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Federica Carlotto

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Questo intervento si propone di analizzare il rapporto tra la moda made

in Italy e il Giappone mediante una prospettiva che consideri gli oggetti

come strumenti di analisi delle strutture sociali e dei meccanismi culturali del contesto di appartenenza o di fruizione degli oggetti stessi. Come lo studioso Arjun Appadurai sostiene in The Social Life of Things, la varietà dei diversi contesti in cui l’oggetto viene a collocarsi costituisce un collegamento tra l’ambiente sociale dell’oggetto e la sua condizione concreta e simbolica. Il contesto degli oggetti inteso dunque come questione sociale può aiutare a mettere in relazione soggetti provenienti da sistemi culturali differenti che condividono solamente i principi delle transazioni commerciali relativi agli oggetti in questione.1

Adottando tale prospettiva, la moda made in Italy e la realtà socio-culturale italiana così come si è sviluppata possono costituire un valido punto di partenza per analizzare il modo in cui i giapponesi l’hanno percepita e rilevare gli elementi che, transitando da un contesto all’altro, hanno subito una sorta di mutazione perdendo il loro valore originale e assumendone altri. Un fattore che interviene in maniera determinante nella valutazione del fenomeno della moda made in Italy in Giappone, come avremo modo di osservare, è costituito dalla concezione giapponese del mondo materiale.

La moda made in Italy: origini e mito

Al fine di analizzare il rapporto tra la moda made in Italy e Giappone, è stata necessaria un’indagine preliminare sulla moda italiana, ad esempio

1 Arjun Appadurai (ed.), The Social Life of Things. Commodities in Cultural Perspective, Cambridge University Press, New York 1986. Un altro testo molto interessante per un approccio sociologico al mondo materiale è Mary Douglas, Baron Isherwood, Il mondo delle

cose, Il Mulino, Bologna 1979.

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chiarendo il significato dell’espressione made in (il cosiddetto concetto di

Country Branding ), che nel caso della moda si concretizza in made in Italy, made in France, made in USA.2 Altrettanto necessaria è apparsa l’analisi del distretto italiano, inteso come rete di rapporti che, attraverso la tradizione della bottega artigiana e della piccola e media azienda a conduzione familiare, si è nel tempo consolidata e sviluppata fino a divenire l’identità produttiva della moda italiana.3 Ciò ha consentito di ricostruire la storia del concetto di moda made in Italy, che venne a formarsi negli anni ’50 grazie all’iniziativa di Giovan Battista Giorgini,4 un buyer di prodotti artigianali italiani per conto dei grandi department stores statunitensi che, oltre a promuovere la realizzazione di una moda concorrenziale per qualità e creatività rispetto a quella francese, confezionò anche un’immagine di moda italiana che potesse rappresentarla con successo, soprattutto all’estero.

Cerchiamo ora di individuare gli elementi costitutivi dell’identità della moda made in Italy così come vengono proposti in cataloghi, pubblicazioni di settore, o riviste di moda. Come si diceva, l’immagine della moda italiana viene elaborata negli anni ’50 in riferimento a un mercato estero: in questo periodo infatti le creazioni sartoriali sembrano legarsi indissolubilmente al paese della “Dolce vita” e alle sue magiche atmosfere. Prendiamo ad esempio un’immagine della rivista Novità del 1952 (fig. 1) in cui il patrimonio storico-artistico costituisce lo sfondo suggestivo per le creazioni di moda, oppure

2 Erica Corbellini, Stefania Saviolo, La scommessa del Made in Italy e il futuro della

moda italiana, Etas Libri, Milano 2004. Il Country Branding è l’espressione a livello

materiale della sinergia tra gli elementi che danno forma all’identità di un determinato paese: attraverso la forma che gli oggetti assumono e l’immagine che li connota, essi esprimono in ultima analisi i valori della società che li produce. Sulla base di tre degli aspetti che caratterizzano il Country Branding (forma, immagine degli oggetti, valori sociali), Corbellini e Saviolo sviluppano un’analisi comparativa dei tre made in nell’ambito della moda. Ibidem, p. 28.

3 Molti sono i testi che analizzano la struttura, lo sviluppo e la realtà dei distretti italiani e delle piccole e medie imprese (segnaliamo qui Curzio Alberto Quadro, Mario Fortis, Il made in Italy oltre il 2000. Innovazione e comunità locali, Il Mulino, Bologna 2000 e Giacomo Beccatini, Distretti industriali e made in Italy, Bollati Boringhieri, Torino 1998) che però tralasciano di considerare la dimensione socio-culturale legata ai distretti. Uno studio interessante che mette in relazione struttura familiare, legame territoriale e sviluppo imprenditoriale in Italia è Massimo Paci, La struttura sociale italiana, Il Mulino, Bologna 1982.

4 “Venticinque anni d’esperienza come agente d’acquisto per gli States, come occhio dei negozi, dei grandi magazzini americani sull’artigianato tricolore, come ambasciatore del bello, del raffinato, del fatto a mano hanno dato a Giorgini antenne sensibilissime nel captare i bisogni del mercato d’oltreoceano, le tendenze dei consumi, le onde del gusto, quel che di nostro laggiù avrebbe potuto attecchire”. Guido Vergani (a cura di), Dizionario della

moda, Baldini e Castaldi Dalai Editore, Milano 2004, p. 512. Sono anche riportati i dettagli

delle circostanze che portarono alla nascita della moda italiana e le diverse iniziative di Giorgini per favorirne lo sviluppo.

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121 un altro servizio, realizzato nel 1951 per la rivista Linea Maglia, intitolato significativamente “La moda e le vacanze che gli stranieri preferiscono” (fig. 2): sullo sfondo, si possono notare poster che pubblicizzano note località di villeggiatura. Anche alcuni elementi peculiari del sistema produttivo della moda made in Italy sono stati efficacemente convertiti in immagini patinate: la famiglia come identità nella tradizione e stimolo all’innovazione (fig. 3), e l’artigianato, storicamente ricondotto all’attività della bottega rinascimentale ma che rivive ancora oggi sui cataloghi delle grandi case di moda (fig.4) .

La moda made in Italy in Giappone

Se dunque la moda made in Italy si è costituita grazie alla sapiente rielaborazione mediatica di componenti attinte dalla tradizione storico-artistica italiana, passiamo ora a considerare quali sono i fattori che hanno maggiormente caratterizzato e influito sul rapporto tra la moda made in Italy e il Giappone. Tre sono gli aspetti che a mio parere devono essere presi in considerazione: l’apertura di punti vendita da parte dei marchi made in Italy in Giappone, i viaggi dei giapponesi in Italia e la diffusione delle riviste.

La moda made in Italy compare in Giappone dalla seconda metà degli anni ’90, quando i grandi marchi occidentali cominciano a investire sul mercato giapponese aprendo i propri punti vendita: tra i primi si possono ricordare Gap (marchio casual statunitense), Yves Saint-Laurent, Luis Vuitton, Hermès (grandi firme francesi) , Zara (marchio spagnolo) e gli italiani Etro e Benetton.5

Un secondo fattore (questa volta endogeno), che contribuisce a creare i presupposti per un approccio diretto dei giapponesi alla moda occidentale, e in particolare alla moda italiana, è il viaggio all’estero,6 che introduce nella

5 Gap compare sul mercato giapponese nel 1995, Vuitton apre un primo punto vendita a Ōsaka nel 1998 per poi ampliare successivamente la propria rete di vendita a Fukuoka e Nagoya, mentre Hermès inaugurerà la propria attività a Ginza nel 2001. Per quanto riguarda l’Italia, oltre a Etro e Benetton, penetrano nel mercato giapponese durante la seconda metà degli anni ’90 anche Max Mara (a Ginza) e Prada (ad Aoyama). La progressiva diffusione dei marchi occidentali in Giappone si deve soprattutto al vuoto temporaneo che si era creato nel commercio dopo lo “scoppio della bolla”. Mentre molte aziende giapponesi erano impegnate a sanare i bilanci, i gruppi stranieri riuscirono, mediante la costituzione di gruppi corporativi, ad aprire negozi posizionandoli in zone che avevano perso circa un quarto del loro valore rispetto al periodo del boom economico. A questo si aggiunge che all’epoca il mercato dei consumi giapponese, con un tasso di spesa di 20.000 dollari procapite, rappresentava un banco di prova imprescindibile per qualsiasi gruppo, giapponese o straniero. Matsuo Takeyuki, Shinpan zukai apareru gyōkai handobukku (Manuale delle imprese nel settore moda), Tōyō keizai shinpōsha, Tōkyō 2004, pp. 13-14.

6 Da un punto di vista sociologico il viaggio all’estero entra a far parte della cultura dei consumi giapponesi dagli anni ’80 in poi. Rispetto alle pratiche di consumo registrate negli anni ’70, che puntavano al soddisfacimento di bisogni materiali (mono no yutakasa 物の豊かさ, il benessere materiale), gli anni ’80 introducono invece nell’ambito dei consumi

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società giapponese il concetto di tempo libero e che, unito all’apprezzamento dello yen sul dollaro garantito dagli accordi del Plaza Hotel del 1985,7 provoca durante la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 un vero e proprio boom del turismo, che si orienta sempre più verso i paesi, o le capitali dei paesi, delle grandi firme della moda, primi tra tutti Francia e Italia; un fattore questo che determinerà così il concetto di turismo come consumo indifferenziato di cultura e oggetti. Secondo un sondaggio pubblicato nel 1990, infatti, ben il 93,3% delle cosiddette office ladies recatesi nei paesi europei, aveva acquistato abiti e accessori di firma.8

Altro importante veicolo è la diffusione delle riviste di moda e delle pubblicazioni specialistiche nel settore. In realtà tale fenomeno è cronologicamente antecedente agli altri due citati dato che la diffusione di riviste e pubblicazioni prende avvio attorno alla metà degli anni ’70.9 In particolare mi sembra interessante soffermarmi proprio su quest’ultimo aspetto, per analizzare l’identità che la moda made in Italy assume all’interno del contesto mediatico giapponese.

Il primo esempio è tratto da un catalogo pubblicato nel 1984 a cura dell’Istituto italiano del Commercio Estero (d’ora in avanti ICE) in Giappone

uno stile più raffinato e sottile (kokoro no yutakasa 心の豊かさ, il benessere spirituale) che si concretizza proprio nell’appagante fruizione del tempo libero. L’inaugurazione in Giappone di Disneyland (avvenuta nel 1983) e dei parchi di divertimento tematici come il Nagasaki Oranda mura 長崎オランダ村, oltre ai viaggi all’estero (spesso organizzati in pacchetti con soggiorni in resorts di lusso) cominciano a offrire al consumatore la possibilità di sperimentare mondi “altri”, nel tempo e nello spazio. Ōhashi Terue, “Shōhi chōseijuku shōhi shakai no kaitekishōhi shikō”, in Shiobara Tsutomo et al. (a cura di), Gendai Nihon

no seikatsu hendō 1970nen ikō (I cambiamenti nella società giapponese odierna dal 1970 in

poi), Sekaishisōsha, Tōkyō 1991, pp. 35-45.

7 In seguito a tali accordi, lo yen si apprezzò da 249 a 128 per dollaro (dati del 1988). Jean-Marie Bouissou, Storia del Giappone contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 255-256.

8 Nakae Katsumi, Dēta de yomu 90 nendai no seikatsu torendo. Nihonjin no atarashii

seikatsu wo yosoku suru (Le tendenze degli stili di vita degli anni ’90 letti attraverso i dati

statistici. Anticipazioni sul nuovo stile di vita giapponese), Taiyō kikaku shuppan, Tōkyō 1990, pp. 136-138. Come il già citato Gendai Nihon no seikatsu hendō 1970nen ikō riporta, sembrano essere proprio le giovani donne le protagoniste di questo fenomeno sociale. Esse infatti “rispetto a tutte le altre fasce d’età presentano un senso estetico personale più raffinato e un maggiore impulso all’autorealizzazione. Le fasce di età più giovani, inoltre, sono relativamente più propense all’ innalzamento delle proprie condizioni di vita”. Ōhashi Terue, in Shiobara, Gendai Nihon no seikatsu hendō 1970nen ikō, cit., p. 37.

9 Le riviste di moda che ancora oggi costituiscono un punto di riferimento per la comunicazione della moda in Giappone (An an, Nonno, JJ, Popeye, MORE ) iniziarono a essere pubblicate proprio tra il 1970 e il 1977. Akurosu henshūshitsu (a cura di), Street

Fashion 1945-1995. Wakamono sutairu no 50nen shi (Street Fashion 1945-1995. 50 anni di

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123 (fig. 5). Come si può notare, viene sostanzialmente riproposto il suggestivo accostamento tra moda e Bel Paese così come era stato concepito negli anni ’50.

Qui notiamo che alcuni elementi costituitivi dell’identità che la moda made

in Italy ha per così dire all’origine si ritrovano nella pubblicità giapponese

come “elementi suggeriti”, soprattutto nel caso di grandi marchi (fig. 6). La pubblicità di Bruno Magli apparsa su Vogue Nippon del 2001, ad esempio, riporta sulla parte inferiore a sinistra, lo slogan “Bruno Magli. L’artigianalità italiana” (Itaria no teshigoto. Buruno Mari ,イタリアの手仕事。ブルノ・マリー ).

Un’altra campagna pubblicitaria ICE in Giappone e significativamente pubblicata su Vogue Nippon tra il 2003 e il 2004, mostra un’ulteriore elaborazione mediatica della moda italiana (fig. 7). L’intento principale della campagna è di presentare i consorzi del settore alimentare (in particolare della pasta, del vino, dei formaggi e del prosciutto), tuttavia l’evidente riferimento alla moda sembra affermare la forza del made in Italy come concetto in grado di superare qualsiasi suddivisione merceologica e costituirsi, mediante un continuo gioco di rimandi, come nuova identità collettiva.

Un made in Italy giapponese?

Cerchiamo ora di ricostruire il contesto generale in cui questi aspetti della moda made in Italy vengono recepiti ed interpretati: a tal fine ho effettuato un rilevamento su un campione di 350 adulti (area di Tōkyō) di varia età ed estrazione sociale. Ho tuttavia preferito selezionare attentamente il territorio di appartenenza del campione, in maniera da poter ottenere una certa omogeneità. Sono state escluse dunque le zone all’interno della linea Yamanote, che sono per lo più zone di transito, a favore invece di quartieri residenziali le cui strutture pubbliche contribuiscono a creare un più marcato senso di comunità. Un esempio è rappresentato dal quartiere di Setagaya 世田谷, a venti minuti circa da Shinjuku: nello spazio di poche centinaia di metri infatti si trovano un asilo, una scuola elementare, due scuole superiori, un parco, tre club sportivi e delle aree comuni gestite da gruppi di volontari.

I temi che mi proponevo di verificare riguardano sostanzialmente la percezione che hanno i giapponesi dell’Italia, la categoria merceologica che più identifica il made in Italy e infine la moda made in Italy, ovvero le peculiarità che la caratterizzano come oggetto di consumo e a livello di immagine, e il valore che le viene attributo.10

10 Undici sono state le domande tramite cui l’inchiesta si è articolata. Nella sezione che riguarda l’Italia come Paese, è stato chiesto: 1) Qual è l’immagine che connota secondo Lei l’Italia? 2) Si è mai recato/a in Italia? 3) Quale fonte di informazione consulta per ottenere informazioni sull’Italia? 4) Tra i vari settori in cui l’Italia si è affermata, quali sono le Sue aree di interesse? La seconda sezione si compone di un’unica domanda: 5) Quale categoria merceologica designa secondo Lei il made in Italy? L’ultima sezione si

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Volendo sintetizzare lo scenario che le risposte descrivono, si può affermare che il campione di giapponesi intervistato non sembra di necessità identificare la moda made in Italy con il Paese Italia, a differenza da quanto suggerito dalle immagini delle riviste e dei cataloghi dove tale identificazione appare essere invece immediatamente fruibile. Tra gli aspetti costitutivi dell’immagine dell’Italia, infatti, troviamo i paesaggi, l’arte, il buon mangiare, ma non la moda. Va comunque rilevato che chi ha avuto un contatto diretto con la realtà italiana mostra di avere della moda made in Italy una concezione più dettagliata e dinamica.

Per quanto riguarda la categoria merceologica maggiormente rappresentativa del made in Italy, i giapponesi scelgono la moda, e per la precisione, i capi di abbigliamento rispetto a borse e scarpe. Il cibo figura al secondo posto. Un risultato che sorprende, soprattutto se si considera che i dati dell’ICE sulle importazioni dei prodotti italiani relative al semestre 2006 (periodo in cui il rilevamento è stato effettuato) mostrano una flessione sia nell’importazione del vestiario sia degli accessori in cuoio (che scendono rispettivamente del 6,57 e 1,21% rispetto al primo semestre del 2005), mentre il settore alimentare registra un aumento del 5,61%.11

Caratteristiche e immagini della moda made in Italy invece sembrano muoversi specularmente su un doppio binario, quello del lusso e del design dell’oggetto, che evoca di conseguenza l’esclusività della firma del grande stilista o del lavoro artigianale. Del tutto ininfluente ai fini della valutazione degli oggetti di moda è il luogo di produzione: il made in Italy sembra aver assunto le caratteristiche di un vero e proprio brand, nella misura in cui i giapponesi intervistati affermano di essere disposti a pagare un prezzo più alto se il capo di moda è made in Italy.12

Astrazione del marchio e rilevanza dell’oggetto

Sulla base di alcuni degli aspetti che lo studio delle immagini pubblicitarie e il sondaggio hanno evidenziato, si può concludere che nel caso del made in

Italy si stia consumando un processo che vede da una parte il progressivo

distacco tra moda e Italia, e contemporaneamente una tendenza all’astrazione

incentra più specificatamente sulla moda made in Italy: 6) Elenchi quali sono a Suo parere le caratteristiche peculiari della moda made in Italy come prodotto. 7) Elenchi quali sono a Suo parere le caratteristiche peculiari della moda made in Italy a livello di immagine. 8) Secondo Lei, è ragionevole pensare a un prezzo più alto per la moda made in Italy? 9) Se sì, perché? Un’altra sezione riguarda i consumi dei giapponesi inerenti il prodotto moda, per poter meglio collocare le risposte del campione: 10) Considera importante per un prodotto moda il luogo di produzione? 11) Quali sono gli aspetti che per Lei sono importanti per l’acquisto di un prodotto moda?

11 Statistiche attinte dal sito www.ice.gov.it

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125 del marchio made in Italy stesso, riscontrabile anche in ambito pubblicitario: come la recente campagna ICE evidenzia, al binomio moda-paesaggio si sostistuisce un’interpretazione più complessa che vede la moda come parte di un’identità collettiva di cui il marchio made in Italy stesso è garante.

È il marchio made in Italy dunque a costituirsi come fattore di identità per la moda. Se i giapponesi infatti sembrano sostanzialmente ignorare, o considerare come fattore secondario il luogo di produzione del prodotto, riconoscono al marchio made in Italy il valore di brand. A questo processo di allontanamento dal territorio e di astrazione del marchio (fenomeno non legato soltanto alla realtà giapponese), si accompagna anche un altro aspetto piuttosto interessante nella valutazione del fenomeno moda made in Italy in Giappone, ovvero la rilevanza e l’importanza dell’oggetto di per sé: design, colore e materiali sono le caratteristiche cui i giapponesi sembrano prestare attenzione in un oggetto di moda, ancor prima di considerare altri aspetti pratici e legati solo indirettamente a esso, come il prezzo o la comodità. A questo va aggiunta l’attenzione che i giapponesi prestano alla buona qualità dei prodotti made in Italy, ritenuta per il 30% del campione intervistato la ragione principale che ne giustifica il prezzo più alto.

Tornare ad analizzare il contesto in cui i giapponesi sono entrati in contatto con il made in Italy può contribuire a far luce sul motivo per cui la moda

made in Italy sia stata connotata mediante una determinata combinazione

di elementi: la buona qualità, intesa come la scelta accurata dei materiali, il tipo di lavorazione, il lusso (quell’unicità garantita dalla firma dello stilista ma anche dal lavoro artigianale), la varietà delle proposte.

Come precedentemente accennato, le italiane Etro e Benetton sono state le prime due aziende ad aprire il proprio punto vendita in Giappone insieme alla spagnola Zara, all’americana Gap e alle francesi Yves Saint-Laurent, Hermès, Luis Vuitton: certamente i due marchi del made in Italy seguono filosofie diverse, Benetton punta sulla dimensione giocosa del quotidiano attraverso la varietà dei colori e dei prodotti, che un sistema di produzione particolare, il cosiddetto “tinto in capo”,13 riesce a garantire. Nel caso di Etro14

13 Benetton è l’azienda di maglieria e moda pronta fondata nel 1965 a Ponzano Veneto dai fratelli Luciano, Giuliana, Gilberto e Carlo Benetton. Da piccolo laboratorio artigianale specializzato in maglieria, oggi (dati del 2003) il Gruppo Benetton è presente in 120 Paesi e produce oltre 100 milioni di capi d’abbigliamento all’anno. Vergani, Dizionario della moda, cit., pp. 110-113. Il tinto in capo, ovvero la tintura quando il capo è finito, permette di rispondere in maniera tempestiva alle esigenze del mercato e di adeguarvi velocemente la produzione, diminuendo così la possibilità di rimanenze e invenduti.

14 Etro inizia la propria attività nel 1968 con la produzione di tessuti di abbigliamento,