3. IL LAVORO PENITENZIARIO: IDENTITA’ E CAMBIAMENTI
3.1. Categorie sociali, gruppi e processi di identificazione
Alla base di un’identità sociale vi è sempre un processo di categorizzazione. La categorizzazione è il più essenziale tra i processi cognitivi (Jenkins 2000; Hogg 2001); esso consente di ridurre, ordinare e rendere prevedibile la complessità degli stimoli e delle informazioni recepite, permettendo agli individui di adattarsi al contesto delle interazioni quotidiane. Attraverso la categorizzazione, alcuni significati vengono enfatizzati al fine di demarcare distinzioni, stabilire similarità e predire i pattern più probabili in un contesto di interazione (Hogg 2001). Tale processo agisce dunque mediante l’accentuazione di alcuni aspetti che concorrono a definire determinate categorie, rispetto ai quali vengono demarcate delle differenze tra gruppi e delle similarità tra gli individui all’interno di ciascuno di essi (Hogg 2001). Alla base di questa associazione di significati vi è un tentativo di definizione. Come ben argomenta Jenkins (2000:8): “sapere chi siamo è prerequisito dell’azione sociale”.
Il processo di categorizzazione colloca dunque gli individui all’interno di categorie sociali (Hogg 2001). Ogni categoria è definita sulla base di una serie di proprietà che insieme concorrono a definire un “prototipo” (Burke e Stets 2009), ovvero un’astrazione atta a massimizzare le differenze intra gruppi e le similarità infra gruppo: in breve, ad essenzializzare. Il nesso esistente tra categorie sociali ed identità sociali è rappresentato dal processo di depersonalizzazione. La depersonalizzazione consente di percepire gli individui appartenenti ad una determinata categoria come omogenei dal punto di vista degli atteggiamenti, dei comportamenti e dei pensieri (Hogg 2001). Poiché alla base della percezione vi è un modello prototipico di categoria sociale, la
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depersonalizzazione dovrebbe essere considerata come un processo di gruppo, piuttosto che individuale (Hogg 2001). Invero, le persone classificano se stesse in relazione ad altri, sulla base dei modelli prototipici disponibili (Jenkins 2000). Nell’ambito della cosiddetta “Social Identity Theory” (Tajefel e Turner 1979), gli studiosi della self-categorization riconducono i concetti relativi al sé ad un processo di auto-categorizzazione (Turner et all 1987; Hogg 2001). La concezione del sé in termini collettivi, diciamo dunque un’ identità sociale (Tajfel 1978, p. 63), si sviluppa quando gli individui categorizzano sé stessi in relazione ad altri, e quindi si depersonalizzano, attribuendosi delle caratteristiche prototipiche sulla base dell’appartenenza ad un determinato gruppo (Hogg 2001: 208). Questo processo viene definito da Jenkins (2000) come self o group - identification (orientato internamente) e si contrappone alla categorizzazione effettuata ad opera di altri individui (dunque orientata esternamente). La definizione di due momenti costitutivi del processo di identificazione permette un’ulteriore distinzione di natura epistemologica, tra gruppi sociali e categorie sociali. I primi fanno riferimento ad una collettività riconosciuta dai suoi membri (definizione interna), le seconde sono collettività identificate e definite da altri (definizione esterna) (Jenkins 2000:9). Oltre ad una dimensione puramente cognitiva, l’identità sociale implica anche una componente emozionale (l’attaccamento al proprio gruppo), una valutativa (legata alla valutazione ed al giudizio del gruppo di appartenenza dall’esterno), ed una dimensione riconducibile alle conseguenze dell’identificazione dal punto di vista del comportamento (Van Dick 2001; Dick et all 2005: 274).
Da ciò consegue un primo importante assunto: la percezione che un individuo manifesta del proprio sé in termini collettivi è strettamente connessa all’appartenenza ad un gruppo (Hogg 2001; Tajfel e Turner 1979, 1986, Dick et all 2005). Le categorie sociali sono perennemente accessibili nella memoria di un individuo (Hogg 2001), ma ciò non significa che necessariamente l’individuo vi si identifichi e assuma comportamenti ad esse coerenti. Al contrario, il processo di identificazione avviene in relazione alla salienza (Hogg e Terry 2000) di una determinata categoria sociale rispetto al contesto ed alla situazione. Come ben argomenta Hogg (2001), ciò significa che alcune categorie sono in grado, meglio di altre, di render conto delle similarità e delle differenze tra le persone in un determinato contesto (structural fit) e di accordarsi quindi con il significato sociale di un contesto (normative fit). Nondimeno, nel processo di identificazione sociale non conta solo la salienza di una categoria dal punto di vista
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dell’individuo che vi si identifica. Al contrario, come si è argomentato, si tratta di un processo dialettico di momenti interni ed esterni, ovvero, come identifichiamo noi stessi, come gli altri identificano noi, e la continua interazione tra essi. L’identificazione sociale è dunque prodotto emergente di questi processi (Jewkins 2000:7). Quando quest’ultima avviene, le persone possono mettere in atto una serie di comportamenti coerenti con il modello prototipico del gruppo, al fine di convalidare la loro appartenenza, pubblicamente ed intimamente. Inoltre, la performance continuativa di un comportamento prototipico può comportare un cambiamento durevole nella rappresentazione del sé (Hogg 2001). In questo senso, si potrebbe delineare un parallelo tra la teoria psico-sociale della self – categorization e la nozione sociologica di “performative identity” delineata da Butler (1988) in relazione ai suoi studi sull’identità di genere. Secondo l’autrice, la ripetizione di atti stilizzati (prototipici) produrrebbe l’apparenza di un’identità sostanziale. Invero, l’identità viene intesa come un “risultato performativo a cui l’audience sociale, inclusi gli stessi attori, giungono a credere come reale” (Butler 1988: 520). Ciò implica sostanzialmente l’assenza di un “vero” sé antecedente ai comportamenti assunti da una persona. Al contrario, il sè si strutturerebbe nell’ atto, nella performance della propria appartenenza ad una categoria sociale, producendo così l’illusione di un’identità sostanziale. Invero, secondo la concezione di “performative identity” di Butler, il comportamento non è spiegato da, ma crea un’identità. Il nesso tra attitudini e comportamento è da sempre un nodo problematico per le scienze sociali. Ciononostante, che vi sia o meno un sé autentico ad indirizzare gli atti di una persona, e sia che ciò avvenga più o meno consapevolmente, sembra ragionevole pensare al comportamento come una modalità attraverso cui gli individui affermano, nascondono, distorcono un’ identità sociale (Hogg 2001: 212). L’identità è quindi prodotta e riprodotta attraverso i comportamenti ed alle rappresentazioni retoriche e narrative che una persona manifesta in relazione al proprio sé (Jenkins 2014: 201).
Per spiegare come le identità sociali vengano interiorizzate, Jenkins (2000: 12-13) individua tre “ordini” di fenomeni sociali interdipendenti: l’ordine individuale, quello relativo all’interazione e quello istituzionale. Gli individui sono incorporati (embodied) in ciascuno di questi ordini. L’immagine del self , ossia il modo in cui noi vediamo noi stessi e vorremmo essere visti dagli altri, incontra la propria corrispettiva immagine pubblica, ovvero come ci categorizzano gli altri, nell’ordine delle interazioni. A questo
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livello, può avvenire il processo di identificazione con delle categorie sociali e dunque l’identificazione in un gruppo. I gruppi, a loro volta, sono istituzioni, ovvero pattern di identificazione consolidati nel tempo in un particolare contesto sociale e di cui gli individui sono consapevoli (Jenkins 2000: 13). Ciò significa che l’identità si riproduce nell’interazione tra individui in contesti istituzionalizzati (ordine istituzionale). Jenkins (2000) identifica diverse motivazioni per cui le definizioni esterne vengono interiorizzate. Anzitutto potrebbe esservi similarità tra le definizioni esterne e quelle interne di cui gli appartenenti ad un gruppo sono portatori. In egual modo, le interazioni prolungate tra gruppi possono modificare e far convergere le modalità di identificazione dei rispettivi membri. Le categorie esterne possono inoltre essere percepite come valide poiché sorrette da un framework politico condiviso e da un’autorità considerata come legittima. Al contrario, quando le categorie sociali vengono percepite come imposte in modo ingiustificato, i membri di un gruppo possono resistervi, ma ciò avviene mediante l’interiorizzazione delle stesse come fulcro di un processo di negazione. Infine, l’interiorizzazione di categorie esterne può essere il risultato di un’ imposizione di potere. Ciò che Jenkins (2000) intende dimostrare è la natura consequenziale della categorizzazione. Il processo di categorizzazione esterna ha sempre delle conseguenze reali, spesso non intenzionali. L’argomentazione dell’autore si pone in antitesi con quelle posizioni teoriche che enfatizzano la malleabilità delle identità e l’autodeterminazione degli individui odierni. La critica di Jenkins si indirizza in particolar modo a Giddens, per l’eccessiva enfasi che quest’ultimo pone sulla riflessività, intesa come disancoramento degli individui, individualizzazione e svalutazione del social embeddedness, ovvero del contesto sociale nel quale gli individui sono radicati. In aperta opposizione alla tesi di Giddens (1991), per il quale la riflessività dell’ identità personale rappresenta una caratteristica distintivamente moderna, Jenkins (2000) afferma che sono i discorsi categorizzanti del potere e della conoscenza a definire in modo più appropriato l’epoca moderna. Implicito è il richiamo a Focault (1982) e all’idea di “potere produttivo”.
La vasta produzione teorica di Foucault, incluso il trattato sul sistema delle carceri ed i meccanismi di punizione (1975), è da interpretare alla luce dell’intendo più generale dell’autore di esplorare le modalità attraverso cui “human beings are made subjects” (Foucault 1982). Il concetto di “subject” fa riferimento ad una persona che è controllata e dipendente, la cui identità è vincolata ad un processo di categorizzazione e
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classificazione. Il potere è il fulcro dei processi di categorizzazione. Esso è inteso come un fenomeno relazionale, in quando presuppone vi siano individui o istituzioni capaci di imporre un sistema di classificazioni, alterando di conseguenza la percezione e la condotta di altre persone. Ciò avviene attraverso quelli che Foucault definisce come i “discorsi”, ovvero, sistemi di conoscenza consolidati che classificano e categorizzano gli individui sulla base di determinate caratteristiche, andando così a definire il dominio del potere e delle possibilità umane. La classificazione degli individui, sorretta e perpetrata attraverso i discorsi, non solo è funzionale al mantenimento delle istituzioni, ma adempie anche al compito di definire e controllare le identità delle persone in determinati contesti. Di fatto, essa è parte di quei meccanismi sottili, bensì totalizzanti, che Foucault ha definito “discipline” (1975: 137; 1982). Le discipline sono metodi di controllo atti a dominare e organizzare il corpo degli individui, i loro movimenti e le loro esperienze. Esse “creano” di fatto gli individui, li distinguono dalla massa, li classificano e li sottopongono ad un processo di oggettificazione. Riprendendo il concetto di identificazione come processo dialettico costituito da momenti di categorizzazione interna ed esterna, sembrerebbe che nella visione di Foucault l’ago della bilancia sia spropositatamente sbilanciato nei confronti dei secondi. Ne deduciamo che la classificazione esterna perpetrata, per mezzo dei discorsi, dallo Stato e dalle sue consolidate istituzioni produce, di fatto, delle identità. Si pensi al carcere, ovvero, al contesto istituzionale che supporta e giustifica l’esistenza degli agenti penitenziari. Il corpo di coloro che interagiscono in questo contesto è sistematicamente sottoposto a rigidi regolamenti, è inserito nell’organizzazione formale ed informale degli spazi, dei tempi, delle attività e dei comportamenti. Esso si trasforma dunque in un corpo “docile” (Foucault 1975). I corpi docili entrano in un meccanismo di controllo che produce individui al di fuori della massa, come soggetti da manipolare. Chiaramente, nel contesto di un istituto penitenziario, la questione del potere inteso come “produttivo” diventa ancora più evidente, e verrà dunque analizzata approfonditamente nelle pagine successive. Per il momento è sufficiente ribadire una questione più generale relativa alla comprensione dell’identità sociale degli individui, ovvero, la consequenzialità delle categorizzazioni. Il processo di categorizzazione ha sempre delle conseguenze reali (Jenkins 2000). Come ben argomenta Jenkins (2000), la identification e la self-determination sono solo parti di un processo di identificazione sociale e devono essere necessariamente contestualizzate entro l’ordine istituzionale e relazionale in cui
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l’individuo è incorporato. E questo significa necessariamente che il riconoscimento e la validazione degli Altri è fondamentale nel definire l’ambito delle possibilità di un individuo (Jenkins 2000: 21).
Intendere l’identità sociale come “un progetto riflessivo del sé” (Giddens 1991: 52) comporta il rischio di disancorare i processi di identificazione dai vincoli sociali e culturali (Adams 2003: 221). La capacità di self-determination deve piuttosto essere messa in relazione alle risorse materiali e simboliche di una persona ed alla capacità di quest’ultima di impiegarle per resistere alle categorizzazioni esterne (Abrams 2003; Jenkins 2014: 202- 205).
Esiste, tuttavia, un ulteriore contributo teorico che consente di bilanciare la questione relativa a come si costituisca un’identità sociale, mediando tra il concetto di riflessività inteso come autodeterminazione dell’individuo di Giddens e l’idea di soggetti dominati e corpi docili proposta da Foucault. Mi riferisco alla proposta interazionista di George Herbert Mead (1934), la quale, benché ampiamente antecedente al lavoro di Giddens e Foucault, rappresenta un punto di partenza interessante, ripreso e attualizzato da diversi studiosi dell’identità sociale e di ruolo e dei quali mi occuperò nelle pagine successive (Blumer 1981; Adams 2003; Stryker 2008; Burke e Stets 2009). L’aspetto più interessante del framework teorico proposto da Mead è proprio il fatto di ancorare la riflessività del soggetto al contesto delle interazioni. Alla base della consapevolezza di sé vi è un processo mediante il quale il soggetto diventa per sé stesso anche un oggetto (di auto-riflessione e valutazione). Il processo di oggettificazione avviene dunque nell’ interazione, ovvero nel momento in cui guardiamo a noi stessi dal punto di vista degli Altri e dei significati che essi ci restituiscono (Adams 2003). Il concetto di “altro generalizzato” di Mead è in questo senso cruciale. L’incontro continuo con una moltitudine di Altri fa si che l’individuo assuma la prospettiva di un “altro generalizzato” da cui valutare se stesso e modificarsi di conseguenza. Nella visione di Mead, il sé è strettamente ancorato al contesto sociale, ma è dotato anche di capacità riflessiva (Stryker 2008). La riflessività in questo contesto è però ricondotta alle dinamiche dell’interazione, ovvero dipende dalle azioni e dalle opinioni delle persone attorno a noi (Adams 2003: 233). Se nel corso dell’interazione gli individui si sottopongono ad un processo di oggettivazione sulla base di significati condivisi e predefiniti, allora è proprio lo specifico contesto culturale e sociale dell’interazione a restituire significato all’esperienza del sé (Adams 2003). Il lavoro di Mead verrà
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adeguatamente esplorato nelle pagine successive, in relazione ai contributi ad esso ispirati e proposti dagli studiosi della Identity Theory (Burke e Stets 2009; Stryke 1968, 2008; Stryke e Serpe 2012). Per il momento, limitiamoci a ricapitolare i punti fondamentali finora discussi.
1) Anzitutto, la percezione del sé in termini collettivi è strettamente connessa all’appartenenza ad un gruppo (Hogg 2011; Tajfel e Turner 1979, 1986, Dick et all 2005). Tale percezione può definirsi prototipically-based (Hogg 2001). Ciò significa che, mediante la depersonalizzazione, le persone tendono a classificare se stesse in relazione ad altri, sulla base dei modelli prototipici associati ad uno specifico gruppo (Jenkins 2000). Tuttavia, questo processo è, come si suole dire, solo una faccia della medaglia. L’identificazione deve essere intesa infatti come un processo dialettico costituito da interdipendenti momenti di classificazione interna ed esterna: ovvero, come identifichiamo noi stessi e come gli altri identificano noi. L’identificazione sociale emerge dunque da questi processi (Jewkins 2000:7). 2) Ne consegue che il riconoscimento e la validazione degli Altri sono fondamentali
nel processo di costruzione dell’identità (Jenkins 2000: 21). Il sé è radicato (embodied) ad uno specifico contesto sociale e culturale, ma è anche dotato di capacità riflessiva. La riflessività è ricondotta alle dinamiche dell’interazione, nel momento in cui l’individuo diventa per sé stesso un oggetto di auto-riflessione, e si guarda dunque dal punto di vista degli Altri. È il contesto dell’interazione a restituire il significato all’esperienza del sé (Adams 2003), e sono le risorse materiali e simboliche di cui un individuo è in possesso a determinare la sua capacità di resistere alle categorizzazioni esterne. Un’ identità sociale ha dunque una natura fondamentalmente dialogica.
3) Il processo di categorizzazione (interno ed esterno) è dunque consequenziale, ossia, ha sempre delle conseguenze reali sulla modalità attraverso cui un individuo percepisce il proprio sé e agisce coerentemente a tale percezione (Jenkins 2000). 4) Infine, nonostante la relazione tra atteggiamenti e comportamenti sia
fondamentalmente problematica, il comportamento può ragionevolmente essere inteso come una modalità attraverso cui gli individui affermano, nascondono, distorcono un’ identità sociale (Hogg 2001: 212).
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