Dainoshin, la possibilità di guadagno da parte di più padroni per Yokichi, la scappatella amorosa per Genzaburō), e mentono affinché questo venga portato a compimento. Essi sono consapevoli del proprio inganno, sanno di mentire, ma lo fanno esclusivamente per raggiungere quello scopo che si sono preposti. Nel caso in cui le loro intenzioni vengano smascherate, la punizione che li attende è assai leggera (di nuovo, il rischio di subire violenza per il primo, il licenziamento dalla casa di Genzaburō per il secondo, temporanei arresti domiciliari per il terzo).

Il fattore comune dei tre personaggi elencati qui sopra risiede nell’appartenere, in maniera più o meno diretta, alla classe sociale dei samurai. Diverso invece è il destino per chi non ne può far parte, così come è diversa la modalità con cui opera la menzogna in questo caso. L’ultimo truffatore della storia è il modesto Shichibei, il padre di Yasu. Shichibei svolge la professione di venditore ambulante, attività che non gli consente uno stile di vita dignitoso: tutto ciò che possiede si riassume in una sgangherata baracca sopra la quale troneggia l’insegna “I migliori articoli del mondo”. Al circolo di tiro con l’arco egli si fa passare per un ricco imprenditore, proprietario di un immenso negozio nel quale lavorano commessi e apprendisti.

Shichibei non ricava nulla da una bugia di questo tipo, e il suo intento non è certo quello di vantarsi davanti alle belle inservienti che ascoltano le

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sue storie. Semplicemente, il venditore utilizza l’espediente della menzogna come fuga dalla realtà: non si rende nemmeno conto di raccontare un sacco di frottole, come invece accade per gli altri personaggi della pellicola. Per Shichibei la menzogna è parte integrante del suo modo di parlare, è parte integrante del suo carattere: non vi sono distinzioni tra il vero e il falso in ciò che dice, o meglio, non esiste una netta demarcazione.

Per comprendere meglio il concetto, si possono paragonare fra loro le modalità di ripresa dei quattro personaggi menzionati. Si è già visto il caso di Dainoshin, il cui dinamismo tende a oltrepassare la barriera immaginaria posta tra lui e il suo interlocutore. Quando Genzaburō mente alla moglie, invece, Yamanaka riprende l’attore in primo piano o in piano americano; a Yokichi infine è affidata l’unica sequenza in soggettiva dell’intera pellicola. Queste tipologie di ripresa sono da considerarsi delle eccezioni all’interno del film: nella maggioranza di casi, infatti, la macchina da presa è statica, posta su un piano perpendicolare rispetto alla scena in modo da riprendere nella loro interezza personaggi e ambientazioni. Si notino le differenze tra la fig. 1 e la fig. 2.

Nella fig. 2 Shichibei sta spudoratamente mentendo davanti a Ofuji, Ohisa e a un altro cliente; eppure la scena viene filmata con distacco, come se il regista stesse riprendendo la quotidianità dei personaggi. Proprio per questo motivo la bugia del venditore ambulante entra a far parte di un contesto più ampio, quale può essere una giornata ordinaria degli abitanti di Edo. Al contrario, il piano americano nella fig. 1 interrompe il classico stile narrativo di Yamanaka, e lo spettatore è portato a riconoscere un secondo fine nello sguardo di Genzaburō.

Note conclusive su Tange Sazen

Dei tre film rimasti, Hyakuman ryō no tsubo è l’opera più dinamica. Sebbene la regia classica di Yamanaka risieda nel tenere fissa la macchina da presa,7 in questa pellicola sono comunque presenti un discreto numero di carrellate e panoramiche, oltre alla già citata soggettiva. Ad ogni modo, sono del tutto assenti primissimi piani o zoomate dell’obiettivo, e tale caratteristica accompagna la produzione filmica del regista fino alla sua ultima opera. Nel corso dei due anni successivi Yamanaka ridurrà ai minimi termini gli spostamenti della macchina da presa, semplificando così il suo linguaggio cinematografico. In altre parole, questo significa che saranno maggiormente presenti le menzogne di Shichibei piuttosto che quelle di Genzaburō; parafrasando il discorso, l’interesse del regista sarà rivolto al semplice cittadino di Edo, e in misura inferiore all’universo dei samurai.

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Trama di Kōchiyama Sōshun

La bella Onami e il vivace fratello Hirotarō gestiscono un locale dove si serve sake dolce all’interno di un quartiere commerciale di Edo; ma Hirotarō spesso abbandona la sorella durante le ore di lavoro per dedicarsi al gioco d’azzardo. La condotta ribelle del ragazzo e la sua immaturità sono fonte di innumerevoli preoccupazioni per Onami. Hirotarō, infatti, sottrae al samurai Kitamura Daizen il suo stiletto per poterci ricavare qualche ryō; inoltre, convince la prostituta Michitose a morire assieme a lui, lasciandola però da sola al momento di gettarsi nel fiume. In entrambi i casi Onami è costretta ad assumersi le responsabilità per le azioni del fratello; tuttavia le sue disponibilità finanziarie non le permettono di risarcire il boss yakuza Moritaya, che pretende 300 ryō per la morte della protetta Michitose.

Fortunatamente, i due fratelli hanno dalla loro parte Kōchiyama Sōshun, personaggio fuori dal comune dedito al libertinaggio e al gioco d’azzardo; assieme alla gelosissima amante Oshizu e al rōnin Kaneko, Sōshun difende Onami e Hirotarō dalle grinfie di Moritaya e dei suoi sgherri. I tre eroi arrivano a sacrificare la propria vita per far sì che i due ragazzi possano sfuggire al loro triste destino.

Kōchiyama Sōshun – Due modi diversi di essere bugiardo

La pellicola è importantissima dal punto di vista storico perché è uno dei primi film in cui recita l’attrice Hara Setsuko.8 Per quanto riguarda invece l’opera in sé, essa è la meno significativa, largamente ignorata anche dalla critica. Nonostante lo scarso successo, Kōchiyama Sōshun rimane un film valido: la trama è articolata e il tocco di Yamanaka si riconosce nelle inquadrature fisse e nella schiettezza dei dialoghi. Ha il difetto di non riuscire a distaccarsi dagli altri jidaigeki di quel periodo: il benefattore che si sacrifica per salvare la gente bisognosa non rappresentava di certo una novità negli anni Trenta.

Si può considerare questo Kōchiyama Sōshun come un’opera di passaggio dalla commedia brillante del 1935 al dramma pessimistico del 1937. In Hyakuman ryō no tsubo la casta dei nobili samurai svolgeva un ruolo importante all’interno della trama, mentre in questo film essa viene rappresentata da un unico personaggio, il cavilloso Kitamura Daizen. Al contrario, guadagnano maggiore libertà d’azione la gente comune e il micro-universo degli yakuza. Anche il concetto di menzogna come parte integrante della quotidianità del cittadino di Edo viene approfondito, sia a livello verbale,