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Il caso Lutero: l’Auditor Camerae e l’attivazione del processo

Beatissimo Padre. Ho saputo che presso di voi e presso i vostri consiglieri è stata gravemente attaccata la mia reputazione, come se mi fossi proposto di diminuire l’autorità e il potere delle chiavi che appartengono al Sommo Pontefice. Mi si accusa di essere un eretico, un apostata, un uomo perfido. Io ne sono pietrificato di stupore e di orrore. Mi rimane come unico conforto la mia coscienza innocente e tranquilla.46

46 Lettera inviata a Leone X da Lutero, il 30 maggio 1518, riportata in traduzione da D. Olivier, Il processo Lutero 1517-1521, Coines, Roma 1972, pp. 26-28.

L’autore di questa supplica47, giunta a Roma il 30 maggio 1518, era un monaco agostiniano, nativo della Sassonia, che allora ricopriva la cattedra di teologia all’Università di Wittemberg; quel Martin Lutero, le cui 95 tesi contro la pratica delle indulgenze avevano cominciato a suscitare ampi dibattiti e contestazioni – soprattutto presso l’arcivescovo di Magonza – ed erano destinate a generare quel profondo divario, divenuto ben presto inconciliabile, all’interno della cristianità occidentale.

In quei giorni, dopo le preoccupanti notizie provenienti dalla Germania, il pontefice stesso aveva deciso di incaricare alcuni padri domenicani dell’acquisizione di notizie intorno all’attività svolta dal monaco sassone; ma già alla fine dell’anno precedente il cardinale Tommaso da Vio, superiore generale degli stessi frati predicatori, aveva cominciato ad interessarsi degli scritti di Lutero, senza determinare tuttavia l’attivazione di una vera e propria istruttoria nei confronti di quest’ultimo.

In realtà bisognerà attendere la fine di maggio, quando Leone X, ancor prima di ricevere la lettera succitata, sembrò propendere per la rapida attivazione del processo. Egli non ne affidò l’istruttoria – come poteva sembrare ragionevole – ai frati domenicani, o agli stessi agostiniani, bensì al vescovo di Ascoli, il senese Girolamo Ghinucci.48

Dal 1511 quest’ultimo ricopriva la carica di Uditore della Camera e nei giorni successivi alla delega papale egli affidò al padre domenicano Silvestro Mazzolini da Prierio il compito di redigere un rapporto sulla vicenda del monaco agostiniano. Il documento prodotto nel breve spazio di tre giorni sarà inviato in allegato alla citazione che il Ghinucci spedirà ai primi di luglio a Lutero. Questi avrebbe dovuto presentarsi dinanzi al Tribunale dell’A.C. entro sessanta giorni dal ricevimento dell’ordine di comparizione che venne recapitato a Lutero il 7 agosto, dalle mani del cardinal Caetano, cioè proprio quel Tommaso da Vio che per primo s’era occupato del caso.49

Non appare qui necessario ripercorrere l’iter processuale di una vicenda fin troppo nota come quella di Lutero, ma tentare di sviluppare alcune considerazioni sulla scelta operata dal pontefice nel maggio 1518 riguardo l’affidamento dell’istruttoria all’Auditor Camerae. Entrato nel seno curiale romano sotto il pontificato di Giulio II, in qualità di chierico di

47 Sulle suppliche cfr. Suppliche e gravamina.

48 Cfr. M. Di Sivo, Ghinucci, Girolamo, in DBI, vol. 53 (1999), pp. 777-781. 49

La vicenda dell’attivazione del processo Lutero viene trattata da L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del

Medioevo, Desclee, Roma 1928-1933, vol. IV, 1, pp. 233-237; Storia della Chiesa, a cura di H. Jedin, Jaca

Book, Milano, 1976, vol. VI Riforma e Controriforma, pp. 63-74; M. Di Sivo, Ghinucci, Girolamo, cit., p. 778; D. Olivier, Il processo Lutero 1517-1521,cit., pp. 30-33.

Camera, il Ghinucci era stato, dallo stesso pontefice, nominato all’Uditorato. Ma al di là della sua competenza giuridica fu in realtà la spiccata abilità diplomatica a portarlo ben presto a ricoprire un ruolo di primaria importanza nella politica pontificia. Questo gli valse quella fama di affidabilità che dovette infine convincere Leone X a commettergli l’istruttoria contro Lutero. La pressione dei padri domenicani avevano posto il pontefice nella necessità di dover prendere una rapida decisione. Nonostante ciò occorreva una certa prudenza, soprattutto nell’evitare che la questione suscitasse un aperto conflitto tra i due ordini di Sant’Agostino e San Domenico. Il pontefice dovette quindi procedere su due binari contrapposti, auspicando l’intervento correzionale interno all’ordine agostiniano ma al contempo affidando ai padri domenicani una segreta acquisizione di notizie sul monaco sassone. Sotto questa luce - fallito il tentativo del generale agostiniano di richiamare ad un più consono comportamento Lutero, e dovendo evitare lo scontro tra gli ordini in questione - apparve forse una scelta obbligata quella di affidare l’istruttoria ad un Tribunale di misto foro, le cui limitazioni poste da Giulio II non inficiavano in realtà quella giurisdizione, estesa già da Innocenzo VIII a tutte le cause laiche ed ecclesiastiche, spirituali e mondane. D’altronde l’attività dei padri domenicani rimaneva di fatto alla base dell’istruttoria stessa, proprio grazie all’abilità di padre Mazzolini.

Non si ritiene qui di dover limitare la decisione papale ad una semplice lettura contingente. Il Tribunale dell’A.C. forniva al tempo garanzie abbastanza solide a livello giudiziario, non solo in materia camerale e nelle cause mondane, ma anche in quelle spirituali. Di fronte ad una crisi generale che colpiva le singole istituzioni diocesane e inquisitoriali locali, troppo frammentate e particolaristiche per essere controllate dal centro, occorreva servirsi di uno strumento indubbiamente più affidabile, quale il Tribunale romano. Inoltre non deve essere neppure dimenticata la situazione politica dell’area germanica, dove sarebbe stato necessario muoversi senza turbare troppo la giurisdizione dei principi elettori, in particolare quella di Federico di Sassonia di cui Lutero era un suddito. Del resto sarà proprio questa la motivazione che permetterà al monaco agostiniano di evitare il viaggio a Roma, confinando il processo all’interno delle sue terre.

A sostegno della competenza del Ghinucci nelle cause spirituali non andrebbe neppure dimenticata l’attività svolta dal prelato nell’ambito del Concilio Lateranense V (1512-17)50.

50 Cfr. Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo, P. Joannou, C. Leonardi e P. Prodi, con la

consulenza di H. Jedin, Basilea, 1962, pp. 569-631. Inizialmente convocato per risolvere la questione dei cardinali scismatici, che con l’autorità del re di Francia, Luigi XII, s’erano riuniti a Pisa, finì per procedere rispetto a tre ordini di questioni: il primo relativo al conseguimento della pace universale tra i principi cristiani; il secondo diretto ad una complessiva riforma della Chiesa, sia nelle sue strutture temporali che spirituali; il terzo

Egli era stato incaricato da Giulio II di prepararne l’apertura, partecipando successivamente non solo alle sessioni di carattere strettamente politico – legate alla questione della Lega antifrancese e degli scismatici del concilio pisano – ma anche a quelle in cui vennero introdotte discussioni su delicate questioni dottrinali.51 Le sue posizioni, moderate e tendenzialmente ostili alle istanze più radicali, lo portarono così ad acquisire una particolare sensibilità agli aspetti spirituali che procedevano dalle questioni politiche e a contrastare successivamente le stesse dottrine luterane nel loro sorgere. Se da un lato non va sottovalutata, quindi, la competenza spirituale dell’Auditor Camerae, dall’altro occorre precisare come, nella scelta papale, la capacità diplomatica del Ghinucci dovette forse esercitare un peso maggiore rispetto alle sue attitudini giudiziarie e spirituali.

Rimarrebbe tuttavia insufficiente l’analisi appena esposta se non ci si ponesse nella prospettiva di operare un breve parallelo con un altro organo giudiziario, anch’esso, come già accennato, svincolatosi dall’alveo camerale nella seconda metà del Quattrocento, e destinato a divenire proprio negli anni del pontificato leonino la principale magistratura romana: il Tribunale del Governo di Roma. Già dalla prima metà del XV secolo il Governatore aveva cominciato ad assumere una sempre più vasta autorità all’interno degli organismi curiali,52 anche se una svolta determinante va certamente focalizzata nel provvedimento di Sisto IV del 1473, cioè in quei Capitula declaratoria iurisdictionum Curiarum Urbis, ripresi dal Fenzoni53 nel 1636, nella sua glossa fornita agli Statuti di Roma. In questi capitoli si rilevava infatti la piena identificazione della carica di Governatore con quella di vice-camerlengo. Quest’ultimo era stato già da tempo investito dell’impegno di coadiutore del camerlengo nell’ambito del governo statale, ricevendone in particolare l’incombenza diretta sull’amministrazione della città di Roma e suo distretto; mentre il Governatore era stato chiamato a tale impegno,

infine indirizzato alla difesa della Fede e all’estirpazione delle eresie. Il concilio indetto da Giulio II il 18 luglio 1511, con la bolla Sacrosantae Romanae Ecclesiae, venne sciolto dopo XII sessioni il 16 marzo 1517 da Leone X.

51 Dal punto di vista dottrinale il concilio affrontò il problema della “doppia verità” – cioè della natura

dell’anima razionale che sia o mortale o unica per tutti gli individui – e nell’VIII sessione del 19 dicembre ne venne emanato il decreto di condanna, oltre alla ratifica della bolla della riforma curiale Pastoralis officii del 13 dello stesso mese. Cfr Decisioni dei concili ecumenici, a cura di G. Alberigo, Unione tipografica torinese, Torino, 1978, pp. 69-71.

52 L’istituzione dell’ufficio di Governatore risale al 17 gennaio 1436, documentata da una lettere di nomina

indirizzata a Giuliano Ricci dal pontefice Eugenio IV in esilio a Firenze. Cfr. A. Theiner, Codex diplomaticum, cit., vol. III pp. 336-337.

53 Cfr. G.B. Fenzoni, Annotationes in Statuta sive ius municipale Romanae Urbis, ex typographia Andreae Phaei

soprattutto nella garanzia dell’ordine nella città, dal pontefice Eugenio IV, quando questi era stato costretto a lasciare Roma nel 1436 per recarsi al suo temporaneo esilio fiorentino.

La lettera con cui il papa investiva di tale autorità l’allora arcivescovo di Pisa, Giuliano Ricci, precisava una sfera di competenze estremamente ampia riconducibile alla città di Roma e suo distretto.54 Apparve quindi inevitabile che le due cariche di Governatore e vice- camerlengo, per l’analogia delle funzioni svolte, dovessero riunirsi in un’unica persona; un’identificazione, questa, che in effetti rimase costante lungo i secoli dell’età moderna, salvo una breve parentesi alla fine del Cinquecento.55

La svolta sistina aveva però paradossalmente sottratto al Tribunale alcune competenze, in particolar modo quelle legate alla cognizione di qualsiasi causa connessa alla città di Roma, imponendo così l’obbligo, al Governatore, di rinviare queste ultime al giudice competente. La decisione nasceva all’interno della già accennata conflittualità tra i tribunali del Governo e quello senatoriale, riflesso del diffuso braccio di ferro tra autorità statale e municipale. Questa limitazione non deve ingannare sulle reali intenzioni del pontefice, che se di fatto sembrò cedere da un lato alle rivendicazioni della curia capitolina, dall’altro operò anche un potenziamento delle facoltà stesse del Governatore riguardo la repressione di qualsiasi abuso commesso dalla curia del Maresciallo di Roma, alla quale era allora riservata la cognizione di tutte le cause civili e criminali riguardanti i laici della Curia pontificia. Un ulteriore accrescimento della giurisdizione del Governatore seguì alla bolla di Giulio II, la Decet

Romanum Pontificem del 1512, con la quale, come s’è visto, venne tracciata anche una più

precisa definizione della giurisdizione dei tribunali romani.

Si possono quindi considerare i due provvedimenti – di Sisto IV e Giulio II – come i due termini entro cui comprendere un primo sviluppo del Tribunale del Governo, in stretta connessione con le rivendicazioni poste in essere dalla Curia capitolina all’interno del panorama giudiziario romano di fine Quattro e inizio Cinquecento.56

Il Tribunale del Governatore s’era così incamminato lungo un percorso destinato a condurlo, nel corso del XVI secolo, verso il massimo grado dell’articolazione giudiziaria romana. Esso si poneva nella prospettiva di erodere progressivamente le competenze di tutti

54 Le facoltà andavano dalla conoscenza e decisione delle cause civili, criminali e miste, alla possibilità di

affidarne tale conoscenza e decisione ad altre curie giudiziarie oppure avocarle a sé. Cfr. N. Del Re, Monsignor

Governatore di Roma, cit., p.12. 55

Il riferimento è alla temporanea separazione operata da Sisto V il 1 agosto 1589, quando togliendolo al Governatore Mariano Pierbenedetti, affidò il vicecamerlengato al prelato napoletano Alfonso De Guevara; Clemente VIII, dopo la morte del Guevara riunificò le due funzioni. (Ivi, pp.16-17).

gli altri tribunali romani. Le cose apparvero abbastanza chiare con la bolla Etsi pro cunctarum del 28 giugno 1515, con la quale Leone X giunse ad estendere le facoltà di tale prelato, sottoponendo alla sua giurisdizione la conoscenza di qualsiasi causa afferente al distretto romano, riguardante laici ed ecclesiastici, sia di natura spirituale che mondana. Inoltre concedeva al Governatore la facoltà di comminare scomuniche e censure ecclesiastiche.

A questo punto l’analogia con le già viste competenze dell’Uditore della Camera appaiono estremamente vincolanti, tanto da rendere ben più complessa la comprensione della motivazione posta alla base della scelta papale del 1518. Entrambi i prelati facevano parte della gerarchia camerale e si erano sottratti progressivamente dall’ombra del camerlengato lungo la seconda metà del XV secolo. Il vice-camerlengo, però, s’era appropriato di competenze relative all’antica carica del Governatore della città, che non nasceva precisamente in ambito camerale e che doveva solo da questo periodo in poi legare la propria esistenza al medesimo titolare. Comunque, a variazione avvenuta, sia il “nuovo” Governatore vice-camerlengo che l’A.C. avevano finito per acquisire una struttura autonoma e indipendente e un ruolo di primo piano nello sviluppo successivo dell’apparato pontificio; il Governatore era asceso alla più alta carica giudiziaria cittadina, in grado di godere prerogative e competenze vastissime in prima istanza; l’Auditor Camerae invece – pur subendo agli inizi del secolo un’erosione delle competenze cittadine sugli ecclesiastici, a favore proprio del Governatore – conservava ampie prerogative e una giurisdizione che si estendeva in prima istanza e in appello a tutto il territorio pontificio. Nonostante la bolla innocenziana limitasse le facoltà dell’A.C. entro i confini temporali dello Stato, l’estendeva però a tutto l’Orbe cattolico nelle cause spirituali, soprattutto a riguardo della comminazione di scomuniche e censure ecclesiastiche.

L’essersi soffermati su tali considerazioni – con le quali si è voluta interrompere la trattazione dello sviluppo storico-giuridico del Tribunale – è seguito alla necessità di voler presentare una prima panoramica dell’estrema complessità dell’articolazione giudiziaria romana, nella contingenza di un quadro storico ben noto. Si vedrà come in seguito a questo contesto, con l’approfondirsi della crisi luterana e soprattutto a partire dalla drammatica esperienza del sacco di Roma, il Tribunale dell’A.C. – pur rimanendo un ufficio con una vasta giurisdizione di misto foro – dovette tuttavia subire un’erosione di competenze ed in particolare nell’ambito spirituale finì per soffrire la ristrutturazione dei tribunali della Fede e l’istituzione del Sant’Uffizio. I confini segnati tra il proprio foro e quello del Governo di

Roma, agli inizi del secolo, rimasero invece ben definiti, e se si realizzarono sovrapposizioni di competenze e conflittualità, furono in realtà confinate per la maggior parte entro le mura cittadine romane.