3. I CARATTERI DELLE PRIME SCRITTURE AUTOBIOGRAFICHE
3.2 PROSPETTIVE D’INDAGINE: DAL PIANO TEORICO‐FORMALE
3.2.1.2 CASI STORICI E MODERNI DI AUTOBIOGRAFIE IN COLLABORAZIONE
3.2.1.2 CASI STORICI E MODERNI DI AUTOBIOGRAFIE
IN COLLABORAZIONE
Gnisci arriva infine a chiamare in causa «una delle prime opere della nostra letteratura» ovvero Il Milione di Marco Polo. Il Milione è una trascrizione in lingua
d’oil fatta dal letterato pisano Rustichello da Pisa delle storie e delle confidenze del suo compagno di carcere veneziano Marco Polo al Palazzo San Giorgio di Genova.
L’originale in lingua d’oil è andato perso, restano invece le traduzioni fatte in tutte le
lingue, compresa quella latina e quella italiana. Un libro dunque «composto da una
coppia e da un lavoro di collaborazione, di trascrizione e di traduzione; un libro senza originale»66. Gnisci nota che proprio da questa operazione complessa, che molto
potrebbe condividere con le collaborazioni che noi ora stiamo prendendo in esame,
è nato un testo celeberrimo che apriva le menti europee ‐attraverso uno sguardo curioso e indagatore‐ al lontano Oriente e che ha contribuito a segnare il tramonto dell’epoca medievale67.
Seguendo la ricca analisi68 che Franco D’Intino porta avanti sulle autobiografie dei secoli passati, scopriamo che casi di scritture ‘a quattro mani’, oltre a quella celeberrima appena citata, non sono certo mancate. E non sono mancate a loro volta dubbi sulla effettiva paternità dell’opera. 65 Ivi, p.509 66 Ivi, p.513 67 Ibidem 68 D’INTINO, Franco, L’autobiografia moderna; storia, forme e problemi, Roma, Bulzoni, 1998
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Come la stessa opera di Marco Polo, pure molte delle autobiografie medievali, rinascimentali e anche moderne (se pur in forma più rara) a cui ora faremo riferimento sono stese in terza persona: ecco dunque che i confini fra storiografia, biografia e autobiografia diventano labili e incerti. Il narratore guarda sé stesso dall’esterno, da un punto di vista che si vuole obiettivo, per intenti che possono essere apologetici, solennemente autocelebrativi o anche ironici (si veda
L’educazione di Henry Adams dell’omonimo scrittore)69.
Dal Medioevo al Settecento per esempio si sono diffuse moltissime autobiografie di religiosi e religiose scritte per mano di un copista a partire dal racconto orale o appunti scritti dell’interessato: il suo intervento era necessario per via
dell’analfabetismo del soggetto del libro. O meglio: succedeva generalmente che le
autorità richiedevano le biografie di membri eminenti di comunità religiose (per lo più monache) e le commissionavano all’interessato stesso e ad un ‘aiutante’ prete. Il
prete componeva il testo basandosi sulla base delle conversazioni avute in confessione o dei testi redatti dalle stesse biografate (o anche da consorelle). Sono tutti casi in cui il passaggio dalla voce alla carta non è indolore, e rende incerta l’attribuzione del testo: quanto spetterà a chi racconta e quanto a chi scrive?70 Per esempio la vita di suor
Maria Crocifissa dei Tomasi è stata redatta per volere del vescovo agrigentino F. Raminez e per mano del canonico Girolamo Turano; la sua pubblicazione risale al
1704. Turano rielaborò un ricchissimo archivio di scritti di pugno della benedettina ‘commissionati’ in vista della futura stesura di un racconto agiografico che ne avrebbe facilitato la canonizzazione. In molti altri casi il testo era appunto dettato, e dunque si potrebbe supporre autenticamente autobiografico, se esso non mostrasse tracce più o meno evidenti di un inevitabile conflitto. Margery Kempe, per esempio ‐ scrittrice ed eremita inglese, conosciuta per aver fatto scrivere il Libro di Margery Kempe degli anni trenta del 1400, considerato la prima autobiografia in lingua inglese‐ narra le vicissitudini per la disperata ricerca di uno scrivano affidabile e rispettoso. D’Intino
69 Ivi, p. 145
70
accenna a molti altri casi (Elisabetta da Shonau, Caterina da Siena ecc.) e osserva:
Difficile è stabilire cosa avvenire al momento del passaggio dallo stato inconscio del rapimento estatico a quello della parola scritta. La critica tende a insistere sul conflitto di autorità, soprattutto nei casi in cui la voce femminile è trascritta da una penna maschile o, come dice Prosperi (Lettere Spirituali, p.229) a invocare una «opposizione costituzionale tra esperienza mistica e scrittura»71.
Arrivando all’Ottocento, e quindi in piena modernità, D’Intino cita le autobiografie dei pionieri americani, molte delle quali di dubbia autenticità (David Crockett, Kit Carson, Buffalo Bill). A differenza delle autobiografie di religiosi e religiose, qui l’autore non si appropria indebitamente anche dell’altra metà del lavoro di stesura svolto da un anonimo copista, bensì è costretto a venire a patti con dei ‘professionisti del biografico’ che vogliono comparire fra gli autori del racconto. Si
mette così allo scoperto la contraddizione del rapporto di collaborazione nella stesura autobiografica, dunque la nozione di autore. Sono questioni che non riguardano solo
la trascrizione del testo, ma anche della stessa eventuale traduzione, della trasmissione e della pubblicazione eseguita da un complesso sistema letterario‐ editoriale72.
Nel Novecento il settore più interessante da questo punto di vista è quello delle indagini storiche (su una categoria professionale, su una classe sociale, ecc.) che di documenti autobiografici o di testimonianze orali si avvalgono. L’interferenza avviene
nello spazio delle intenzioni, ed è per questo, come nel caso dei rapporti tra monaca e confessore, assai poco verificabile. E’ dunque ancora molto difficile stabilire a quale livello (della concezione, della stesura, della pubblicazione) si verifichino interferenze tra l’immagine dell’autore e quella del suo alterego73.
In questo modo ‐riflette D’Intino‐ è consentita l’entrata nel mercato
71 Ivi, p.97 72 Ivi, p.100 73 Ivi, p.99
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autobiografico a un grande numero di persone –anche illetterati e analfabeti‐ che non avrebbero probabilmente mai pensato di praticare questo genere o non sarebbero comunque mai arrivate a pubblicare i propri testi
Danilo Montaldi per esempio fu il curatore di Autobiografie della leggera74 edito nel
1961, una raccolta di testi autobiografici di vagabondi, ex‐carcerati, ladri e prostitute75. Montaldi, nel suo intervento, vorrebbe dimostrare che le autobiografie potrebbero essere uno strumento di analisi sociologica ed è molto polemico, fra l’altro, con i fautori del genere autobiografico, che a suo avviso non esiste. Se esso non esiste non esisterebbe neppure alcuna influenza sugli scriventi che annotano le fonti orali. Ma Montaldi tuttavia tace sulle pressioni dell’editore‐curatore che possono essere non meno obbliganti dei modelli letterari. Lo stesso contesto di analisi sociologica potrebbe vincolare la stesura del testo76. I testi da lui raccolti erano già stati in parte
redatti autonomamente, e in parte sono il risultato di una sollecitazione. Stesi
personalmente, o dettati, essi sono riprodotti –dichiara Montaldi‐ fedelmente, senza censure, e nulla viene alterato, nel tentativo di rispettare il linguaggio autentico degli autori: le espressioni dialettali, l’ordine (o il disordine) sintattico, l’ortografia scorretta. Non è il caso invece delle testimonianze raccolte da Nuto Revelli ne Il mondo dei
vinti77 del 1977: poco o nulla rimane sulla carta –nonostante la trasparenza simpatia
del ricercatore‐ della voce dell’intervistato, tanto profonde sono state le selezioni e le manipolazioni subite dal testo registrato:
innanzitutto le selezione dei testi, poi la lingua, l’estensione, la struttura e l’ordine del discorso, la sintassi: tutto è sacrificato alla leggibilità, da un lato, e alla funzione scientifico‐ documentaria (e politica) dell’indagine dall’altro78 74 MONTALDI, Danilo, Autobiografie alla leggera, Torino, Einaudi, 1961 75 D’INTINO, Franco, L’autobiografia moderna; storia, forme e problemi, cit., p.98 76 Ibidem 77 REVELLI, Nuto, Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina, Torino, Einaudi, 1977 78 D’INTINO, Franco, L’autobiografia moderna; storia, forme e problemi, cit., p.98
[…]un cotesto che le presta [alla voce dell’autobiografo] altri accenti e la trasforma fino a renderla irriconoscibile. Sulle copertine, a ragione, non compaiono i nomi dei ‘protagonisti’ ma quelli dei curatori‐editori79
Siamo arrivati così agli antipodi delle autobiografie religiose scritte in collaborazione tra monache e copisti: se lì l’autobiografo si impossessava del lavoro del copista e taceva sulla sua opera e sul suo nome, qui il curatore ‘soffoca’ la parola originaria e i nomi stessi degli autobiografi che gli forniscono alla fine tutto il materiale del libro! Un altro precedente storico delle autobiografie scritte in collaborazione sono sicuramente le autobiografie degli indiani d’America registrate al magnetofono. D’Intino cita il Black Elk speaks composto da John Neihard (edito nel 1961) come trascrizione del racconto dello stregone Sioux Alce Nero. Il testo è intercalato da brevi inserti memoriali di alcuni testimoni Sioux anch’essi presenti al racconto. Queste opere potrebbero essere un buon parallelo con quelli da noi analizzati: anche qui
l’intervistatore‐editore non appartiene alla stessa cultura dell’intervistato e diventa così un mediatore tra due culture. Egli svolge quella stessa «operazione
endolinguistica, interlinguistica, interculturale e intersemiotica, ‐essendo coinvolta insieme con la scrittura l’oralità interlinguistica in una forma di espressione e di comunicazione complessa ed intricata‐»80 che Gnisci ravvisava nella autobiografie di immigrati.
Altre opere scritte i collaborazioni celebri ricordate da D’Intino sono: Ricordi sogni
riflessioni (1965) scritto in parte da Jung e in parte da Aniela Jaffè in base ad appunti e
registrazioni; Testimony (1979), le memorie dettate da Dmitri Shostakovich a Solomon Volk; con espliciti intenti di ricerca socio‐antropologica, Mi chiamo Rigoberta Menchù, redatto da Elisabeth Burgos sulla base di registrazioni. Un caso particolare infine è
l’Autobiografia di Malcom X (1964), redatta con la collaborazione di Alex Haley,
poiché il lavoro ha visto una composizione del testo basata su registrazioni effettuate nel corso d una lunga serie di tempestose sedute, modalità di difficile coabitazione e 79 Ivi, p.99 80 GNISCI, Armando, Testi degli immigrati extraeuropei in Italia in italiano, cit., p.509
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collaborazione, e mille altri aneddoti sulla vita di Malcom X81.
Prosegue D’Intino sul genere analizzato richiamando Raabe ‐di cui nondimeno non cita l’opera‐ ed avanzando un generale scetticismo sul valore delle opere pubblicate di recente
Negli ultimi decenni si assiste ad un allargamento di quello che qualcuno ha chiamato «mercato del vissuto» (Raabe). Chiunque abbia esperito qualunque cosa, anche la più banale, diventa un autore potenziale di un libro di memorie «storie di vita vissuta»; e spesso questi nuovi «eroi» del nostro tempo, che non hanno né il tempo né la capacità di scrivere, si servono di giornalisti o di professionisti più o meno qualificati della parola che rimangono nell’ombra (ghost‐writers, nègres …), oppure vengono presentati con la formula «in collaborazione con …»82
Se dietro alle collaborazioni che noi prendiamo in esame ci può essere stato un contesto di interessi editoriali e politici, questo a mio avviso non pregiudica le opere.
Non stiamo certo parlando di «qualunque cosa, anche la più banale», bensì di esperienze che raccontano uno snodo epocale con cui la nostra società occidentale è tenuta i fare i conti, per uscirne diversa e –speriamo‐ migliore di prima. Su questo avremo qui l’occasione di parlarne diffusamente.
Tuttavia dobbiamo ora distinguere nella nostra sezione di opere autobiografiche i testi che a quanto pare, dalle mie ricerche raccolte e da quanto si può evincere dall’apparato paratestuale delle rispettive edizioni, non sono collaborazioni bensì
autobiografie nel senso più ‘tradizionale’ del termine, ovvero scritte a ‘due mani’ (da una sola persona). Distinguiamo così di Shirin Ramzanali Fazel e di Ribka Sibhatu da tutta la restante (e dunque precedente) produzione.