6. LA SORVEGLIANZA DINAMICA IN CARCERE TRA RESISTENZA E
6.1. Criteri alla base della differenziazione delle risposte ai cambiamenti
6.1.3. Le fonti di legittimità
Come afferma Liebling (2011), riprendendo la definizione proposta da Bottom e Tankebe (2012), la legittimità fa riferimento all’autorità usata correttamente, ovvero, quel potere esercitato in accordo a regole prestabilite. Con particolare riferimento al contesto carcere, si è affermato in precedenza che l’esercizio dell’autorità ha una natura fondamentalmente dialogica. Infatti, nonostante vi sia una sostanziale asimmetria di potere tra agenti e popolazione detenuta, i primi non potrebbero svolgere le loro quotidiane mansioni senza la cooperazione dei secondi (Sparks et all 1996; Jackson et all 2010). L’ordine in carcere non è soltanto una questione di “assenza di violenza” e “adesione alle norme”, bensì implica un certo grado di comprensione, fiducia e dunque cooperazione tra agenti e persone detenute. Per fiducia si intende la sensazione che le pratiche e le decisioni avvengono sulla base di procedure comprensibili e accettabili, che garantiscono un certo grado di regolarità e prevedibilità (Liebling 2004; Jackson et all 2010). In questo senso, le procedure mediante le quali viene esercitata l’autorità risultano cruciali (Tyler 2003). Secondo l’approccio che in letteratura viene definito come “procedural justice”, la legittimità delle autorità viene reclamata sulla base della correttezza delle procedure mediante le quali il potere coercitivo viene esercitato. Ciononostante, si intende qui sottolineare come, nel contesto carcere, dove vi è una spropositata asimmetria di potere tra le parti coinvolte, la “correttezza” delle procedure non possa essere intesa come un dato di fatto. Invero, nelle interviste gli agenti manifestavano diverse percezioni di ciò che è accettabile in termini di esercizio dell’autorità e di ciò che rende tale autorità legittima. Se è vero che tutti gli intervistati facevano appello alla legge penitenziaria, l’intensità e la frequenza con cui quest’ultima veniva citata come fonte di legittimità delle decisioni e dei comportamenti adottati variava in modo significativo. Mantenendoci dunque su un livello di interpretazione e
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incorporazione di significati da parte degli agenti, illustriamo di seguito le fonti di legittimità dell’autorità esercitata nei confronti degli individui reclusi riscontrate nelle interviste raccolte.
1) Lo Stato
In questo caso, gli agenti tendevano a giustificare e argomentare le loro opinioni in merito alle modalità di gestione della relazione con la popolazione detenuta facendo appello alla legge dello Stato, inteso come entità astratta e superiore che struttura e dunque legittima la suddivisione degli individui in ruoli. Il ruolo è inteso in questo senso come realizzazione impersonale di un ordine formale e legalmente definito. Ci troviamo qui dinnanzi a ciò che Hepburn (1988: 146) definirebbe come “legittimate power”, secondo il quale “ la posizione strutturale degli agenti fornisce loro l’autorità formale di comandare. Gli ordini sono obbediti semplicemente perché impartiti dagli agenti, e i detenuti li accettano semplicemente perché sono detenuti”.
- Se io faccio tutto secondo la legge (il detenuto) non mi metterà mai in difficoltà chiedendomi qualcosa che non…. Io mi sento rispettato, non ho paura a venire rispettato nel carcere di Bari perché so di agire nel modo giusto, sempre secondo la legge. E questa cosa mi tutela in un certo qual modo. Non faccio un sopruso o un abuso della divisa. Né tantomeno mi faccio mettere i piedi addosso. Perché ripeto: diritti e doveri. Laddove la legge concede qualcosa ripeto faccio di tutto per fartelo avere. Se non te lo concede non me lo devi chiedere. Il rispetto lo devi guadagnare sul campo.
(B3, Ispettore)
Nelle interviste si è riscontrata una variante di questa concezione, caratterizzata da una radicalizzazione in senso conflittuale dell’enfasi posta sulla possibilità degli agenti di punire ogni comportamento non strettamente conforme alle norme formali.
- Cioè se loro vogliono andare all'aria…tu all'aria ci vai quando dico io. Devi rispettare le regole. Invece qui è sempre tutto aperto e vai quanto pare a te. No! Ci sono sempre gli orari per quello che vogliono fare. Anche se c’è la sorveglianza
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dinamica, c'è l'orario per la doccia. Dalle sei alle otto e dopo le otto non puoi venire più. Anche se è dinamica ci sono delle regole.
(4S, Ass. Capo)
- Se poi vi comportate bene (voi detenuti) anche noi ci comportiamo bene. Non Se voi state tranquilli bene, se no se fate casino noi scriviamo e scatta la punizione, perché noi facciamo gli agenti, loro fanno i detenuti. Ci vuole rispetto, rispetto reciproco.
(7S, Ass. Capo)
- Tu sei detenuto e io sono un rappresentante delle istituzioni e sono dell’area sicurezza e quindi pertanto…questo non deve essere dimenticato. Il fatto che io scendo a voler comprendere e capire il tuo dilemma, il tuo problema, è un fatto importante. Quindi io mi rapporto con autorevolezza, e intendo anche con dovizia di spiegazioni, con competenza, perché a volte chi hai di fronte non è consapevole dei regolamenti e delle leggi. Mentre io ne so un po’ più di te (detenuto) quindi tu non puoi pretendere, non puoi ricattarmi, non puoi minacciarmi.
(B23, Sovraintendente) 2) La superiorità morale
Gli agenti in questa categoria fanno appello alla differenza nella qualità morale della loro persona, che li distinguerebbe nettamente dagli individui detenuti. Questi ultimi, avendo commesso un crimine, sono considerati “individui moralmente inadeguati”, diversi, se non addirittura inferiori. Questa distinzione è supportata dunque dalla percezione di un’integrità e di una superiorità morale dell’agente che giustifica e legittima la sua autorità. In questo caso, gli agenti fanno riferimento a concetti come “onore”, “dignità”, “orgoglio”, “correttezza” per definire, e distinguere, il proprio ruolo in opposizione a quello dell’individuo detenuto.
- Se indosso una divisa è perché con la società non ho commesso nessun reato. Loro hanno commesso dai reati. E devono pagare. Io vedo sempre la televisione…
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quarto grado… gente che ha rubato nelle case… io non ho sbagliato. Indosso questa divisa per dignità e l'onore. E il detenuto se ha sbagliato deve pagare.
(B8, Ass. Capo)
- I detenuti sono persone che hanno oltrepassato il limite. Comunque sia, perché hanno rubato o hanno ucciso… Sono persone che sino a quando non entri nel carcere reputi persone da tenere lontano. Alla larga da te. Io la vedo così. Chi ammazza, chi violenta, io non lo paragono a me.
(B14, Ass. Capo, donna) 3) La personalità
In questo caso, gli agenti fanno riferimento alle caratteristiche della loro personalità e del loro carattere come principale fonte di legittimità della loro autorità. Essi traggono il senso di autorevolezza e rispetto dalla messa in gioco, nell’interazione con la persona detenuta, delle loro qualità personali e delle peculiarità caratteriali. In questo caso, il ruolo dell’agente viene interpretato in termini di “mentalità”, “personalità” e “capacità relazionali”. Ci troviamo qui dinnanzi a ciò che Hepburn (1988: 147-1489) definirebbe come “referent power”, in accordo al quale il potere di un agente nei confronti della persona detenuta dipende in larga misura dalla stima e dal rispetto che il primo riesce ad infondere nel secondo, attraverso l’esercizio di doti comunicative, persuasive e di leadership.
- Io ho una mentalità diversa rispetto alla maggioranza delle persone che fanno la scelta di entrare nelle forze dell'ordine, anche politicamente parlando, perché è inutile che ci nascondiamo, c'è la politica di mezzo, 1a scelta politica. Io sono l'opposto delle persone che normalmente stanno nelle forze dell'ordine. Io sono diversa nel modo di pensare, quindi mi adatto difficilmente agli ordini. Purtroppo è questo. La mia paura è che non voglio diventare un burocrate. Perché anche nel fare il lavoro di aprire e chiudere un cancello, senza avere le carte in mano, si può diventare dei burocrati. Che è una cosa che mi auguro di non diventare mai. La libertà. Il senso di prendersi la responsabilità di quello che si fa. Indipendentemente dal manuale e dalle leggi. Se è vero che abbiamo delle leggi che ci devono
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orientare, bisogna comunque essere liberi. Perché si ha a che fare con persone. (B19, Agente, donna)
- (in riferimento alla prima vignetta) Bisogna avere tanta pazienza, non andare mai in rotta di collisione, se così si può dire, con il detenuto, ma cercare appunto di mettere in atto una serie di…anche con la comunicazione stessa, cercare appunto di persuaderlo E renderlo quantomeno più tranquillo… E se magari la cosa non è possibile in base al tipo di giornata, in base al tipo di orario in cui viene richiesto, si cerca di stoppare il problema e dire: senti un po' ci vediamo domani che nel frattempo magari sento il capo reparto e vediamo cosa si può fare. Cioè comunque dargli sempre una risposta e non lasciarlo al macero diciamo, perché tanti fanno così. Perché il detenuto poi ci tiene, positivo o negativo che sia, se tu gli dai una parola e gli dici domani ti farò sapere, o positiva o negativa gliela devi dare la risposta. Devi saperti porti nei suoi confronti, perché se no perdi autorevolezza, perdi di credibilità e quindi poi si generano gli eventi critici.
(M1, Ispettore)