3. I CARATTERI DELLE PRIME SCRITTURE AUTOBIOGRAFICHE
3.2 PROSPETTIVE D’INDAGINE: DAL PIANO TEORICO‐FORMALE
3.2.4 UNA NUOVA CRITICA POSTCOLONIALE
3.2.4.10 RIPENSANDO LA STORIA ITALIANA ED EUROPEA
piedi»206.
Questa Italia non ha nulla a che vedere –secondo un parallelo assai calzante espresso da Gnisci‐ con quel «giardino ben coltivato, antico e luminoso, dell’Europa», quel
«luogo reale e terminale delle delizie immaginate» visitato dagli intellettuali dell’Ottocento e del Novecento «in cerca di luce, aria azzurra, profumi, antichità.
musica, bellezza, sorrisi, bizzarrie, benevolenza, naturalezza e limoni»207. Gnisci qui parla di Montaigne, Goethe, Chaucer, Stendhal, D.H.Lawrence, Henry James, Andersen, Mozart, Mark Twain, Kafka, Hemingway e tanti altri. Ecco allora che ciò che non veniva pronunciato da Goethe o da Chateaubriand emerge ora in queste che nel loro stile diretto e asciutto parlano di dolore e malvagità, sfruttamento e miseria208.
3.2.4.10 RIPENSANDO LA STORIA ITALIANA ED
EUROPEA
Nel saggio La letteratura italiana della migrazione209 Gnisci afferma che la letteratura
scritta dagli immigrati, venuti in Italia da tutto il mondo in cerca di lavoro a partire dagli ultimi decenni del Novecento, di cui queste scritture autobiografiche rappresentano gli esordi, può essere considerata il completamento di una letteratura
italiana della migrazione.
La letteratura italiana della migrazione nasce dunque con le scritture dei migranti italiani diretti verso tutto il mondo (sempre per la miseria e per trovare un lavoro) a partire dall’immediato periodo postunitario210. Bisognerebbe dunque avvicinare tutte 206 KAFKA, Franz, Il Castello, Rimini, Guaraldi, 1995, p.71 207 GNISCI, Armando, Il rovescio del gioco, cit., p.27 208 Ivi, p.37 209 GNISCI, Armando, La letteratura italiana della migrazione, in IDEM, Creolizzare l'Europa. Letteratura e Migrazione, Roma, Meltemi, 2003, pp.73‐130 210 Ivi, p. 83
queste produzioni considerandole come «un fenomeno della modernità avanzata, senza precedenti»211, «la versione italiana dell’emergere delle letterature post‐ coloniali europee della grande colonizzazione e del parlamento mondiale degli scrittori migranti che caratterizza la fine del secolo»212. L’attuale cultura della migrazione e
della così detta società multiculturale si lega dunque al nostro vicino e diverso passato migratorio di massa. Poiché, come dice il pedagogista Francesco Susi ripreso
da Gnisci213, le nostre passate migrazioni costituiscono una vicenda «che è stata rimossa dalla memoria collettiva e non costituisce un elemento significativo della coscienza nazionale», è necessario valorizzare questo nesso conoscitivo e così capire meglio noi stessi, la nostra storia, e gli altri che ci riguardano più da vicino. Secondo Gnisci, infatti, se gli italiani e la politica si trovano impreparati di fronte al fenomeno attuale degli immigrati, è anche perché hanno rimosso il travaglio migratorio post‐
unitario che riguardò ben 25 milioni di italiani che si sradicarono e si mossero per povertà e avventura verso luoghi migliori e verso tutti i mondi. Essi, con l’ondata migratoria tra il secondo Ottocento e la prima metà del Novecento, si trovarono a
lavorare in Canada, Argentina, Brasile, Australia a fianco di irlandesi, polacchi, portoghesi, neri, indiani, cinesi e indigeni. E non solo: come dimenticare la grande
migrazione interna da Sud a Nord dell’Europa negli anni Cinquanta e Sessanta?
Quest’ultima fu addirittura sollecitata dal nuovo Stato italiano con una serie di trattati che favorivano la deportazione, come quelli tra il nostro governo e quello belga (dal 1946 al 1966) per trasportare nel Limburgo e in Vallonia contadini da trasformare in minatori e importare energia (carbone)214. Le prime invece vennero scoraggiate dalla propaganda politica colonialista, sia crispina, che giolittiana, che fascista, la quale ha sempre cercato di convincere gli italiani, e poi ha loro impedito, di non andare a lavorare come iloti nelle Americhe o altrove, ma come ‘padroni’ in Africa215. 211 Ibidem 212 Ibidem 213 Ibidem 214
GNISCI, Armando, Perdurabile migranza, in IDEM, Creolizzare l'Europa. Letteratura e Migrazione, Roma, Meltemi, 2003, p.141
215
138
Arriviamo così alla seconda grande rimozione della storia italiana: il colonialismo.
Occupammo lembi e scogli europei (dall’Albania alle isole greche del così detto Dodecaneso), grandi paesi africani (l’Etiopia, la Libia, l’Eritrea e la Somalia) e perfino una postazione in Cina (una concessione al porto di Tietsin, dopo il nostro intervento armato a fianco delle potenze occidentali contro la ‘Rivolta dei Boxer’, dal 1902 fino alla fine della seconda guerra mondiale)216. E il tutto, secondo il giudizio di Gnisci, «fu una serie di imprese tardive, fallimentari in partenza e ancor di più in arrivo e perfino ancora dopo la sua fine»217. Egli ricorda, per esempio, la clamorosa disfatta di Adwa in Etiopia (1896, 7 mila soldati italiani morti); ricorda «il destino infelice nel quale si è inabissata la Somalia, da noi governata su mandato fiduciario dell’ONU dal 1950 al 1960». I potenti di allora per giustificare emigrazioni e imperialismo adottarono la menzogna ‘l’impresa coloniale è il rimedio opportuno per l’emigrazione’. L’impresa coloniale venne sostenuta sia dai governi della Destra del Regno d’Italia (Depretis e Crispi) che dalle sinistre, sia liberali che socialiste (governo Giolitti). Il governo fascista rafforzò l’occupazione libica e nel Corno d’Africa (Eritrea, Somalia, Etiopia), e penetrò nel Dodecaneso e in Albania. La prima Repubblica, da De Gasperi a Nenni a Togliatti, continuerà, nelle trattative di pace, a rivendicare le colonie africane per lo stesso motivo adottato da sempre (apporre un rimedio alle emigrazioni degli italiani) e per la ragione di portare a termine la nostra ‘missione civilizzatrice’ presso quei popoli ancora ‘immaturi’ per l’indipendenza218. Poi emigrazione di massa e colonialismo sono stati «annegati nel fondo melmoso della società italiana secondo‐novecentesca» con la retorica della Resistenza. Con la dialettica ‘fascismo versus resistenza’ «si è giocato tutto il senso civile di un intero secolo, della sua storiografia e del suo magistero pubblico, quello che forma la coscienza critica di un popolo»219. Conclude Gnisci: la colossale opera L’Italia in Africa ultimata dal Ministero degli Esteri nel 2001 ‐che ha mistificato la realtà coloniale dipingendola del tutto diversa rispetto alle altre delle
216 Ivi, p.143 217 Ivi, p,139 218 Ivi, p.140 219 Ibidem
altre potenze e alimentando il mito degli ‘italiani brava gente’‐ e inoltre, il silenzio dei manuali di storia della scuola italiana sulla crudeltà e sugli effetti postumi del colonialismo italiano, hanno «suggellato lo stigma, invisibile, della rimozione»220. Alcuni dei nostri scritti autobiografici, come Aulò, canto‐poesia dall’Eritrea di Sibhatu e
Lontano da Mogadiscio di Fazel, ci raccontano delle dittature e delle guerre civili
scoppiate in Eritrea e Somalia negli ultimi decenni del Novecento; Fazel racconta delle inefficienze della ‘cooperazione e aiuti alla Somalia’, parla degli sprechi, della corruzione, degli affari su cui gli imprenditori e il governo italiani hanno lucrato; ci ricorda il regime di Siad Barré largamente appoggiato dai politici italiani, a causa del quale, fra l’altro, la protagonista è stata costretta ad emigrare (insieme a molti altri esuli somali) in Italia. Il lettore è spinto a riconsiderare la politica fallimentare di aiuto tecnico e finanziario prestato al regime e dell’ingente compravendita di armi avvenuta (la Somalia negli anni Ottanta era il primo acquirente di armi dell’Italia221).
Le vicende di tutti gli altri scrittori e scrittrici africani/e testimoniano infine i danni
provocati dal colonialismo europeo in Africa, cominciato nel XVI secolo e terminato
negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo come occupazione territoriale, amministrazione e sfruttamento diretto dei paesi, dei beni e delle persone222. Ci porta
a gettare uno sguardo sul nuovo mondo globalizzato, dove la distribuzione della
ricchezza si è accumulata solo nel ricco Occidente e dove gran parte della popolazione mondiale versa in uno stato pietoso, ed è per questo costretta a migrare. Si rivedano le parole di Pap Khouma in Io, venditore di elefanti:
L’Africa è governata male. Troppi profittatori. Puoi anche studiare e lavorare, ma non cambia, perché chi comanda non è disposto a concederti un po’ del suo spazio. Così la gente se ne deve andare. Ha speranza solo se fugge, se riesce a raggiungere l’Europa. A lavorare sono in pochi. Tutti dipendono da loro. Per
220 Ivi, p. 141
221
CALCHI NOVATI , Gianpaolo, Italy and the Horn: The Unbearable Weight of a Weak Colonialism, in SANTE, Matteo (a cura di), ItaliAfrica: Bridging Continents and Cultures, New York (Stony Brook), Forum Italicum Publishing, 2001, p. 162
140 questo non si può tornare: se torni vai solo ad aggiungerti ai tanti che vivono del lavoro dei pochi. Il lavoro che avevo, per me non ci sarebbe più. Devo rimanere in Europa.223