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l’Auditor Camerae tra i pontificati di Pio V e Sisto V

Il Tribunale oggetto di questa indagine, nella seconda metà del XVI secolo, era venuto ad assumere un sempre più vasto rilievo, accentuato dal disegno di riforma operato dal pontefice Pio V, alla luce delle nuove direttive tridentine. Il Ghislieri possedeva un animo maggiormente incline alla religione rispetto al pragmatismo del Medici17; eppure egli non dimenticò le più complesse problematiche temporali e giudiziarie. La politica complessiva del predecessore aveva percorso due direttive principali, entrambe collegabili al tentativo di rafforzamento politico della Santa Sede. La convocazione e la chiusura del Tridentino si poneva infatti in una prospettiva di rafforzamento del potere universale della Chiesa, permettendo allo stesso tempo una riforma complessiva della Curia romana che avrebbe manifestato i suoi effetti anche nello specifico del contesto temporale. Del resto la simbiosi tra le due potestà rendeva difficile ogni distinzione, problema questo che rimarrà tale anche dopo l’istituzione delle Congregazioni permanenti.

Con Pio V si proseguì su questa strada, con una netta prevalenza dell’aspetto spirituale – come del resto può vedersi da un rapido spoglio della normativa emanata – così che da subito egli rese palese la sua principale intenzione, quella cioè del rafforzamento del Tribunale della Santa Inquisizione: nei primi mesi di pontificato s’impegnò a rimettere nelle mani dei cardinali inquisitori qualsiasi carcerato le cui imputazioni fossero state aggravate dal sospetto

che l’è piacciuta farmene, ben l’assicuro che in tutto quello che dipenderà dall’arbitrio mio non mancarò di gratificar’esso Bargelini per rispetto di V.S. R.ma alla quale per fine bacio le mani. Di Bologna lì XXX d’Agosto M.D. L. XXXIX” (ASV, Carte Borghese, 67, s.n.).

16 P. Blastenbrei, I romani tra violenza e giustizia, cit., p. 74.

17 Interessante a proposito la lunga comparazione operata fra i due pontefici dall’ambasciatore veneto Paolo

di eresia18; nell’aprile del 1566 tornò a confermare le disposizioni contro gli ebrei emanate da Paolo IV19 e il mese seguente donò al Sant’Uffizio una sede stabile in Palazzo Pucci, per l’esercizio delle proprie funzioni20; ancora nel dicembre del primo anno il papa dichiarava come qualsiasi sentenza favorevole a tutti i rei imputati nel delitto di eresia – in cui il giudizio fosse stato viziato da disposizioni contrarie allo stile procedurale dell’Inquisizione – dovesse passare necessariamente sotto il vaglio revisorio degli stessi cardinali inquisitori; nel 1569 emanava infine una normativa contro coloro che avessero impedito l’azione inquisitoriale e offeso lo Stato, le cose e le persone afferenti al medesimo ufficio.21 In ciò si mostrava la netta volontà di riattivare la cosiddetta “guerra spirituale” che sembrava essersi attenuata negli anni successivi la morte del Carafa.

La necessità di affermare la piena autorità del pontefice non solo in materia universale ma anche temporale, traeva origine contemporaneamente da alcuni importanti provvedimenti di giustizia ordinaria. Il 1 febbraio 1566 il papa – con la bolla Romanus Pontifex – decideva di stringere le maglie contro il banditismo, soprattutto proveniente dal Regno di Napoli, concedendo ampie facoltà ai giudici di catturare e punire i delinquenti rifugiati presso lo Stato della Chiesa, assieme ai loro fautori.22 Riprendendo poi le disposizioni dei predecessori – a partire da Paolo II - emanate contro homicidas, brigosos, vindictam trasversalem aut

hominum collectam facientes23, egli ne ampliava le linee generali intimando severamente la

collaborazione alle stesse Comunità dello Stato e imponendo ai trasgressori gravi sanzioni penali. Importante poi considerare il provvedimento del 1568 indirizzato ai visitatori delle carceri presenti nella città di Roma, mediante il quale vennero loro riconfermate e ampliate le precedenti giurisdizioni e competenze nei confronti dei carcerati sia per le cause civili sia per quelle criminali. Dal punto di vista dell’organizzazione dei tribunali appare di un certo rilievo la conferma dei privilegi concessi già da Leone X al Governatore della città di Roma, con la possibilità di avvalersi dell’oraculum vivae vocis.24

18 Cfr. Bullarum Taurinensi, cit., vol. 7, pp. 422-423.

19 Romanus Pontifex, Ivi, pp. 438-440. A questa disposizione seguirà quella del 26 febbraio 1569, mediante la

quale Pio V decreterà l’espulsione degli ebrei dai territori pontifici ad eccezione delle città di Roma e Ancona. Cfr. Hebraeorum gens, Ivi, pp. 740-742.

20 Sollicitae nostra consideratione, Ivi, pp. 445-447. Il palazzo è quello, sito in piazza del Sant’Ufficio accanto a

porta Cavalleggeri, che tuttora viene occupato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, in cui è conservato l’archivio centrale del Tribunale.

21

Si de protegendis, Ivi, pp. 744-746.

22 Romanus Pontifex, Ivi, pp. 428-429.

23 Ex supernae dispositiones, Ivi, pp. 452-456; cit. dalla p. 452 (regesto del curatore). 24 Cum Apostolica Sedes, Ivi, pp. 847-848.

Certamente, quello che ad un primo sguardo emerge dal quadro normativo del pontificato di Pio V, è senza dubbio l’attenzione per le riforme relative agli aspetti spirituali e agli istituti ecclesiastici, mentre tendenzialmente minori sono gli interventi diretti all’amministrazione temporale. Inoltre, in piena concordanza con la natura stessa del papa, ciò che rappresentava quasi un filo costante e conduttore della sua legislazione era la preoccupazione per la vita degli ordini regolari e per l’amministrazione diocesana, disposizione quest’ultima, strettamente collegata al primo concreto tentativo di applicazione dei decreti tridentini.

In questo panorama si pone come indicativo il provvedimento riguardante il Tribunale dell’A.C. che univa il desiderio di una più spedita e regolare giustizia con la necessità di applicazione e controllo delle linee di riforma vescovile. Il primo paragrafo della costituzione

Cum alias del 10 giugno 1566 ricordava infatti come già Pio IV avesse commesso all’Uditore

della Camera, Alessandro Riario, il compito di giudicare coloro che fossero incorsi nella trasgressione del decreto di residenza. Il Ghislieri proseguiva quindi – affinchè nessuno potesse dubitarne – nell’attribuire all’Uditore stesso tutte le cause contra episcopos, quam

archiepiscopos et alios quascumque praefatos, tam in Urbe quam alibi et ubique locorum existentes, et in propriis dioecesibus non residentes nonché la facoltà di procedervi summarie, simpliciter et de plano, sola veritate inspecta, et manu regia de inobedientia propria usque ad sententiam exclusive procedat.25 Allo stesso modo egli concedeva al Tribunale di procedere contro tutti coloro che avessero ricevuto ed esercitato cura d’anime con la facoltà di citarli, inibirli, scomunicarli, sospenderli a divinis, carcerarli e rilasciarli al braccio secolare. In tale maniera si può notare come il Tribunale dell’A.C. entrasse appieno nel quadro di applicazione dei decreti post conciliari e nel clima della Controriforma. Del resto lo stesso pontefice, il 20 novembre 1570, con la bolla Inter Illa26 – senza che vi fosse la congiuntura di una nuova nomina – procedeva ad una profonda riforma del Tribunale.

La costituzione – articolata in 44 capitoli – era indirizzata alla regolamentazione della prassi giudiziaria del Tribunale. Una prima parte interessava le procedure da seguirsi nei casi di obbligazioni camerali, nello specifico circa le modalità di citazione delle parti in causa; qui

25 Cum alias, Ivi, p. 464.

26 Inter Illa, Ivi, pp. 865-872. Dalla documentazione raccolta e studiata dalla congregazione nominata dal

pontefice Paolo V nel 1608 – e che sarebbe pervenuta alla compilazione della riforma dei tribunali romani nel 1612 – si evince come la bolla suddetta fosse stata pubblicata il 4 dicembre successivo e presentata ad Alessandro Riario A.C.; Vincenzo Fuscherio, luogotenente civile A.C.; Vincenzo Bellutio, luogotenente criminale A.C.; Giovanni Antonio Curso, notaio e mensario dei notai dell’A.C. Questo permette di considerare la struttura stessa del tribunale, composta dall’Uditore, da un luogotenente civile e uno criminale. Cfr. ASV, Misc.

si poneva l’accento sulla vasta competenza dell’A.C. estensibile anche su laici e chierici romani; tuttavia il capitolo 11 riconosceva la possibilità, per i laici, di convenire anche presso la Curia capitolina, mentre il 12 stabiliva l’esistenza del diritto di prevenzione tra l’Uditore e il Vicario.27 Per coloro che risiedevano fuori d’Italia, la norma prescriveva inoltre al Tribunale il divieto a rilasciare monitori di comparizione, se prima non ne avesse fatto verbo cum

Sanctissimo – a riprova ormai di un vasto controllo operato dallo stesso pontefice sull’organo

giudiziario uditorale – e della cui decisione doveva esserne fatta precisa menzione nel monitorio stesso, pena l’invalidità dell’atto.

La seconda parte della riforma affrontava invece il problema delle appellazioni e del modo in cui si sarebbero dovute ammettere al giudizio del Tribunale: gli atti notarili dovevano infatti riportare la registrazione dello strumento pubblico della sentenza dalla quale ci si appellava, pena la totale inibizione del procedimento.

Dopo aver posto il divieto a rilasciare monitori generali, il pontefice reiterava anche i precisi limiti circa la conoscenza delle cause inerenti a vescovi e arcivescovi, richiamate nella costituzione precedente: contro questi l’A.C. non poteva infatti procedere sine speciali nostra

commissione, secondo i decreti già stabiliti da Trento e riproposti costantemente nella

normativa a partire dalle bolle di Pio IV.

Una terza e cospicua parte del documento riportava infine una lunga lista di tasse e oneri di spedizione: dapprima venivano fissati quelli relativi alle cause civili, per poi introdursi quelli applicati alle scritture prodotte nelle cause per commissione; così per un monitorio speciale inviato ad personam si dovevano spendere nove giuli, mentre per un monitorio speciale per edictum i giuli sarebbero saliti a ben dodici, ossia lo stesso prezzo di un monitorio emanato in forza della bolla In Coena Domini; la stessa spesa era prevista poi per la richiesta di transunti di bolle o altri strumenti notarili, mentre i mandati di esecuzione o sequestro erano rilasciati dietro pagamento di circa quindici giuli; sulle diverse citazioni le tasse previste oscillavano tra gli otto e i quattordici giuli, a seconda vi fossero contenute inibizioni o pene censorie; per l’annotazione delle sentenze si dovevano invece pagare dagli otto giuli ai trenta – a seconda del carattere definitivo o interlocutorio – mentre i mandati di consegna o di rilascio potevano scendere fino a quattro; il passaggio al braccio secolare prevedeva infine una tassa di ben trenta giuli. A queste si aggiungevano le tasse da pagarsi per

27 La comprensione e applicazione di questi due articoli saranno in seguito origine di contenziosi fra il tribunale

dell’A.C. e quelli di Campidoglio e del Vicariato, e si troverranno ancora nella necessità di chiarificazione durante i lavori per la riforma paolina dei tribunali nel 1612.

la spedizione di censure ecclesiastiche, mentre per le cause criminali il capitolo 39 specificava come dovessero corrispondere alla terza parte dei prezzi stabiliti per le carte prodotte in

civilibus, salvo restando che per quelle tipicamente legate al penale ci si rifacesse ai prezzi già

contenuti nella bolla del predecessore.

Queste brevi annotazioni forniscono ancora un quadro esemplificativo - sia pur incerto e quasi mai rispettato alla lettera - delle tasse che venivano regolarmente riscosse dagli uffici del Tribunale, e in conformità con quello che era lo stylus più o meno generale delle altre curie giudiziarie presenti in città. 28

Ampliando l’orizzonte di indagine, al fine di comprendere anche lo stretto giro di corda operato dallo Stato in ambito giudiziario - occorre precisare come la lotta contro il banditismo e la criminalità assunse in questi ultimi decenni del secolo contorni sempre più drammatici. Alcuni storici hanno messo in evidenza come la recrudescenza del fenomeno derivasse in definitiva dalla contestualità amministrativa e fiscale dello Stato nella seconda metà del

28

Ҥ 25. Pro monitorio speciali ad partes jul. novem; Pro monitorio speciali per edictum jul. duodecim; Pro

monitorio in vim Bullae Eugenianae jul. duodecim; pro Eugenianae per edictum jul. quindecim; Pro monitorio in vim bullae Coenae Domini jul. duodecim; Pro citatione cum inhibitione, vigore appellationis extra Curiam, cum insertione instrumenti sententiae à qua appellatur jul. decem; Pro instrumento remissoriae jul. novem; Pro instrumento litis pendentiae extra Curiam jul. novem; Pro transumpto simplici unius bullae, seu instrumenti, aut cedulae, vel etiam plurium similium, vel aliorum iurium in eodem transumpto descriptorum, si fuerint in forma probanti jul. duodecim. […] § 26. Ac in causis quae per commissionem introducuntur et ab initio sunt commisariae, neque alias ad huius fori cognitionem spectant, solvatur ut sequitur. Pro citatione vigore commissionis absque inhibitione extra Curiam jul. novem; Pro citatione cum inhibitione simplici jul. undecim; Pro citatione cum inhibitione sub censuris jul. quatuordecim; Pro citatione cum inhibitione sub censuris per edictum, etiam pro necessario examine jul. decem et octo; Pro inhibitione semplici extra Curiam jul. novem; Pro inhibitione extra curiam sub censuris jul. duodecim; Pro inhibitione in curia jul. tres cum dimidio […]Pro notis sententiarum definitivarum, quae in scriptis proferuntur, in prima instantia jul. quadraginta; in secunda jul. triginta; in tertia jul. viginti; Pro nota absolutoria ad observatione judicii jul. quindecim; Pro nota interloquutoria jul. quindecim; Pro nota declaratoria jul. octo; Pro mandato de exequendo jul. quindecim […] § 27. De caeteris vero actis, scripturis, et expeditionibus infrascriptis, sive causae sint ordinariae, sive commissariae, solvatur tantummodo infrascriptum pretium, videlicet. […] Pro examine testium, cum articulis et interrogatoriis in causa, quae sit extimationisà quinquaginta scutis supra ad quamcumque summam, si articuli non excedantnumerum vigintiquinque interrogatoria numerum trigintaquinque, in domo vel officio notarii, jul. quatuor, extra vero officium, non ultra duplum; In causis estimationis à quinquaginta scutis infra solvatur tantum pro dimidia. Quod si articuli excedant numerum vigintiquinque, et interrogatoria trigintaquinque, solvatur merces notarii arbitrio Judicis; Pro instrumento sententiae, si extrahatur, jul. quindecim; Pro instrumento declaratoriae, non tamen vigore obligationis in forma Camerae jul. duodecim; Pro brachio secularis ob non paritionem monitorii, aut literarum Apostolicarum, vl exequtorialium jul. triginta; Pro mandato suspicionis fugae, usque quamcumque summam, etiam in vim obligationis Cameralis decreto jul. quatuor cum dimidio; Pro mandato de consignando vigore sequestri, etiam ubi pro illius verificatione debitor prius fuisset conventus via executiva, vigore obligationis Cameralis jul. quatuor cum dimidio […] § 31. In causis criminalibus expeditionum, quae erunt ejusdem generis, seu nominis, cuius sunt suprascriptae, pretium augeri non possit ultra tertiam partem ejus, quod supra in civilibus prescriptum est, in regestis, extractibus, copiis iudiciorum et alterius quam supradicti generis, seu nominis expeditionibus criminalibus, servetur taxa ab eodem Pio praedecessore aliis Tribunalibus ordinariis Urbis praescripta […]” (Inter Illa in Bullarum Taurinensi, cit.,

Cinquecento.29 A queste interpretazioni sviluppatesi sul progredire di tendenze statali accentratrici, altri studiosi, come Caravale, hanno preferito un’analisi di lungo periodo, fondata su di “un endemico stato di anarchia” che di fatto avrebbe caratterizzato tutta l’intera storia dei territori ecclesiastici nel Quattro e Cinquecento.30 Tali interpretazioni, pur muovendo da un medesimo ripensamento del fenomeno del banditismo in senso più generale – di fatto riconducibile allo schema braudeliano de La Méditeranée31 – sono state

caratterizzate da un approccio troppo istituzionale e politico, oppure fortemente influenzate da schemi di “lotta sociale” mutuati dagli studi di Hobsbawm.32

A riguardo dello Stato della Chiesa, Irene Fosi ha sentito la necessità di compiere un’indagine più capillare, capace di scendere a fondo negli spazi della società, senza limitarsi al semplice contesto politico-istituzionale o alle grandi rivolte popolari che costellarono l’intero territorio europeo tra Cinque e Seicento. Riprendendo la precisazione etimologica del termine “bandito” e ponendola su di un piano ben più ampio del semplice “brigante”, la studiosa procedeva così ad una selezione documentaria comprensiva di processi contro banditi, fautori e fiancheggiatori, mettendo in evidenza la ricaduta periferica delle iniziative romane sino ai confini più remoti dello Stato.

Quella che emerge da tale confronto è l’immagine alquanto complessa di un’intera società “violenta” che andava via via mutandosi al suo interno e scontrandosi con un'altra società,

29

Cfr. J. Delumeau, Le progrès de la centralisation, cit., pp. 401-409; G. Carocci, Lo Stato della Chiesa, cit., pp. 150-152; P. Prodi, Lo sviluppo dell’assolutismo nello Stato Pontificio, cit., pp. 79-80.

30 M. Caravale - A. Caracciolo, Lo Stato pontificio, pp. 343-344. Per meglio comprendere la dicotomia

interpretativa si riportano due passaggi tratti dalle valutazioni di Mario Caravale e Paolo Prodi: “Un endemico stato di anarchia caratterizza – lo abbiamo detto più volte – la storia delle campagne e montagne della Chiesa nel Quattrocento e nel Cinquecento. Fuoriusciti cittadini, contadini fuggiti dai domini signorili, piccoli proprietari che non riescono a resistere alle pressioni dei ceti più abbienti costituiscono le file del banditismo pontificio, cui non è d’altro canto estraneo quello spirito d’individualismo e di rivolta così diffuso in quel periodo. È la ribellione contro un potere che non si riconosce e che si combatte perché diretto solo allo sfruttamento; ma il potere nemico non è tanto quello pontificio, che ancora nella seconda metà del secolo XVI non appare prevalente, quanto piuttosto quello delle autorità locali, le città, i feudatari, i proprietari comunque privilegiati” (Caravale, p. 344); “Strettamente connesso con questa reazione feudale [il riferimento è alla politica antifeudale del pontefice] è il fenomeno costituito dal dilagare del banditismo durante gli ultimi anni di Gregorio XIII, fenomeno che affonda le sue radici nella crisi economica delle campagne, nella crescente pressione fiscale, ma che trova un forte impulso nella protezione ad esso concessa dai baroni. […] Esso [il banditismo] può essere anche considerato come estremo tentativo di lotta delle forze particolaristiche locali contro l’invadenza sempre maggiore dello Stato: da questo punto di vista il brigantaggio non rappresenta un fenomeno esclusivamente negativo, ma anche una crisi di crescenza” (Prodi, p. 80). Del resto tale tesi, ripresa successivamente dallo stesso Prodi, era mutuata direttamente dal Delumeau che “non negava l’esistenza del banditismo ma vedeva in esso la ribellione di fronte all’avanzata dello Stato” (Prodi, Il sovrano pontefice, cit., p. 84).

31

Cfr. F. Braudel, La Méditeranée et le monde mediterranéen à l’époque de Philippe II, vol. II, Paris, 1966, pp. 75-94.

32 E. J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Einaudi, Torino, 1971 [ed. or. Bandits,

quella delle istituzioni e della legalità.33 La questione della costruzione pontificia finisce per emergere però in tutta la sua forza anche da questo quadro più strettamente sociale; appare così una contradditoria forma del governo papale, incapace di mostrarsi maturo e in grado di compiere “quel salto di qualità” che di fatto permise alle altre monarchie di ristrutturarsi su nuove basi, con il consolidamento di vecchi ruoli e la creazione di nuovi.34

Indipendentemente dalle questioni storiografiche che attribuiscono le cause a processi di lungo o breve periodo, e a prescindere ora dall’analisi del risultato di questo serrato confronto fra istituzioni e violenza – che sembra aver messo a nudo l’immaturità delle strutture pontificie – quello che occorre affrontare in questa ricerca è come venga a realizzarsi, di conseguenza allo scontro, il tentativo di rafforzare le strutture adibite al controllo e alla repressione. Nel crinale di quei decenni si evidenzia di fatto una percentuale ben più alta di provvedimenti emanati dalle diverse curie giudiziarie, come bandi ed editti indirizzati complessivamente ad una maggiore severità penale e semplificazione giurisdizionale, capace di permettere una giustizia più celere ed efficace.

Non è un caso forse che all’interno del processo inquisitorio ordinario – per il quale erano previste alcune concessioni all’imputato, come il ricevimento del processo informativo e la possibilità di accedere ad un contraddittorio con un avvocato difensore – venne proprio in questo periodo ad estendersi l’applicazione di una procedura sommaria, fino ad allora prevista quasi esclusivamente per il crimine dell’eresia e della lesa maestà.35 Accanto a queste importanti modifiche procedurali e all’allargarsi della loro applicazione, vennero affiancandosi normative pontificie al fine di porre correttivi più o meno ampi nell’organizzazione delle singole curie. Quindi se da un lato si procedette con la severa lotta

33 I. Fosi, La società violenta, cit., pp. 11-19. La studiosa, accanto a processi “famosi” come quelli contro Marco

Sciarra e Alfonso Piccolomini, affianca un’indagine più capillare dei caratteri del banditismo pontificio della seconda metà del Cinquecento, partendo dal contesto geografico e storico, articolando ulteriormente la distinzione cronologica tra i due periodi classici della storiografia sull’argomento – cioè dal 1570 a Gregorio XIII, banditismo come risposta della reazione feudale alle iniziative dei pontefici, e la fase successiva, fino a Clemente VIII, come conseguenza di carestie e malessere sociale. La Fosi qui individua tre fasi principali, tra