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Super Reformatio tribunalium Urbis Tribunali e riforme

Paolo V

Una naturale propensione, unita alla profonda competenza, per il governo della giustizia appare emergere in maniera preponderante dalla figura di papa Clemente VIII (1592-1605). Questa attitudine era stata indotta nel pontefice da una lunga esperienza forense trasmessagli dal padre Silvestro. Egli, proveniente da una nobile famiglia fiorentina, gli Aldobrandini, dopo aver subito l’esilio alla caduta della libertà repubblicana, s’era trovato a peregrinare, offrendo servigi a diversi signori e trovando infine nella corte romana e nell’esercizio dell’avvocatura concistoriale, il contesto nel quale poter riportare ai vecchi fasti la propria casata. Il figlio Ippolito aveva percorso così una brillante carriera curiale, attraverso

74 “Per quanto riguarda il percorso specifico della nostra civiltà cristiana occidentale ci troviamo di fronte […] ad

un concreto sdoppiamento della giurisdizione tra foro esterno il cui interprete è il giudice e un foro interno amministrato normalmente dal confessore non come semplice perdono dei peccati ma come esercizio effettivo di un giudizio, di un potere sull’uomo: il nostro mondo attuale della giustizia e della colpa, pur secolarizzato con lo sviluppo del monopolio statale del diritto e con le scoperte della psicanalisi, non è comprensibile se non si tiene conto di questa dialettica storica” (P. Prodi, Una storia della giustizia, cit., p. 15). Nella premessa al suo vasto studio, Paolo Prodi proponeva una “Storia della Giustizia” il cui baricentro appariva incentrato nella progressiva affermazione del dualismo tra foro della coscienza e foro civile. Questo si sarebbe intrecciato in maniera simbiotica con il pluralismo degli ordinamenti e delle corti che traeva origine dal contesto tardo medievale che è stato delineato nell’analisi precedente (P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 227-229). Sullo stesso filone storiografico cfr. G. Bonacchi, Legge e peccato. Anime, corpi, giustizia alla corte dei Papi, Laterza, Roma-Bari, 1995; John, Bossy, Dalla comunita all'individuo : per una storia sociale dei sacramenti nell'Europa

moderna, Torino, Einaudi, 1998; V. Lavenia, L’infamia e il perdono. Tributi, pene e confessione nella teologia morale della prima età moderna, Bologna, il Mulino, 2004.

l’esercizio di un ufficio uditorale, quello della Rota, tale da condurlo rapidamente al cardinalato e al pontificato.75

Riconducendo l’esperienza clementina alla normativa inerente al Tribunale dell’A.C. occorre innanzitutto considerare la Ea Romani Pontifici dell’agosto 1596.76 Il provvedimento – nella sua tipologia collegabile alla nomina del nuovo titolare, il romano Marcello Lante – faceva seguito ad un breve richiamo alle norme indirizzate all’applicazione del decreto conciliare relativo alla punizione dei regolari che al di fuori del convento si fossero macchiati di “scandalosi” delitti 77.

Dopo aver confermato i privilegi e gli oneri connessi, il pontefice sottolineava innanzitutto le facoltà e le competenze nelle pratiche criminali avocate innanzi al Tribunale, anche quelle in cui fosse stata prevista la pena dell’ultimo supplizio. Inoltre la normativa ribadiva il diritto dell’A.C. di sottrarre ai giudici usurpatori della propria giurisdizione le cause nelle quali essi impropriamente si fossero immessi, riaffermando così la competenza su omnes et singulas

spirituales, ecclesiasticas et prophanas, ac quorumvis etiam eiusdem Romanae Ecclesiae cardinalium, eorumque et nostrorum familiarium, continuorum commensalium, nec non quorumcumque praelatorum in ipsa Curia degentium78. La conferma di tali prerogative

appare in qualche modo connessa al nuovo orizzonte post-tridentino, soprattutto nella circostanza di un sempre più stringente controllo sugli ecclesiastici. Quanto ai vescovi, la reiterazione delle norme, già emanate da Pio IV e Pio V, mostra ancora l’estensione giurisdizionale verso il loro controllo e il rispetto del precetto della residenza; tuttavia rimane ancora il vincolo principale della commissione papale. Accanto poi alla vasta competenza in seno alla Curia e alla città di Roma, l’A.C. continua a godere soprattutto di una vasta estensione giurisdizionale, nelle cause commissariate tam civiles quam criminales et mixtas,

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Per le notizie relative alla casata Aldobrandini mi sono avvalso di alcune relazioni e annotazioni contemporanee al pontificato di Clemente VIII o di poco successive, conservate presso l’ASV, e precisamente in: ASV, Fondo Borghese, IV, 293, Dell’origine et personaggi di Casa Aldobrandina insino a Silvestro Padre di

Papa Clemente VIII cc. 21r-26v; Notizie relative a casa Aldobrandini, cc. 100r-103v; ASV, Fondo Borghese,

IV, 221-222, Notizie di Clemente VIII. De’ cardinali San Giorgio e Aldobrandini suoi nipoti e di Gianfrancesco

Aldobrandini loro cognato, estratte Da una relazione della Corte di Roma fatta dal Cav. Gio. Delfino Ambasciatore della Republica di Venezia l’anno 1600, cc. 2r-7v; ASV, Fondo Borghese, IV, 288, Lettere varie

relative a casa Aldobrandini, s.n.; cfr. anche le voci sui componenti della famiglia Aldobrandini in DBI, vol. II (1960), pp. 100-114; V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare, Edizioni Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Milano, 1928, vol. I, p. 350; I. Fosi, Aldobrandini, in Le grandi famiglie italiane. Le élites che hanno

condizionato la storia d’Italia, a cura di Wolker Reinhardt, Neri Pozza editore, Vicenza, 1996, pp. 49-55. 76 Ea Romanis Pontificis, in Bullarum, Taurinensi, vol. 10, pp. 280-288.

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Cfr. Suscepti muneris, Ivi, pp. 249-250. Si trattava di un semplice correttivo di fronte alle trasgressioni frequenti da parte dei superiori degli ordini che non fornivano adeguate garanzie punitive al vescovo della diocesi entro qui si trovava il Convento.

soprattutto all’interno delle terre della Chiesa ed addirittura extra eas nelle cause decise dagli ordinari, potendo riceve gli appelli da tutta l’Orbe cattolica. Si vedrà successivamente – per quanto sarà possibile anche attraverso un calcolo percentuale sulle sentenze emanate dal Tribunale – quanto tali estese normative ebbero nel concreto un’effettiva applicazione.

Al di là della conferma di competenze e giurisdizioni di cui ormai si conoscono i confini, ciò che caratterizza questa bolla di nomina è il tentativo del pontefice di porre alcuni correttivi, di cui evidentemente necessitava allora la procedura del Tribunale, rispetto alla pur valida normativa precedente. In primo luogo, nelle cause criminali relative alle comunità

immediate subiectis alla Santa Sede, né l’A.C. né tantomeno i suoi luogotenenti, avrebbero

potuto rilasciare monitori, senza prima averne fatto “verbo” con il pontefice stesso, soprattutto per quei casi contenuti nella bolla In coena Domini - norma questa che completava quella già prevista per coloro che dimoravano al di fuori dei confini statali; i mandati esecutivi contro i debitori, dove fosse stato presente un sospetto di fuga, in nessun modo avrebbero potuto essere applicati dal giudice se prima non ne fosse stata fatta la debita registrazione; quanto al salario del luogotenente criminale, questi avrebbe dovuto accontentarsi di quello stabilito, senza l’esazione di “sportule” o altre rendite particolari; i sostituti dei notai, infine, non avrebbero potuto ricevere l’ammissione agli uffici se non tramite un preventivo esame da parte del collegio degli stessi notai.79

Questi correttivi, per quanto disomogenei, mostrano ancora una volta la profondità del disordine giudiziario, anche nelle singole tappe procedurali o nella legalità degli uffici, che Clemente VIII dovette percepire. Nella contingenza della nomina del Lante egli colse l’occasione per raddrizzare alcune storture nella procedura dell’Auditor Camerae, ma ciò non dovrebbe portare a considerare l’interesse del pontefice solo per la razionalizzazione di questo specifico Tribunale. Egli seppe preoccuparsi dell’amministrazione giudiziaria tout court della citta tiberina, come del resto pienamente espresso dal vasto tentativo di riforma - rimasta inedita e conservata presso le carte vaticane - che fu in seguito alla base della prima sessione di lavori della commissione cardinalizia nominata da Paolo V nel 1608.

Si procederà per gradi, cercando di richiamare alcuni concetti e fornire qualche annotazione, seppur abbastanza nota, che assumerà nell’economia di questo studio un forte valore propedeutico. La considerazione complessiva della giustizia nella città di Roma, tra i

pontificati Aldobrandini e Borghese, costituirà infatti lo scenario entro cui si muoverà l’analisi nella seconda parte della tesi.

Il punto d’approdo – e se si vuole anche di ripartenza – della giustizia tardo cinquecentesca è rappresentato senza dubbio dalla nomina della già citata congregazione di studio del 1608, che avrebbe dovuto convogliare i propri lavori nella redazione di una profonda riforma del sistema giudiziario – non solo ordinario – della città di Roma.80 Tale modo di procedere non era nuovo presso la Curia romana, ma l’analisi della lista dei membri componenti la congregazione rappresenta di per sé una spia dell’importanza e vastità del progetto paolino. Accanto all’uditore e decano del Tribunale rotale, Francisco Peña – redattore del diario delle sedute – trovavano posto i titolari dei principali tribunali romani, nonché il procuratore fiscale Farinacci e il decano dei chierici della R.C.A. Innocenzo Malvasia; a questi si aggiungevano l’avvocato dei poveri e il commissario della Camera, l’avvocato della curia capitolina e altri esponenti principali delle diverse istituzioni giudiziarie, legate sia all’amministrazione statale che a quella municipale. Quindi non una commissione cardinalizia ma un’assemblea di esperti del settore e giuristi, chiamati ad una seria riflessione su quelli che erano i mali della giustizia, da cui sarebbero dovute emergere le utili correzioni di un sistema che da ormai un secolo i pontefici tentavano di rendere ordinato e razionale. L’anelito paolino – destinato a produrre quella vasta riforma del 1612, piattaforma dell’organizzazione giudiziaria romana fino ai pontificati innocenziani di fine Seicento – non sarebbe però pienamente comprensibile se non fosse stato influenzato dal precedente tentativo clementino a cui molto probabilmente, in qualità di cardinale, lo stesso Borghese dovette trovarvisi coinvolto.

Non è un caso che le carte inedite di tale riforma si trovino in parte presso il Fondo Borghese nell’Archivio Vaticano, e in parte conservati in alcuni codici miscellanei della Biblioteca Apostolica Vaticana.81 Del resto appare essere lo stesso Paolo V a sottoporre all’attenzione dei congregati, infrascripta capita reformationis quam facere intendebat

80 Sulla costituzione paolina del 1612 e sulla commissione di studio cfr. il validissimo saggio di S. Feci, Riformare in antico regime. Sulla riforma del 1612 cfr anche M. Di Sivo, Roman criminal justice.

81 Si tratta in realtà di un duplice disegno del pontefice Aldobrandini: il primo riguardante i tribunali e gli

ufficiali della Camera Apostolica e di tutto lo Stato Pontificio; il secondo una riforma più ampia dei tribunali del Camerlengo, del tesoriere dei chierici di Camera e di altri ufficiali della R.C.A. I documenti vengono segnalati da Simona Feci nella nota 79 a p. 132 del saggio succitato, conservati in BAV, Vat. Lat. 5427, cc. 2r e sgg.; ASV, Fondo Borghese, I, 28 c. 260; ASV, Misc. Arm. XI, 90, cc. 68r, 69r e sgg.; ASV, Fondo Borghese, IV, 216, cc. 68r e sgg.; BAV, Vat. Lat. 5549, Reformationes tribunalium Urbis de ordine SDN Clementis papae VIII. Non è stato possibile consultare la documentazione conservata presso la BAV per la chiusura di quest’ultima a seguito di lavori di restauro.

Clemens 8 S.me Me.a ut in prima congregatione, qua erit die Veneris proxime sequentis [14

marzo 1608], per poterne poi in seguito ricevere una più compiuta opinione.82

Assieme a questi tentativi clementini rimasti inediti, la commissione sottopose a studio anche altre disposizioni emanate da pontefici precedenti quali Paolo III, Pio IV, Pio V per quello che riguardava il Tribunale dell’A.C. e i visitatori delle carceri, e infine anche le disposizioni di Gregorio XIII e Sisto V. Dal decano rotale, Francisco Peña, sin dalle prime carte vengono riportate le osservazioni dei congregati sui singoli capitoli, e specularmente, nelle carte successive appaiono registrati quelli al centro della discussione: accanto a capi di natura procedurale e generale - in cui venivano affermati principi contenuti nel diritto comune, negli Statuta municipali, o normalizzati dall’emissione di bandi ed editti - ne seguivano altri indirizzati ad aspetti più controversi di giurisdizione fra i tribunali e competenze di singoli giudici.

Questa materia è stata lungamente studiata e ne ha fornito una pregevole sintesi Simona Feci alcuni anni fa83; per questo motivo non si ritiene necessario soffermarvisi oltremodo, se non per richiamare alcuni passaggi importanti legati al Tribunale.

Innanzitutto, la studiosa metteva in luce come dallo scorrere della documentazione la presenza del pontefice stesso alle sedute dei lavori non apparisse che occasionale e quasi mai si trasformava in una presenza invasiva; tuttavia il suo interesse per il procedere dei lavori fu tutt’altro che limitato, poiche talora il suo giudizio finì per assumere un vero e proprio valore vincolante. È il caso, ad esempio, della norma relativa alla regolamentazione degli uffici notarili del Tribunale dell’Auditor Camerae, aspetto questo che dovette apparire al pontefice sempre molto disordinato già dagli anni in cui ricopriva la titolarità del Tribunale e che produsse in sede di riforma uno dei più lunghi capitoli della Universi agri dominici (il 19), relativo proprio ai collegi notarili e ai documenti da essi prodotti.

Nella seduta del 9 gennaio 1609 Paolo V inoltrò alla congregazione alcuni punti inviati qualche tempo prima dagli agenti delle province, dove al primo capo ci si appuntava proprio contro una mala consuetudine portata avanti dai notai dell’Auditor Camerae, forse con la connivenza dello stesso titolare del Tribunale:

Perché li notari di Mons.r Auditore della Camera danno passim li monitorij in cause ordinarie, le quali tanto de iure communi come sa V.S.tà quanto in virtù de Privilegii che hanno diverse Communità et

82 ASV, Fondo Borghese, I, 28, c. 258r.

luoghi, che le prime instanzie siano conosciute in partibus, non si possano concedere, et se bene poi se revocano alle volte, ad instanza del reo, non è per questo, ch’egli non habbia havuto incommodo et spesa. Si supplica humilmente V.S.tà à degnarsi di rescrivere, che nella riforma da farsi per il detto Tribunale si habbia particolare consideratione à questo capo, sicome si ricerca per sollevamento de suoi sudditi.84

Infatti, sarebbe bene richiamare nella normativa sin qui vista il capitolo che riconosce la prima istanza all’A.C. per i territori ecclesiastici solo nelle cause trasmesse al Tribunale per commissione; il non rispetto di questa regola motivava gli appelli alla correzione suscitati dalle diverse curie de partibus che si vedevano spesso superare nell’ordinaria amministrazione dal Tribunale romano. Inoltre, anche nel procedere in quelle cause in forma

Camerae – privilegio riconosciuto da lungo tempo all’A.C. – i motivi di ricorso delle curie

locali erano spesso giustificati da abusi e storture ben evidenti:

In oltre si rappresenta anco alla S.tà V. che molti per oblighi, che hanno fatto in forma Camerae, mentre sono citati in Roma, non potendosi difendere per la loro povertà, si lasciano cavar mandati in contumacia, et finiscono poi d’andare in ruina, et per l’esecutioni, et perché ben spesso se li leva con essi quello che non se li levaria se si fossero potuti fare intendere. Si supplica però anco V. S.tà à commandare, che per una certa somma, almeno da 30 scudi à basso, non si possano dar mandati extra Curiam sotto quella pena al Notario, che parerà alla S.tà V.85

E, riguardo a tali eccessi, il memoriale degli agenti terminava richiamando ancora quelli ben evidenti nel procedere del Tribunale uditorale romano:

Ultimo si supplisca V. B.ne d’ordine, che gl’animali et beni, che in virtù de mandati relassati nel tribunale di Mons. Auditore della Camera si piglino in esecutione in partibus, non si possano portare da luogo à luogo, ma che si debbano subhastare nel medesmo luogo, dove si eseguisce il mandato, mentre vi siano li ministri necessarij, come anco che quelli, che in virtù di detti mandati sono stati fatti pregione non siano carcerati se non nel medesmo luogo dove s’è fatta la cattura, mentre lì vi siano carceri sicure.86

84 ASV, Misc. Arm, XI, 90, c. 48r. 85 Ibid.

Il 23 gennaio venivano annotati dal Peña alcuni punti che avrebbero dovuto essere considerati da coloro a cui era richiesto di presiedere alla necessaria riforma, che – occorre sottolinearlo – il pontefice aveva ordinato “per benefitio de tutto lo stato ecclesiastico”:

1. Et prima prohibisce, che nessuno per pretenso credito da cento scudi in giù etiam in virtù d’obbligo giurato in forma Camerae, possa convenire il debitore in prima instanza avanti l’Auditore della Camera ò suo giudice, ma debba convenirlo nel Tribunale del reo, ecclesiastico ò secolare che sia. 2. Che ne donne ne minori possino in prima instantia per qualsivoglia causa, et occasione citare in partibus avanti l’Auditore della Camera ò suoi Giudici, se prima avanti l’ordinario del Reo non sarà conosciuta, et terminata la prima instantia: altrimente il tutto si renda nullo, et invalido, et ad allegare et opprimere ciò s’ammetta ogni persona senza procupare alcuna, ex quo mulieres trahunt et non trahuntur.

3. Sicome tutti li tribunali secolari hanno tassa delle Mercedi, et propine, così necessarissima cosa è, che tutti li Tribunali ecclesiastici particolarmente habbino una nota distincta de tutte mercedi, si de Notarii et Cancellieri come de propine de Giudice et offitiali, acciò si possa ovviare alle tante notorie et quotidiane estorsioni, che si commettono non senza scandalo populare.

4. Che tutti li giudici, offitiali, et ministri delli Tribunali ecclesiastici debbano dare sindacato eccetto però delle mere et semplici spirituali, nel resto come gl’altri giudici et offitiali, et Laici et temporali sicome devono in ogni affare dar buono esempio à tutti maggiormente in ciò dovendo gl’huomini da bene procurare dar conto di se, et delle loro attioni di che quanto ce ne sia necessità il Mondo lo sa.87

Da questa analisi si evidenzia come buona parte del disordine giudiziario nascesse di fatto da una serie di estorsioni e guadagni illeciti a danno di coloro che finivano negli ingranaggi della giustizia; tuttavia i memoriali inviati dagli agenti di provincia e le osservazioni annotate dal decato rotale, propongono anche un quadro da cui emerge, in maniera concreta, l’insofferenza delle curie particolari di fronte alla preponderanza dei tribunali “sovrani”. Ciò che si domanda con maggior forza dalle comunità è il rispetto di un equilibrio ormai plurisecolare stabilito tra il centro e la periferia, attraverso il quale il riconoscimento di tradizionali concessioni, nate dal contesto locale, sopravvivono alla struttura accentratrice dello Stato.

Di fronte a questo equilibrio così precario quale fu la posizione del pontefice Borghese? Sin dall’inizio – come ben espresso da Simona Feci – la linea seguita da Paolo V non nascondeva il tentativo di operare un’ulteriore stretta accentratrice sia nell’ambito della

politica temporale che in quella prettamente universale della Chiesa cattolica (le due cose tra l’altro non sembrano andare separate, soprattutto negli anni della Controriforma): estensione delle prerogative della congregazione del Buon Governo dal punto di vista giudiziario; revoca ai superiori degli ordini religiosi della facoltà di giudicare le cause in cui fossero incorsi propri confratelli e di pertinenza del Tribunale dell’Inquisizione; reiterazione dell’obbligo di residenza ai vescovi; allargamento della congregazione del Sant’Uffizio; ricapitolazione di tutte le norme contenute nei bandi generali contro la criminalità diffusa nello Stato dello Chiesa88, appaiono solo alcune delle principali decisioni intraprese dal Borghese. Del resto il suo tentativo di riforma, intesa come ritorno alle norme originarie sottostanti all’amministrazione della giustizia, si ricollegava direttamente a quei predecessori che ricoprirono un ruolo fondamentale nella costruzione dello Stato a partire dalla metà del Cinquecento; certamente Paolo V non potè procedere contro privilegi e norme comunitarie di antica tradizione, ma solo attraverso il ristabilimento di un equilibrio che di fatto sottolineasse l’affermazione della monarchia pontificia. Il segno di un mancato cedimento, di fronte alle richieste particolaristiche, può essere ben letto nel capitolo 4 – relativo all’Auditor Camerae e al suo Tribunale – della riforma del 1612, quando al paragrafo 5 il pontefice afferma come:

In causis criminalibus, in locis Nobis et Sanctae Romanae Ecclesiae immediate subiectis, in posterum non decernantur, neque relaxentur monitoria contra aliquem in prima instantia, nisi per Auditorem Camerae pro tempore, facto prius verbo nobiscum, seu cum romano Pontifice pro tempore existente, praeterquam in casibus in Bulla in Coena Domini legi solita contentis.89

Egli affidava così alla propria decisione, non solo le cause in criminalibus suddette, ma anche tutte quelle relative ai vescovi e prelati, sulla linea ormai ben consolidata di Pio IV, ponendosi