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La riforma curiale e il Tribunale nel pontificato di Pio IV

Quando nel novembre del 1564 il pontefice Pio IV emanava la costituzione Cum inter

coeteras, sulla riforma del Tribunale della Camera apostolica, egli poneva termine ad un vasto

progetto di ristrutturazione dell’intera curia romana, capace di caratterizzare tutto il suo pontificato ed in particolare il biennio 1561-62.

Il punto di partenza di tale disegno è rappresentato dalla Romanus Pontifex del 1561, mediante la quale il papa procedette alla soppressione dell’ufficio di Reggente della Camera e alla restituzione al cardinal Camerlengo e agli altri ufficiali camerali delle loro facoltà e giurisdizioni. I provvedimenti precedenti avevano in realtà già interessato alcuni nodi importanti legati al governo temporale, come l’attribuzione al Governatore di Roma della facoltà di procedere contro i mercanti e i cambia valori presenti in città, la conferma della giurisdizione civile e criminale delle curie di Ripa e Ripetta, la riattribuzione al cardinale camerlengo della facoltà di conoscere qualsiasi causa di interesse camerale. Ma ciò che caratterizzò il primo anno del pontificato furono soprattutto le misure intraprese circa il potere universale e spirituale della Chiesa di Roma. Assieme alla moderazione dei precedenti decreti paolini, che avevano reso inviso l’operato del predecessore, Pio IV diresse la sua principale attenzione a regolare i costumi della gerarchia ecclesiastica – richiamando tra l’altro i vescovi alla residenza nelle diocesi a loro affidate – che culminerà poi, alla fine del 1560, nell’indizione della terza e definitiva fase del concilio Tridentino.92

L’anno successivo decise di riprendere in mano la situazione abbastanza complicata dell’amministrazione curiale romana, completando in parte ciò che aveva iniziato con la già accennata riattribuzione di alcune importanti facoltà al camerlengo, venute meno a favore della carica paolina del Reggente di Camera. Il 14 aprile 1561 il pontefice procedeva quindi alla soppressione di quest’ultima funzione, ricordando come Alphonsus cardinalis officium

regentatus huiusmodi, quod obtinet hodie, in manibus nostris sponte et libere resignaverit.93

92

Sulla residenza vescovile Cfr. De salute gregis, in Bullarum Taurinensi, cit., vol. 7, pp. 55-58; sull’indizione della terza fase del Tridentino e sulle disposizioni successive per i vescovi che parteciparono all’assemblea, cfr.

Ad Ecclesiam regimen, Ivi, pp. 90-92; Sicut ea, Ivi, pp. 92-93. 93 Romanus Pontifex, Ivi, p. 124.

Poiché tale ufficio aveva generato, all’interno della curia e tra i magistrati, numerose discordie e liti, procurando notevole pregiudizio e danno all’intera Camera Apostolica, il pontefice proseguì nel suo obiettivo, manifestando chiaramente di voler ripristinare il precedente Uditorato. Questo provvedimento appariva di fatto come il primo passo verso una più profonda riforma, che prendendo le mosse dalla degenerazione curiale provocata dalla carica del Reggente e stigmatizzando in esso il principale capro espiatorio, doveva condurre negli anni successivi ad un riassetto globale delle magistrature cittadine. Un disegno questo profondamente intrecciato anche alla riforma dei costumi del clero94, all’applicazione dei decreti conclusivi del Tridentino, e ad una complessiva ristrutturazione dell’ormai vasto potere inquisitoriale.

In consonanza con l’intenzione già espressa nella Romanus Pontifex, Pio IV, già dal 1 maggio del medesimo anno, con la Ad eximiae devotionis95, procedette quindi con la nomina

del nuovo Uditore, monsignor Flavio Orsini, vescovo di Murano, facendo subito cadere qualsiasi possibilità di conflittualità fra cardinali, e sottolineando quindi la matrice soppressiva della decisione di Paolo IV.

La bolla pontificia coglieva l’occasione della nomina per ridefinire, dopo gli inizi del secolo, quelli che erano gli spazi e le funzioni ricoperte dal Tribunale. I primi paragrafi richiamavano ancora una volta le vicende paoline; successivamente, post longam super hoc

habitam discussionem et maturam deliberationem, il pontefice procedeva con la designazione

vera e propria. Importante da considerare è come, a differenza delle precedenti nomine, venisse sottolineato espressamente il nominato in qualità di utriusque iuris doctor et in

utraque signatura nostrae referendarius.

Appare, questo, un passaggio fondamentale, poiché, pur sottostando di fatto le qualità e competenze giuridiche alla base della nomina anche nei decenni precedenti, sembra che solo ora vengano espressamente sottolineate. Osservazione che permette di cogliere quindi la piena solidità di quella profonda metamorfosi avvenuta lungo il corso della prima metà e degli anni centrali del Cinquecento, per la quale non ci si trova più di fronte a personaggi dotati di una valida esperienza politica e diplomatica, come il Cesarini (metà sec. XV) e il Ghinucci (inizio sec. XVI) – per quanto addottorati nella conoscenza del diritto – ma a figure

94

Non a caso due giorni dopo la soppressione del regentato di Camera, Pio IV decideva di affidare agli inquisitori contro l’eretica pravità, la facoltà di procedere contro i sacerdoti che “sollecitavano” le penitenti nell’atto confessionale, con la bolla Cum sicut nuper, Ivi, pp. 126-127.

fondamentalmente provenienti dal mondo giuridico dei due diritti, comune o civile e canonico, e come tali già esercitanti in qualità di referendari nell’alto Tribunale della Segnatura. Questa particolarità, già riscontrata nelle esperienze del Parisio e del Cicala, e ora istituzionalizzata, rimarrà costante e nelle nomine successive, negli editti e bandi emanati dall’Uditore, troveremo sempre l’indicazione della sua appartenenza giuridica e al ruolo di referendario.

Tornando alla Ad eximiae devotionis, nel procedere dei paragrafi vengono riassunte anche tutte le competenze attribuite in precedenza, assieme all’importante e diretto collegamento dell’Orsini al suo predecessore Alberici: sono così richiamate le facoltà di nominare luogotenenti, di procedere, con privativa, nelle cause di obbligazione camerale, di promulgare censure ecclesiastiche e di muovere contro singole persone, laiche o ecclesiastiche, nelle cause spirituali e mondane. Viene inoltre riconosciuto all’A.C. il potere di procedere contro cardinali e loro familiari, ufficiali di Curia, notai del proprio Tribunale, nonché mercanti e tutti coloro che riscuotono frutti annui sopra redditi e proventi ecclesiastici a loro assegnati. Addirittura le competenze si estenderebbero, in linea teorica, persino nei confronti di imperatori, re e principi. 96

Di fronte a tale enormità di competenze e giurisdizioni, richiamate anche in materia criminale – con la possibilità di procedere tam in Urbe et Curiae prefatis, tam extra eas, contro ogni persona, rivestita di qualsiasi dignità, episcopale o addirittura superiore – e considerando la contemporanea crescita del potere e della dignità papale, sembra certamente incongruo tale riconoscimento, che potrebbe infine indirizzarsi anche a detrimento del pontefice stesso. A questo proposito si era già espresso Guglielmo Felici, nella sua opera sulla R.C.A. Lo studioso, riferendosi a questa bolla, affermava come:

[…] si osserva in maniera palese il sommo limite a cui tali funzioni si estendono, essendo sottoposta ad esse qualsiasi persona, anche se rivestita di qualunque dignità civile ed ecclesiastica «cuiuscumque status, gradus, ordinis, dignitatis, etiam pontificalis, condicionis vel praeminentiae existentes…», non escluso quindi lo stesso pontefice qualora s’interpretassero alla lettera le riferite parole della costituzione. Ma, dato che «suprema sedes a nemini iudicatur» l’espressione della costituzione deve evidentemente interpretarsi pel senso che non sono esclusi dalla giurisdizione dell’A.C. quei Cardinali

96 Cfr. ASV, Misc. Arm. IV, 32. In tale raccolta vi si trovano le lettere di nomina degli Uditori di Camera con

che, come legati, rappresentano direttamente la persona del Papa, godevano di una autorità pontificia.97

Pur rimanendo valide tali affermazioni, sembra tuttavia un poco forzato introdurre la teorica competenza contro la stessa dignità pontificia, che in realtà il papa si guardò bene dall’inserire specificamente nella bolla, al paragrafo 11 (quello che invece sembra aver letto il Felici stesso, e cioè quel etiam pontificalis). Inoltre, come si vedrà nella seconda parte della tesi, la stessa giurisdizione contro i cardinali legati nella pratica apparve fortemente limitata.

Tornando alla nomina Piana, ancora una volta viene riconosciuta al Tribunale la facoltà di ricevere e giudicare in appello sentenze definitive o interlocutorie emanate da altri organi giudiziari, sia presenti nella città di Roma che nelle diverse province dello Stato. In realtà, nel contesto romano, la normativa limitava tale potere, di fatto, alle sole sentenze emesse dalle curie del Maresciallo e da quella di recente istituzione di Borgo. La procedura richiamava poi quella già prevista da Innocenzo VIII, secondo la necessità di una giustizia lineare e spedita, da muoversi sia in via accusatoria che per viam inquisitionis aut ex officio.

Molto importante, come già accennato, è poi il paragrafo 11, nel quale, oltre alla facoltà di procedere nel criminale verso qualsiasi persona, tanto nella città di Roma e nella Curia, quanto al di fuori di essa, vengono dettate prerogative del Tribunale dirette non solo contro gli ufficiali della Sede apostolica e i curiali, bensì anche nei confronti di tutte quelle dignità che presso i tribunali ordinari godevano di esenzione. Questo porterà l’A.C. ad indirizzare le proprie conoscenze anche verso quelle cause coinvolgenti il clero regolare e gli ordini esenti.

Nei paragrafi conclusivi vengono infine ricordate dal pontefice alcune facoltà inerenti l’esecuzione delle lettere apostoliche, la spedizione di monitori e citazioni, la promulgazione di censure e le procedure contro l’esecuzione delle cause testamentarie.

In generale la Ad eximiae devotionis non appare altro che una classica lettera di nomina, che confermava quelle che erano sempre state le prerogative riconosciute al Tribunale almeno dalla fine del Quattrocento. Tale semplice cenno non era però sufficiente, poiché i tempi erano cambiati e anche gli assetti curiali e amministrativi procedevano in costante simbiosi con le necessità politiche di un papato sempre più connotato da uno sviluppo accentrato delle proprie strutture temporali.

Dopo aver richiamato la giurisdizione del Senatore e dei collaterali di Campidoglio98, e affrontato alcuni nodi problematici legati agli inquisitorum haereticae pravitatis99, ecco allora

il pontefice mettere mano ad una complessiva riforma degli organi curiali, che coinvolgerà direttamente anche il nostro Tribunale.

Tra la fine del 1561 e la prima metà del 1562 vennero infatti promulgate misure di riforma sul Tribunale della Rota (In throno iustitiae – 27 dicembre 1561), della Penitenzieria apostolica (In sublimi – 4 maggio 1562), degli uffici dei correttori della Cancelleria apostolica (Universi gregis – 27 maggio), della Reverenda Camera apostolica100 (Romanus Pontifex

Christi vicarius – 27 maggio), del tribunale dell’A.C. (Inter multiplices – 2 giugno), dei

tribunali ordinari e di altri giudici della curia romana (Cum ab ipso – 30 giugno), e dei referendari della Segnatura di Giustizia (Cum nuper nos – 1 luglio).101

All’interno di questo vasto progetto, assume un’importanza particolare la riforma dell’Auditor Camerae, promulgata alcuni giorni dopo la prima sistemazione del collegio camerale. Infatti, i provvedimenti che si sono analizzati finora muovevano le loro premesse o da contingenze legate alla nomina del titolare dell’ufficio oppure da alcune limitazioni e definizioni, collocate all’interno di una considerazione giudiziaria generale. La bolla di Pio IV rappresenta pertanto la prima riforma del Tribunale nella sua storia normativa fin qui analizzata. Occorrerà quindi porre una particolare attenzione sui singoli capitoli della Inter

multiplices pastoralis del 2 giugno 1562.102

Dopo il breve proemio, in cui vengono enunciati i principi fondamentali della “buona giustizia”, emergono le motivazioni che hanno indotto il necessario intervento di riforma, del resto sempre legate al tentativo di rendere l’esercizio giudiziario equo e privo di abusi. Viene poi espressamente sottolineata l’importanza del Tribunale in questione, ricordando che non solo si tratta di un giudice ordinario della Curia romana, sed in tota temporali iurisdictione

nostra ac universi christiani orbis provinciis et regnis, ex indulto diversorum Romanorum Pontificum praedecessorum nostrorum, in civilibus et criminalibus iurisdictionem exercet.103

98 Cfr. Dilectos filios, in Bullarum Taurinensi, cit., vol. 7, pp. 134-136.

99 Il riferimento è alle bolle Pastoralis officii cura (27 agosto 1561), Ivi pp.138-139 e Cum sicut (1 novembre

1561), Ivi pp. 146-147.

100 Ivi, pp. 203-207. Questa riforma è importante perché rappresenta la prima parte di quella che sarà poi

conclusa con la Cum inter coeteras del 1564, ed introdurrà il principio di rotazione annuale negli affari affidati ai chierici.

101

Romanus Pontifex, in Bullarum Taurinensi, cit., vol. 8, pp. 155-158; Inter multiplices, Ivi, pp. 193-198; Cum

ab ipso, Ivi, pp. 200-207; Cum nuper nos, Ivi, pp. 214-226. 102 Inter multiplices pastoralis, Ivi, pp. 207-210.

Quindi, proprio perchè l’Uditore gode di una tale ampia giurisdizione, è necessario, che nei casi cumulativi, si mantenga entro i propri confini, affinchè non si generino conflittualità con le competenze e gli spazi di altri giudici, governatori e rettori.

Dopo aver consultato mons. Orsini, titolare dell’ufficio, e la collegialità dei cardinali, il pontefice stabilisce quindi nuovi capitoli per il funzionamento del Tribunale, dei suoi giudici e dei suoi notai.

In primo luogo vengono affermate alcune clausole procedurali relative alle spedizioni di lettere e citazioni, o a contesti speciali, come ad esempio il divieto di pronunciare monitori speciali relativi a cause profane, provenienti dai territori posti entro le 40 miglia del distretto cittadino romano, se il valore di queste non superi la somma di 100 fiorini, oppure quello di ricevere e ammettere appelli se non sotto espressa clausola. Mentre nei monitori generali l’Uditore può riservarsi la facoltà di assolvere coloro che incorrono nelle censure in essi contenute non deve invece decidere nulla circa il sequestro di beni, a meno che non concordi con la forma stabilita dalle procedure rotali.

Una limitazione legata alla decisione papale è riscontrabile nell’invio di mandati di comparizione contro i vescovi o persone di dignità superiore; questa facoltà infatti deve essere delegata di volta in volta dalla diretta commissione papale.

Successivamente vengono poste alcune clausole relative all’esame dei presunti colpevoli e dei testimoni, soprattutto sottolineando la necessaria presenza del giudice e non del solo procuratore fiscale, e che tali interrogatori avvengano entro tre giorni dalla ritenzione in carcere del reo, a meno che la natura del reato non permetta il contrario.

Nelle cause civili, inoltre, il Tribunale si deve differenziare nel procedere contro mercanti e creditori, che si siano macchiati del reato di usura, poichè in tal caso si sarebbe dovuto generare un procedimento separato da quello civile.

Dopo aver regolato quindi le norme sulla tenuta degli inventari dei beni sequestrati agli inquisiti e in relazione al percepimento delle sportule da parte dei giudici e notai, la bolla giunge ad enucleare una serie di precetti circa la tenuta degli stessi uffici notarili, prescrivendo come i titolari non dovessero redigere decreti di loro spontanea volontà senza ricorrere al giudice, sotto pena di falsità e privazione dell’ufficio; che tali uffici non siano poi affidati a persone non riconosciute dall’approvazione dello stesso Uditore titolare, e quindi non semplicemente dei singoli giudici.

Interessante, anche a livello generale di procedura, annotare come al paragrafo 28, venisse prescritto all’Uditore, nelle cause criminali, la consegna, al presunto reo, della copia degli indizi raccolti contro di lui, prima che fosse sottoposto alla tortura, et pendente termino ad

faciendas defensione, detur commoditas carceratis libere loquendi cum eorum advocatis et procuratoribus.

Tale assioma sembra quasi inclinare il giudizio verso un’interpretazione favorevole all’esistenza, nelle procedure in criminalibus di antico regime, di una qualche forma embrionale di “garantismo giuridico”. In realtà questa viene resa alquanto precaria dalla annotazione successiva - assai frequente nella normativa - nisi tamen qualitas causae aliud

necessario suadeat. Che cosa poi denotasse la particolare natura della causa, generante la

deroga da tale precetto garantista, la costituzione ritiene opportuno non specificarlo.

Ma tornando alla considerazione normativa, appare chiaro come il centro del provvedimento pontificio si condensi nel decreto presente al paragrafo 30. Infatti, al fine di limitare tutte quelle controversie tra organismi curiali, viene qui riconosciuta la facoltà privativa al Tribunale dell’A.C. nei contenziosi di natura camerale, assieme ad una maggiore definizione delle competenze e giurisdizioni del Tribunale, soprattutto circa le cause commissariate – ad esempio in relazione alle citazioni da inviarsi a vescovi ed ecclesiastici – e nell’ambito di quelle in forma Camerae. In questo caso la normativa si richiamava ad un interesse razionalizzatore collegabile più alle strutture e prerogative della Camera apostolica che non al Tribunale in sé.

L’elemento più innovativo sembrò essere del resto quello procedurale, che, pur ponendo le premesse in questo provvedimento, verrà delineato con maggiore razionalità e generalità nella Cum ab ipso il 30 giugno 1562.104

La normativa contenuta in quest’ultima bolla si richiamava al complesso dei tribunali romani, e avrebbe rappresentato – assieme anche alla successiva riforma di Pio V – la base, per quegli anni, di tutto il governo giudiziario romano.

Prima di definire i singoli decreti, veniva qui ricordato l’essenziale lavoro di una congregazione cardinalizia, ampliata da ufficiali e magistrati; un modello, questo, già riscontrabile sotto il pontificato di Giulio II e che troverà costante diffusione nei secoli XVII e XVIII.

La bolla, articolata in ben 80 decreti, si proponeva di affrontare, nella prima parte, lo spinoso problema delle sportule – dal quale nascevano gli abusi più diffusi, a detrimento dei cittadini stessi, soprattutto quelli più poveri105 – e in una seconda parte quello relativo alla cura e gestione delle carceri e dei carcerati; veniva riconfermata la delegazione di visita alle carceri, presieduta settimanalmente dal Governatore e dagli avvocati e procuratori del Fisco e dei poveri, nonché da un delegato della Confraternita della Carità; a questa visita ordinaria doveva però affiancarsene una “straordinaria”, con cadenza mensile, ad opera dello stesso Governatore, affinchè i carcerati non venissero indebitamente oppressi dai custodi.106 La cura delle carceri, la deputazione di medici per i corpi e di confessori per le anime, era una funzione alla quale doveva sovrintendere la Confraternita della Carità, ad eccezione di coloro che erano condannati alla pena dell’ultimo supplizio, della cura dei quali si occupava la Confraternita di San Giovanni della Misericordia.107

La bolla proseguiva con l’enunciazione di decreti riguardanti il modo di operare dei diversi organismi cittadini, nel tentativo di uniformarne il più possibile le procedure. Nessun giudice - recita il paragrafo 18 - deve procedere nelle cause criminali o emettere sentenze, senza aver doverosamente citato in tutti gli atti il Fisco, e questo decreto deve essere valido anche per i giudici di Borgo, della Curia Savelli e di quelli di Ripa e Ripetta. Inoltre i giudici stessi devono mostrare la loro piena imparzialità senza cedere quindi in troppa familiarità con avvocati, procuratori e notai, anche della medesima curia.108

Dopo aver delineato alcune norme sui tribunali del Maresciallo e di Borgo, con il paragrafo 22 viene imposto ai giudici, alla fine del proprio mandato, di rimettere il loro operato in sindacato, presso i tribunali del Governatore e dell’Auditor Camerae. Questo

105 Ivi, §§ 3-14, pp. 215-216.

106 “Gubernator semel in mense, una cum pauperum ac fisci advocatis et procuratoribus ac deputato a societate Caritatis, ultra visitationem ordinarie semel in hebdomada fieri solitam, visitet carceres, tam secretos quam publicos, per se ipsum, ne carcerati indebite a custodibus carcerum opprimantur”(Ivi, p. 216).

107 Nel 1488 venne fondata a Roma, da alcuni fiorentini, la Congregazione di San Giovanni Decollato, detta

anche della Misericordia, con il compito di assistere i condannati a morte. Sulle confraternite laicali in età moderna cfr. C. F. Black, Le confraternite italiane del Cinquecento, Rizzoli, Milano, 1992; V. Paglia, La Pietà

dei Carcerati. Confraternite e società a Roma nei secoli XVI-XVII, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1980;

Id, La morte confortata. Riti della paura e mentalità religiosa a Roma nell’età moderna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1982; R. Rusconi, Confraternite, compagnie e devozioni, in La Chiesa e il potere politico dal

Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli in “Storia d’Italia”, Annali, 9, (1986), pp.

471-506; L. Fiorani, L’esperienza religiosa nelle confraternite romane tra Cinque e Seicento, in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, V, 1984, pp. 160-183: G. Angelozzi, Le confraternite laicali. Un’esperienza cristiana

tra medioevo ed età moderna, Morcellaria, Brescia, 1978.

permette così di denotare ancora una volta l’alto grado a cui erano ormai ascesi i due tribunali prelatizi.109

D’altronde la necessità di razionalizzare le giurisdizioni e competenze delle curie ordinarie minori, rispetto a quella del Governatore e dell’Auditor Camerae, caratterizzava il fulcro della riforma; venivano infatti delineate in seguito le facoltà e gli spazi dei tribunali di Borgo e dei conservatori del Campidoglio, proprio al fine di eliminare quel sovraffollamento giurisdizionale che caratterizzò costantemente la giustizia romana in antico regime.