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Il Concistoro del ’58 Soppressione o trasformazione?

Un diarista romano della seconda metà del XVI secolo informava come nel 1558, ed esattamente nel mese di novembre, “in Roma non successe cosa di momento se non che alli 28 fù Concistoro et sua santità diede de consilio fratrum l’Auditorato della Camera ad Alfonso Cardinale di Napoli figlio di Don Antonio Caraffa filius fratris; officio che per innanzi si soleva dare à Prelati.”57

La notizia aveva assunto un’importanza tale da venire riportata assieme a quelle di ben più vasta eco riguardanti la morte di Carlo V; la sconfitta subita dalle truppe del conte d’Alcaude, generale del re di Spagna, contro il re d’Algeri; l’ambasciata presso il Turco dei genovesi, e le vicende inglesi, con la morte della regina Maria e la successione di Elisabetta. Eventi questi destinati a perpetuarsi attraverso la memoria storica come veri e propri snodi capitali nel corso del XVI secolo, ma già pienamente percepiti come tali anche dai cronisti contemporanei. 58

All’interno di questo contesto generale, la decisione paolina di estinguere la carica di A.C. e di assimilarne le funzioni alla nuova figura del Reggente di Camera, nasceva da disegni politici ben precisi, riconducibili da un lato alle assegnazioni nepotistiche, dall’altro alla necessità di un più radicale controllo statale.

Sin dai primi anni del suo pontificato, il Carafa mostrò appunto di volersi avvalere, per la politica temporale dello Stato, dei suoi più stretti familiari, in linea con una generale tendenza che dominava la Curia romana. Questa disposizione si connotò però in maniera sostanzialmente differente rispetto a quella portata avanti dai predecessori. Infatti – al di là dell’attribuzione del ducato di Palliano, ai confini col Regno di Napoli, al nipote Giovanni – egli realizzò il proprio nepotismo sull’affidamento di cariche curiali e amministrative, piuttosto che sulla costruzione di Signorie territoriali all’interno dei domini ecclesiastici.59

57 ASV, Fondo Pio, 29, c. 189v. 58

Ivi, cc. 185r-228r

59 Cfr. M. Caravale - A. Caracciolo, Lo Stato Pontificio, cit., pp. 282-295; A. Aubert, Paolo IV, in EDP, vol. III

(2000), pp. 128-142; L. V. Pastor, Storia dei papi, cit.,vol. VI, pp. 340-591; in generale sulla questione del nepotismo cfr. A. Menniti Ippolito, Il tramonto della Curia nepotista, op. cit.

Da un punto di vista più strettamente collegato al governo della giustizia, per comprendere meglio lo snodo temporale del pontificato paolino, è opportuno tornare a qualche decennio precedente. Il sacco di Roma del 1527 provocò senza dubbio una forte cesura nel processo di costruzione statale, non solo in relazione all’aspetto territoriale, ma anche a quello amministrativo.60 A livello giudiziario si vennero a creare due linee di sviluppo destinate a modificarne il panorama lungo il corso del Cinquecento. Da un lato, in concomitanza con l’estendersi del fuoco protestante e nella previsione di un rapido diffondersi, anche al di qua delle Alpi, delle idee riformate, si realizzò il progetto di accentramento degli ormai inefficaci tribunali inquisitoriali presso i vertici romani. Questo avvenne mediante l’istituzione della Congregazione del Sant’Uffizio dell’Inquisizione (1542)61. Dall’altro lato proseguì quel profondo processo di razionalizzazione dei tribunali romani, la cui articolazione doveva costantemente rappresentare quel modello di “buona giustizia” da applicarsi a tutte le realtà territoriali dello Stato.

Sebbene negli anni del pontificato leonino il ruolo ricoperto dal Governatore, nell’ambito della giustizia romana, fosse apparso sempre più preponderante, tuttavia – come si è visto nel caso del Tribunale dell’A.C. – non aveva portato alla completa eclissi delle altre curie cittadine.

Ma come si era evoluta l’amministrazione della giustizia a Roma e nello Stato ecclesiastico tra il pontificato di Clemente VII e quello di Paolo IV? Occorrerà seguirne i momenti più significativi attraverso lo spoglio della normativa emanata dai pontefici.

All’indomani del drammatico sacco, e prima ancora dell’incoronazione bolognese di Carlo V (1530), il 1 dicembre del 1528 il pontefice aveva sentito la necessità di riaffermare il proprio potere temporale, decretando che tutti gli ufficiali delle terre immediate subiectae – governatori e loro luogotenenti, anche quelli investiti di dignità patriarcale, arcivescovile e vescovile, nonché abbaziale – fossero sottoposti a sindacato presso il pontefice stesso.62 Il provvedimento riprendeva misure già propugnate da Giulio II, ma nel contesto estremamente precario di quegli anni assumeva senza dubbio una palese significazione di potenziamento del

60 Per un riferimento generale cfr. l’ormai classico A. Chastel, Il sacco di Roma:1527, Einaudi, Torino, 1983. 61 Su questo argomento cfr. E. Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio; Ead, La giustizia intollerante; A. Del Col, L’Inquisizione in Italia dal XII a XXI secolo; M. Firpo, Inquisizione romana e controriforma; A. Prosperi, Tribunali della coscienza; G. Romeo, L’Inquisizione nell’Italia moderna; J. Tedeschi, Il giudice e l’eretico; L’Inquisizione. Atti del Simposio internazionale, Città del Vaticano, 29-31 ottobre 1998, a cura di A. Borromeo,

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2003.

controllo da parte del centro, e soprattutto, ancora una volta, di forte razionalità nell’amministrazione del territorio.

Il 15 gennaio 1530, dalla città di Bologna63, Clemente VII affrontava anche lo spinoso problema dell’accentramento delle facoltà inquisitoriali, misura sempre più necessaria di fronte alla notizia che in diversis Italiae partibus adeo pestifera haeresis Lutheri, non tantum

apud saeculares personas, sed etiam ecclesiasticas et regulares tam Mendicantes quam non Mendicantes, invaluerit64. Egli affidava quindi a Paolo “Butigello”, vicario generale

dell’ordine domenicano e inquisitore per le diocesi di Ferrara e Modena, la facoltà di procedere contro qualsiasi persona, anche appartenente al clero regolare, superando così eventuali esenzioni e privilegi.65 Il provvedimeno clementino trovò in realtà una parziale realizzazione, poiché non superava in definitiva il contesto prettamente locale. Tale ostacolo sarebbe stato affrontato solo alcuni anni più tardi dal ben noto provvedimento di Paolo III.66

Il pontificato di quest’ultimo ebbe ripercussioni non solo sul carattere generale della politica ecclesiastica – in particolare per la riorganizzazione dell’Inquisizione e per la convocazione del tanto atteso Concilio a Trento – ma anche per il consolidamento del proprio governo temporale. Si è già accennato alla forte politica nepotistica che in quegli anni portò alla creazione di Stati personali all’interno dei domini ecclesiastici; sotto questo punto di vista Paolo III si dimostrò un pontefice di carattere rinascimentale. Egli fu però capace anche di proseguire sulla strada di quel diffuso processo di razionalizzazione amministrativa già avviato dai predecessori.67

Negli anni centrali del Cinquecento si vennero così a delineare meglio alcune procedure, come ad esempio il rilascio di transunti di suppliche da parte dei giudici e ufficiali curiali, la definizione delle cause civili di interesse camerale, la giurisdizione dei giudici della Curia di Ripa, nonché le facoltà e privilegi dell’Uditore rotale. Come non sottolineare inoltre la ripubblicazione delle Costituzioni Egidiane in tutto lo Stato ecclesiastico – con le osservazioni del cardinale Rodolfo Pio da Carpi68 – quale momento di diffusa riorganizzazione dei territori, ed ulteriore tentativo di superamento del particolarismo regionale a livello giudiziario? Non si può dimenticare come già dall’Albornoz era stato riconosciuto un ruolo centrale

63 Cum sicut, Ivi, pp. 134-137. 64 Ivi. p. 135.

65 Il provvedimento riconosceva la concessione di indulgenze solo a favore della confraternita dei Crocesignati, i

quali operavano proprio al servizio dell’Inquisizione (Ivi. §3. p.136).

66 Ivi. Licet ab initio, Ivi, pp. 344-346.

67 Cfr. G. Benzoni, Paolo III, in EDP, vol. III (2000), pp. 91-111. 68 Officii nostri, in Bullarum Taurinensi, cit., vol. 6, pp. 262-265.

all’organizzazione della giustizia, nelle sue competenze civili e criminali. Il cardinale spagnolo aveva posto sin dal 1357 tutta l’organizzazione sotto l’egida papale, nel tentativo di superarne le divisioni e i contrasti, soprattutto in materia giudiziaria. Del resto tale indirizzo, ripreso da Paolo III, è riscontrabile in provvedimenti specifici per alcuni territori, come la Marca Anconitana e la provincia di Marittima e Campagna.69

Se ci si allontanasse dal contesto più ampio dell’intero Stato, tornando alla dimensione della giustizia romana, si potrebbe notare come dal pontificato farnesiano emergano di fatto alcuni provvedimenti di una certa importanza. Con la Licet ecclesiarum70 del novembre 1542,

il pontefice coglie infatti l’occasione della nomina del nuovo Vicario di Roma per riaffermare e definire ulteriormente la giurisdizione e le facoltà di tale ufficiale. Oltre alla conoscenza delle cause inerenti agli ecclesiastici romani, al prelato spettava anche la visita a tutti i monasteri maschili e femminili della città e del suo distretto, con la facoltà di operare riforme

in capite et membris, nonché multare, correggere e punire eventuali eccessi. Importante

sottolineare come al suo Tribunale fossero riconosciute anche cause inerenti agli ebrei e ai banchieri usurai, cosa che porterà spesso il Vicario in contrasto con il Governatore.71

Per quanto riguarda quest’ultimo, del resto, il papa aveva già riconfermato le precedenti disposizioni leonine con il breve di nomina indirizzato il 18 aprile dello stesso 1542 al protonotaio apostolico Antonio de Angelis da Cesena.72

La piena considerazione di tali facoltà comportò, però, appena due anni più tardi, la decisione del pontefice stesso di limitare l’ampia autonomia di cui ormai sembrava godere il magistrato romano. Con la Romani Pontificis73 del novembre 1544, gli venne così prescritta la

subordinazione al cardinal camerlengo. Nonostante ciò, nel corso della seconda metà del Cinquecento, il Governatore dovette vedersi progressivamente ampliate le facoltà ben al di là del distretto urbano, in connessione con il diffondersi del problema del banditismo, che proprio alla fine del secolo assumerà toni di drammatica endemicità74 su tutto il territorio statale.

69 Il riferimento è alle bolle Romanum Decet Pontificem del 3 marzo 1544 (Ivi. pp. 369-370) e Iniuctum nobis del

12 giugno 1548 (Ivi. pp. 283-284).

70 Licet ecclesiarum, Ivi, pp. 349-353.

71 Cfr. A. Cameraro, Senatore e governatore, pp. 41-66. 72 ASV, Misc. Arm. IV, 48, cc. 9r-10v.

73

Romani Pontificis, in Bullarum Taurinensi, cit., vol. 5, pp. 373-374. Subordinazione, questa, prescritta anche per tutti gli altri magistrati di origine camerale, quindi riguardante anche l’A.C.

74 Cfr. I. Fosi, La giustizia del papa, cit., pp. 27-28. Sotto questo punto di vista, oltre alla normativa emanata da

Un altro provvedimento da richiamare nell’ambito dell’amministrazione giudiziaria romana è la bolla Ad onus apostolicae del 4 luglio 1548, sulla giurisdizione e facoltà dei prelati e ufficiali delegati alla visita delle carceri nella città. A tale funzione, sin dalla bolla leonina del 1515, doveva attendere il Governatore di Roma. Ora Paolo III, oltre a confermarne le precedenti facoltà, attribuiva a tale magistrato anche quella di emettere mandati di cattura senza indizi, detenzione che sarebbe stata comunque revocata se questi non fossero pervenuti entro le quarantotto ore.

Il pontefice, nella stessa costituzione definiva tutte quelle norme a cui dovevano attenersi i diversi funzionari preposti alla gestione delle carceri, in particolare nella cattura dei presunti colpevoli o dei necessari testimoni, soprattutto se tale cattura avveniva senza indizi sufficienti o senza il mandato del governatore. Altri precetti erano collegati al rispetto del tempo intercorrente tra cattura ed esame dei soggetti – generalmente tre giorni – e la loro eventuale liberazione; la liceità o meno dell’erogazione della tortura e gli atteggiamenti da tenere durante gli interrogatori; venivano anche espresse norme in relazione alla tenuta di registri e atti, nonchè alla conservazione dei decreti camerali da parte dei custodi.75 Assumeva quindi una sempre più ampia prevalenza nell’amministrazione della buona giustizia cittadina, l’eliminazione di tutti gli abusi e storture giudiziarie che potessero emergere anche a livello carcerario, soprattutto per un periodo di antico regime in cui la carcerazione veniva esercitata dietro pagamento e con un valore esclusivamente preventivo e non penale.76

Seppur più breve e meno articolato da un punto di vista generale, dalla prospettiva della giustizia romana il pontificato di Giulio III (1550-1555) acquisì un significato ben più profondo. Infatti, dopo essere intervenuto nuovamente sulla giurisdizione del Vicario, confermando la sua facoltà contro gli ebrei e inibendo l’intromissione nelle relative cause degli altri tribunali romani, con il moto proprio Ad Fidei constantiam del 22 febbraio 1550, egli istituiva un nuovo Tribunale nella città di Roma.77 Si trattava del Governatorato di Borgo, carica strettamente legata a quella di Capitaneum generalem, cioè una guardia personale del romano a procedere ex officio contro i banditi di tutto lo Stato ecclesiastico. Cfr. Cum sicut accepimus, in

Bullarum Taurinensi, cit., vol. 5, pp. 486-489. 75 Ad onus apostolicae, Ivi, pp. 384-389.

76 Sull’organizzazione del sistema carcerario romano cfr. M. Di Sivo, Sulle carceri dei tribunali penali a Roma.

Circa la frequenza dei provvedimenti diretti alla gestione delle carceri cfr. ASV, Misc. Arm. IV, 48 cc. 71r-146r. I provvedimenti sono per la maggior parte riferibili alla fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento, e si avrà modo di seguirne qualcuno nel prossimo capitolo.

77 Ad Fidei Constantiam in Bullarum Taurinensi, cit., vol. 6, pp. 409-412. Su questo tribunale cfr. N. Del Re, La curia capitolina e tre altri antichi organi giudiziari romani,cit., p. III, Il tribunale del governatore di Borgo, pp.

pontefice. Giulio III ne affidava l’incarico ad un suo nipote, Ascanio della Corgna78, deputandone anche la potestà giudiziaria sugli abitanti di Borgo San Pietro, sui quali doveva esercitare in prima istanza in temporalibus civilem et criminalem iurisdictionem, ordinariam

seu etiam delegatam, ac merum et mixtum imperium gladiique potestatem, etiam Sede vacante duraturam.79 Borgo era il termine con cui soleva indicarsi la cosiddetta “Città Leonina”, ovvero quel nucleo abitativo delimitato dalle mura fatte costruire al tempo di Leone IV, nel IX secolo, e che troveranno successivamente nella basilica Costantiniana e nel palazzo Apostolico, il nucleo attorno al quale coagularsi. Suoi abitanti erano considerati coloro che avevano uno stabile domicilio entro i suoi confini e non coloro che, pur esercitando funzioni curiali, non vi risiedevano. Divenuto nel XV secolo la sede stabile dei pontefici, “Borgo” finì così per identificarsi come il centro stesso di tutta la città papale e il carattere eccezionale che venne sempre più acquisendo spinse necessariamente Giulio III ad affidarne l’autorità politica ad una persona di sua stretta fiducia, istituendovi quindi anche uno specifico Tribunale.80 Al titolare di questa nuova curia giudiziaria il pontefice affidava la facoltà di delegare giudici, sia nel civile che nel criminale, nonché notai e un bargello coadiuvato da un corpo di executores,

et subexecutores.

Veniva insomma costituita una nuova giurisdizione, che assumeva caratteristiche di tutela dell’ordine pubblico ed esercitava un diritto di privativa sulla circoscrizione leonina rispetto agli altri giudici cittadini. Alla metà del Cinquecento, quindi, alle quattro curie ordinarie del Governatore, dell’Auditor Camerae, del Senatore e del Vicario, nonché a quella del Tribunale del Maresciallo di Santa romana Chiesa, veniva a sovrapporsi un’altra entità giudiziaria, che complicava ulteriormente il panorama cittadino. È bene inoltre ricordare come nella città di Roma esercitassero giurisdizione anche tribunali superiori, come quello della Rota romana e della Segnatura di Giustizia, – che era venuta distinguendosi nel corso della prima metà del secolo da quella di Grazia – i quali esercitavano una funzione ben più vasta, comprendente l’intero dominio statale, e dei quali si è già fatto cenno ricordando l’opera del Villetti, in apertura di capitolo.

78 Perugino, figlio della sorella di Giulio III, ricoprì a partire dal dicembre del 1550, oltre al governatorato di

Borgo, anche quello di Città della Pieve, in Umbria. Rimase in carica fino alla Sede vacante quando resse l’ufficio di Borgo l’arcivescovo di Avignone Annibale Bozzuti. Cfr. Del Re, La curia capitolina e tre altri

antichi organi giudiziari romani, cit., pp. 146-147.

79 Ad Fidei Constantiam in Bullarum Taurinensi, cit., vol. 6, p. 410. 80

Tra l’altro, come riscontrabile nella lista prosopografica fornita da Del Re, (La curia capitolina e tre altri

antichi organi giudiziari romani, cit., pp. 147-156), a parte qualche rara eccezione, la carica rimarrà sempre

appannaggio di un parente del pontefice in carica. Così come rimarranno inscindibili le due cariche di Capitano generale della Guardia di Sua Santità e quella del Governatorato di Borgo.

All’interno di questo movimentato contesto istituzionale la decisione di Giulio III era direttamente collegabile al rafforzamento delle misure di sicurezza attorno alla propria persona, ma poteva anche essere indicativa di una nuova linea di sviluppo del fenomeno del nepotismo papale. Nell’aumentare i privilegi e le facoltà del nipote capitano, infatti, il pontefice ne assicurava anche una più ampia autorità governativa grazie alla titolarità giudiziaria.81 Questa linea venne tra l’altro approfondendosi sin dagli inizi del pontificato di Paolo IV82, con l’affidamento ai nipoti delle leve principali del governo temporale dello Stato, ed è certamente nella prospettiva di questo disegno che va colta la decisione del concistoro del 1558.

Il Carafa, di fronte agli ostacoli che stava incontrando nella sua applicazione la nuova Inquisizione, ne aveva accentrato sempre più i poteri procedendo all’abbattimento di qualsiasi privilegio curiale, come nel caso ben noto del processo al cardinal Morone83. E questo accentramento semplificatorio dei poteri intermedi si riscontra anche nella giustizia ordinaria, nel tentativo di eliminare il sovraffollamento giurisdizionale e controllare personalmente le decisioni da prendere.

Sotto questo aspetto, il pontefice sembrò inizialmente favorire un accentramento della giustizia romana nelle mani del Governatore. Dopo averne riconfermate le funzioni sempre sulla base della bolla leonina del 1515, Paolo IV aveva ordinato, attraverso il moto proprio

Cupientes ubilibet, la predisposizione, per il Governatore, di un palazzo abbastanza ampio, da

dove egli potesse esercitare la propria funzione giudiziaria.84 Il progetto non ebbe termine e gli stessi provvedimenti paolini vennero revocati dal suo successore.

Riguardo alla carica di Reggente attribuita allora ad Alfonso Carafa, il pontefice, dopo aver rafforzato l’autonomia del Governatore, volle svincolare definitivamente anche il vecchio Uditore della Camera dal camerlengo di Santa Romana Chiesa, affidandone la carica ad un cardinale. Questo disegno era però anche estremamente legato all’ascesa dei propri

81

Non sarà un caso che a far le spese della lotta contro il nepotismo, intrapresa dalla seconda metà del XVII secolo e conclusasi parzialmente con le riforme innocenziane, saranno tribunali fortemente legati a concessioni personali del pontefice come la Curia del Maresciallo e quella di Borgo. Quest’ultima venne abolita nel 1667 da Clemente IX.

82 Cfr. A. Aubert, Paolo IV, op. cit.

83 Per gli atti processuali cfr. M. Firpo, D. Marcatto, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone. Edizione critica, voll. 6. Istituto storico italiano per l’età moderna e Contemporanea, Roma, 1981-1995. Cfr.

anche M. Firpo, Inquisizione romana e controriforma.

84

“[…]ordinamus et decernimus quod de caetero perpetuis futuris temporibus praesens Gubernator in uno

amplo et spacioso Palatio in ipsa Urbe, sumptibus nostris conducendo, continuo habitet, in quo adminus sint duae diversae et abinvicem separatae et distinctae aulae magnae et capaces, quarum altera pro civilibus et altera pro criminalibus causis deputentur […]” (ASV, Misc. Arm. IV, 48 c. 17r).

nipoti ed il successivo, repentino, rovesciamento della considerazione papale nei loro confronti, mostrerà il fallimento della politica familiare dei Carafa, suggerendo ai pontefici successivi una maggiore ponderatezza nell’attribuzione di cariche importanti ai propri parenti. Ma volendo lasciare da parte riflessioni prettamente legate alla politica complessiva di Paolo IV e dei suoi nipoti, la questione che si vuole porre è se sia davvero possibile considerare la decisione del 1558 come il momento di più profonda crisi sofferta dall’Uditorato di Camera. Infatti, in riferimento a questo, il vuoto normativo riscontrato nei pontificati centrali del secolo, appare indicativo di una certa stabilità dell’organo giudiziario, ma anche di un suo progressivo esautoramento a favore della crescita esponenziale – già analizzata – del Governatore. La scelta paolina invece, piuttosto che segnarne la parola fine, sembrerebbe in realtà denotarne piuttosto una trasformazione.

Un dato da considerare, sotto questo punto di vista, è l’attribuzione al cardinal Carafa della facoltà di spedire i documenti sotto proprio sigillo:

[…] ordinò che tutte le cose che si facevano sotto il nome di detto Cardinale Reggente fussero sigillate col suo sigillo, et non come si soleva fare in modo di quello del Camerlengo quando vi era l’Auditor