3. IL LAVORO PENITENZIARIO: IDENTITA’ E CAMBIAMENTI
3.2. L’interazionismo simbolico strutturale e l’Identity Theory
In questo paragrafo, mi occuperò di delineare gli aspetti fondamentali di una proposta teorica che ritengo utile alla comprensione dei processi di identificazione relativi soprattutto all’assunzione di un ruolo istituzionalizzato, come quello di agente penitenziario.
Le argomentazioni teoriche proposte da Mead in “Mind, Self and Society” (1934) costituiscono il punto di partenza per la comprensione della cosiddetta Identity Theory. Quest’ultima, delineatasi grazie al contributo di Sheldon Stryker (1968), ed alla successiva integrazione proposta da Burke e Stets (2009), condivide con Mead alcune fondamentali premesse. Anzitutto, si parte dal constatare la priorità della società nella costituzione del sé. L’individuo, lungi dall’essere considerato un automa sociale, è agente attivo di questo processo (Stryker 2008). Invero, le persone e la società si creano nella loro interdipendenza, senza che vi sia necessariamente priorità ontologica dell’uno sull’altro (Stryker 2008). Ciò significa che la società emerge dalle interazioni: essa può essere considerata come un’infinita routinizzazione di soluzioni a problemi ripetitivi nel contesto dell’interazione con altri individui (Stryker 2008: 17). Così come la società modella il sé, allo stesso modo le persone plasmano la società manipolando ed interpretando i significati dell’interazione.
Per comprendere le premesse dell’Identity Theory è necessario delinearne la cornice epistemologica, costituita dalla rivisitazione in chiave strutturale (Stryker 1980, 2008). dall’interazionismo simbolico di Blumer (1968). Nelle pagine precedenti ho richiamato l’attenzione sulla riflessività del sé (Mead 1934), intesa come la capacità di un individuo di pensarsi simultaneamente come soggetto e oggetto. Più precisamente, il sé emerge nel momento in cui ci connotiamo di significati e ci presentiamo sottoforma di simboli a cui gli altri possono rispondere (Burke e Stets 2009: 9). In questo modo, il sé acquisisce la capacità di pensarsi riflessivamente e di controllare, sulla base delle risposte altrui, i significati che lo connotano. Ciò significa che il sé emerge nell’incontro, nell’interazione sociale. La cornice dell’interazione sociale è però una società complessa, che divide e colloca gli individua in posizioni differenti. Nella versione strutturale dell’interazionismo simbolico proposta da Stryker (1980),
8 Eccetto dove espressamente indicato, questo paragrafo è scritto facendo costante riferimento al volume di Burke e Stets (2009) in cui vengono enunciati in modo sistematico i principi della Identity Theory.
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l’emergere del sé è strettamente connesso alle posizioni occupate dagli individui nella società. Una persona infatti possiede diversi sé in virtù delle diverse posizioni che ricopre nella società. Un’identità è dunque il complesso di questi molteplici sé (Burke e Stets 2009).
Stabilito ciò, in riferimento alla sintesi proposta da Burke e Stets (2009), ripercorriamo ora i principali punti dell’interazionismo simbolico nella sua versione strutturale, così come delineata da Stryker (1980; 2008).
Anzitutto, il comportamento si basa su un mondo classificato e nominato. I nomi ed i termini associati al mondo fisico e sociale hanno un significato. Così come inteso da Mead (1934), i significati sono risposte ad oggetti socialmente definiti (simboli, se provengono da una persona, e segni se sono stimoli che provengono dall’ambiente). I significati sono condivisi e implicano delle aspettative di comportamento, anch’esse condivise, che nascono nell’interazione sociale. Questo significa che nell’interazione gli individui imparano a classificare gli oggetti e apprendono le aspettative di comportamento in riferimento agli stessi. Il paradigma strutturale simbolico fa riferimento alla priorità assegnata, tra i termini usati per classificare il mondo, ai simboli che designano delle “posizioni”. Le posizioni sono le componenti relativamente stabili della struttura sociale ed i significati ad esse connesse implicano delle aspettative condivise che vengono definite come ruoli. Le persone sono dunque nominate/etichettate sulla base della posizione che ricoprono. Ad ogni ruolo, e ad ogni persona che ricopre tale ruolo, sono ricondotte delle aspettative e dei significati condivisi. Gli individui interiorizzano i significati e le aspettative connesse al loro ruolo e riflessivamente si autodefiniscono e definiscono gli altri sulla base delle posizioni che ricoprono. In questo modo, essi diventano parte della struttura. Si tratta di un processo di definizione di natura sostanzialmente dialogica: sei genitore nei confronti dei tuoi figli, sei datore di lavoro nei confronti dei dipendenti, sei un agente penitenziario rispetto alle persone detenute.
Burke e Stets estendono il framework delineato da Stryker (1980), incorporando in esso i concetti della cosiddetta “identity control theory”, ispirata dal lavoro di William Powers (1973). Quest’ultimo, applicando i principi della cibernetica e della teoria del “sistema del controllo” di Norbert Weiner allo studio degli esseri umani, giunge a delineare il cosiddetto “perceptual control system”, il cui assunto fondamentale afferma che gli individui non controllano i loro stessi comportamenti, bensì la loro percezione.
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Ogni nostra azione tende ad un obiettivo e la percezione rispetto a questo obiettivo fa si che noi aggiustiamo o modifichiamo il comportamento (definito in termini di output) al fine di riportare la nostra percezione in linea con l’obbiettivo dell’azione. Sulla base delle premesse dell’interazionismo strutturale simbolico delinaeto da Stryker (1980) e dalla successiva integrazione ispirata dal lavoro di Powers, Burke e Stets (2009) giungono a delineare un modello dell’identità, inteso come un insieme di processi omeostatici che tendono a mantenere entro un certo ambito i significati percepiti rispetto al proprio sé. Per comprendere questa affermazione, illustriamo di seguito le componenti dell’identità individuate dai due autori:
1. “Identity standard”. Gli standard identitari sono l’insieme dei significati che definiscono le caratteristiche di un’identità. Variano da cultura a cultura e da individuo a individuo e rappresentano i significati a cui una persona fa riferimento quando riflessivamente definisce il proprio sé. Riprendendo l’esempio di Burke e Stets (2009), io sono una donna perché mi (auto)colloco in una certa posizione nelle dimensioni di significati culturali relativi alla mascolinità e alla femminilità (per esempio: amorevole, materna, assertiva, indipendente). Gli standard identitari derivano dalla socializzazione diretta, dall’apprendimento sociale e da quello che gli autori definiscono “reflected appraisal”9.
2. Input. L’input è la nostra percezione. Come affermato in precedenza, l’assunto dell’Identity Theory fa riferimento al fatto che gli individui non controllano il comportamento o l’ambiente, ma le loro percezioni. I propri standard identitari sono confrontati sistematicamente con la percezione dei significati della situazione con l’obiettivo di assicurarsi che vi sia coincidenza con la stessa. In questo senso, gli standard identitari sono da intendersi come l’obiettivo della nostra percezione. Dicendo che gli input sono percezioni, gli autori intendono sostenere che le percezioni rappresentano i significati di una situazione che un individuo considera rilevanti per il proprio sé. Detto altrimenti, gli input sono risposte agli stimoli in una certa situazione che si ritiene abbiano delle implicazioni sulla propria identità. Sempre riprendendo l’esempio fornito da Burke e Stets (2009), i miei standard rispetto l’identità di genere sono i criteri che mi permettono di determinare quanto
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sono femminile nel mio “self”, o meglio, dove mi colloco nel continuum dei significati identificato dai poli mascolino/femminile. La mia percezione della situazione, al contrario, mi dice quanto femminile (o mascolina) sembro in quella determinata situazione. Questa percezione è dunque un input del processo identitario. Queste percezioni sono da intendersi come un flusso continuo e vengono sistematicamente comparate con significati “immagazzinati” nell’identità sotto forma di standard.
3. Il comparator. Quest’ultimo può definirsi come il processo mediante il quale comparo la percezione di una situazione ai miei standard identitari, producendo un segnale di errore nel caso in cui i due non coincidano. Questo segnale di errore fa si che io modifichi il mio comportamento per riportare i significati della situazione, dunque la mia percezione, in linea con i miei standard.
4. L’output è dunque il comportamento in una certa situazione. Tale comportamento o output è teso a modificare la situazione, o meglio, il carattere simbolico della situazione. Cambiando il significato simbolico della situazione, si aggiusta anche la percezione, che a sua volta viene confrontata con i propri standard e di nuovo produce un segnale laddove vi sia discrepanza tra percezioni e standard e così via, in un movimento ciclico e perenne di controllo della propria identità. Questo ciclo è organizzato come un sistema di controllo, ovvero è finalizzato a mantenere la percezione della situazione in linea con i propri standard, controbilanciando gli elementi di disturbo che provengono dall’ambiente e dalla situazione. Questi processi presuppongono che l’individuo conosca i significati condivisi di una certa situazione e dunque sia capace di modificare i suoi comportamenti in modo da scegliere quelli che hanno un significato in linea con i suoi standard. Se i comportamenti hanno un significato condiviso, ciò significa che, riprendendo l’esempio sopra esposto, quando cambia la cultura, la situazione o le persone con cui si interagisce, necessariamente devo cambiare anche i miei comportamenti, per ottenere quell’apparenza di femminilità che coincide con i miei standard.
L’identità, nella proposta di Burke e Stets, rappresenta dunque un sistema che costantemente confronta i suoi input (ovvero le percezioni, intese come significati rilevanti per il sé) con i propri standard identitari. Questo processo, mediante il quale noi controlliamo i significati percepiti e cerchiamo di fare in modo che corrispondano ai
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nostri standard, viene definito “identity verification”. Laddove il processo di verifica della propria identità avvenga con successo, gli individui sperimenteranno emozioni positive connesse ad un aumento della propria autostima. Viceversa, laddove un individuo sperimenti una discrepanza tra i propri standard identitari e la percezione di una situazione, in quel caso sorgeranno emozioni negative quali stress e malessere.
Consideriamo ora cosa accade quando la fonte di un’identità sia rappresentata da un determinato ruolo. I ruoli strutturano e organizzano i significati rilevanti per il proprio sé. Un’identità di ruolo è dunque l’insieme dei significati relativi ad un ruolo che gli individui interiorizzano e applicano a loro stessi (Burke e Stets 2009:114). Essa si compone di una dimensione convenzionale o “role part” e di una dimensione idosincratica o (identity part). Nel primo caso, gli individui sono socializzati ai significati connessi ad un determinato ruolo, ovvero imparano cosa significa essere un genitore, un datore di lavoro, un figlio e via dicendo. Questi significati sono appresi nell’interazione con gli altri ed è proprio nel contesto di questa interazione che le identità di ruolo acquisiscono significato. La seconda dimensione fa riferimento a come gli individui intendono il proprio ruolo, ovvero, alla loro comprensione del ruolo che ricoprono e che non è necessariamente condivisa da altri. Se un ruolo è definito da un vasto insieme di significati, allora la medesima identità può assumere significati diversi da persona a persona. Quando i significati di un’identità di ruolo non sono condivisi da più persone, essi devono essere negoziati. I comportamenti nel contesto dell’interazione sono infatti guidati dal principio della reciprocità di ruolo. Ciò significa che ad ogni ruolo corrisponde un “counter - role”, ovvero, esso esiste in virtù della sua controparte (Turner 1962). Per far si che l’interconnessione tra identità e contro - identità funzioni nelle varie situazioni, gli individui devono negoziare i diversi significati legati a ciascuna identità in quello che Burke e Stets definiscono un processo di “mutual identity verification”. Ciò necessariamente richiede un certo grado di cooperazione e di accordo tra le parti coinvolte rispetto alla performance di ruolo. Questo sforzo di coordinamento reciproco può far si che gli individui modifichino la loro performance di ruolo, alterando i loro standard identitari al fine di verificare la propria identità e quella altrui. Ne consegue che il processo di “identity verification” non è solo il risultato delle azioni di una persona, ma anche delle azioni della persona in relazione alle azioni di altri individui.
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Cerchiamo ora di ricavare qualche riflessione riassuntiva rispetto a questa breve esposizione. Anche per gli studiosi della cosiddetta Identity Theory la validazione degli Altri è fondamentale nel processo di costruzione di un’identità. Nell’interazione si gioca la costruzione dell’ordine simbolico atto a sostenere i significati che gli individui ritengono rilevanti per la definizione del proprio sé. Ciononostante, in questo caso, l’enfasi è posta sui meccanismi interni di controllo dei significati relativi alla propria identità, piuttosto che sui processi di definizione etero diretti. La classificazione esterna degli individui avviene attraverso la collocazione degli stessi nella struttura sociale, ovvero nei ruoli, intesi come domini di significati condivisi a cui gli individui attingono nel definire i propri standard identitari. Così come nelle pagine precedenti si è parlato di processi di identificazione sulla base di modelli prototipici associati a determinati gruppi, anche in questo caso il processo di identificazione passa attraverso l’interiorizzazione di significati socialmente definiti resi disponibili nell’ambito di un gruppo, di un ruolo, di un contesto istituzionale. Vi è dunque consenso nel considerare il sé come un’entità radicata nella (e alimentata dalla) struttura sociale e dalle risorse materiali e simboliche che essa rende disponibili agli individui. Un altro punto condiviso dai contributi analizzati riguarda il fatto di intendere il comportamento come una modalità attraverso cui gli individui affermano un’ identità sociale, manipolando i significati condivisi nel contesto dell’interazione con gli altri individui. Il senso di autostima e di arricchimento personale sono infatti strettamente connessi alla possibilità di reclamare e vedersi validata un’identità sociale. Il contesto e l’interazione con gli Altri sono dunque aspetti fondamentali per la comprensione dei meccanismi di costruzione del sé.
Detto ciò, vediamo ora come è possibile declinare queste considerazioni nei contesti organizzativi, con particolare riferimento alle peculiarità dell’istituzione carceraria, generalmente riconosciuta come “totale”.
“ Senza qualcosa cui appartenere non esiste sicurezza per il sé e, tuttavia, un inglobamento totale e un coinvolgimento con una qualsiasi unità sociale, implica un tipo di riduzione del sé. Il senso della nostra identità personale può uscire da una più vasta unità sociale; esso può risiedere dunque nelle piccole tecniche con le quali resistiamo alla pressione. Il nostro status è reso più resistente dai solidi edifici del mondo, ma il nostro senso di identità risiede nelle loro incrinature”
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(Goffman 1961/2003: 326)
Fin qui si è argomentato come i processi di costruzione dell’ identità siano guidati dai significati socialmente condivisi associati ad un determinato gruppo o ad una certa organizzazione, a cui un individuo sente di appartenere. L’adesione ad una concezione prototipica del sé consente infatti di ridurre l’incertezza soggettiva e di alimentare un’immagine positiva e valorizzante di se stessi (Hogg e Terry 2000).
Il coinvolgimento in un’organizzazione richiede un’identificazione dell’individuo. Ciò implica l’accettazione dei valori e degli obiettivi di un’organizzazione, la volontà di compiere degli sforzi in favore del buon funzionamento della stessa ed un forte desiderio di mantenere il proprio legame con essa (Mowdays et all 1979). Facendo riferimento al concetto di “organizational commitment”, Mowdays et all (1979) pongono particolare enfasi sull’attaccamento, anche e soprattutto affettivo, ai valori e agli obiettivi dell’organizzazione. Al contrario del concetto di “job satisfaction” quello di “commitment” dovrebbe dunque essere più stabile nel tempo, in quanto radicato nel processo di identificazione. Esso non riguarda aspetti specifici dell’organizzazione, ma più in generale fa riferimento al sistema di valori, credenze e norme radicate nella mission dell’organizzazione, nelle pratiche e nei processi decisionali (Empson 2004). Come Dutton e Dukerich (1991) dimostrano, le azioni degli individui e l’interpretazione dei cambiamenti sono fortemente influenzate, da un lato, dall’identitità di un’organizzazione, intesa come le caratteristiche che i suoi membri definiscono come centrali e durature, e dall’altro dalla sua immagine, ovvero da come i suoi membri pensano che gli altri vedano l’organizzazione. Invero, alcuni aspetti di quest’ultima, quelli che i membri definiscono come caratteristici della stessa, diventano elementi significativi nella definizione della loro identità e possono motivare o indirizzare le loro azioni. Ciò influenzerebbe il percorso dei cambiamenti organizzativi, o più precisamente, le modalità attraverso cui gli individui interpretano questi cambiamenti. Se, da un lato, i processi di costruzione del sé sono influenzati dall’ organizzazione in cui gli individui si identificano, dall’altro è pur vero che un’organizzazione può essere a sua volta influenzata dai membri che ne fanno parte (Empson 2004). Questo perché i cambiamenti nella composizione dei membri concorrono a modificare il corpo di conoscenze ed esperienze collettive relativo all’organizzazione, e dunque il patrimonio simbolico che alimenta l’ identità dei suoi appartenenti. Per tali motivi, i processi di
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costruzione del sé entro un contesto organizzativo sono necessariamente instabili e dinamici (Empson 2004).
Detto questo, è plausibile ipotizzare che l’intensità dei processi di auto-identificazione e costruzione del sé sia ampiamente maggiore in quelle organizzazioni che Goffman definisce come “istituzioni totali”, soprattutto per l’effetto dell’isolamento e del sistema di incentivi e punizioni che le contraddistingue. Questi contesti sono caratterizzati da un’ organizzazione burocratica delle pratiche e delle attività, con una rigida definizione dei mezzi più appropriati per il raggiungimento di fini prestabiliti (Goffman 1961/2003). La routine quotidiana dei suoi membri, siano essi parte dello staff o internati, si conduce nei medesimi spazi designati; sotto il controllo di una singola autorità. Come affermato in precedenza, un’istituzione è totale in virtù dell’imposizione sistematica di un’identità nei confronti di coloro che in essa lavorano o vivono (Scott 2010). I carceri, gli ospedali psichiatrici e via dicendo sono infatti organizzazioni strumentali formali che si sostengono grazie alla strumentalizzazione di coloro che ne fanno parte (Goffman, 1961/2003: 201). Nel momento in cui degli individui entrano in tali organizzazioni, sottoscrivono una sorta di contratto che li porta ad accettare non solo i mezzi prestabiliti per raggiungere i fini istituzionali designati, ma anche i valori comuni ed i sistemi di incentivi e punizioni che le caratterizza. Accettando un semplice contratto di partecipazione ad un’organizzazione, di fatto gli individui accettano pure la definizione del sé che in esso è implicito. Invero, attraverso la definizione delle azioni e delle procedure adeguate, un’organizzazione formale strumentale di fatto definisce ciò che i suoi partecipanti dovrebbero essere, dunque impone delle definizioni normative rispetto alla loro identità. Ciò significa che la situazione ha potere di definizione sull’identità delle persone che in essa vi partecipano (Goffman 1961/2003:205). Le organizzazioni agiscono sulle persone che vi fanno parte imponendo una certa idea ed un certo giudizio riguardante la loro stessa identità. Ciononostante, come giustamente Scott (2010) argomenta, nelle interpretazioni del lavoro di Goffman è stata spesso trascurata l’importanza accordata a quelle pratiche di resistenza che gli individui pongono in atto nel tentativo di resistere o rifiutare la definizione del sé imposta dall’organizzazione. Da un lato, la partecipazione e l’impegno ad una attività imposta da un istituzione totale, sia essa aprire i cancelli delle celle tutte le mattine, negli orari prestabiliti, o partecipare alle rappresentazioni teatrali proposte alla popolazione detenuta, implica l’accettazione da parte dell’individuo delle definizioni identitarie
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imposte dall’ organizzazione stessa. Dall’altro, il rifiuto, la distorsione o l’omissione di una di queste attività rappresenta un tentativo di sfuggire ad una definizione ufficiale del sé, dunque ad un’imposizione di un’identità.
“Ogni qualvolta prendiamo in esame un’organizzazione sociale coloro che ne fanno parte rifiutano in qualche modo di accettare il giudizio ufficiale di ciò che dovrebbero dare e prendere dall’organizzazione e, oltre a ciò, il tipo di sé e di mondo che dovrebbero accettare come proprio”
(Goffman 1961/2003:321)
Date queste premesse di carattere generale, concentriamo ora l’attenzione sui processi di identificazione che caratterizzano in modo specifico coloro che interagiscono entro i confini dell’istituzione carceraria.