5. L’ESPERIENZA FORMATIVA DEGLI AGENTI PENITENZIARI TRA
5.2. La formazione degli agenti penitenziari: uno sguardo alla letteratura
personale impiegato nelle forze di polizia. Al contrario, in Europa sono molto rari gli studi focalizzati sul personale di polizia penitenziaria (ad eccezione di Crawley 2004; Arnold 2008). A tal proposito, bisogna considerare che, mentre in Italia il personale addetto alla sicurezza negli istituti penitenziari costituisce una delle cinque forze di polizia italiane (Polizia Penitenziaria, Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, Guardia Forestale), e come un corpo di polizia è dunque organizzato, ciò non sempre può valere per il personale impiegato in altri paesi europei23.
23 In questo capitolo si farà ampio ricorso a ricerche prevalentemente americane e inglesi focalizzate sulle forze di Polizia. Nel caso italiano queste ricerche risultano pertinenti all’ oggetto dell’analisi, ovvero gli agenti penitenziari, proprio in virtù dell’organizzazione degli stessi in uno dei cinque corpi di polizia italiani.
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Ad ogni modo, ciò che le ricerche hanno evidenziato finora è proprio la caratterizzazione tipicamente para – militare degli ambienti in cui avviene la formazione degli appartenenti alle forze di polizia (Chappell e Lanza Kanduce 2010), unita alla strutturazione dei programmi formativi sulla base di approcci più prettamente “comportamentali” (Birzer e Tannehill 2001; Birzer 2003; Olivia e Compton 2010). Di fatto, la disciplina rappresenta l’aspetto principale sulla base del quale tutte le attività formative sono strutturate (Jefferson 2007). Non solo. La polarizzazione esistente tra gli alunni e gli istruttori, generalmente ufficiali o personale con una significativa anzianità di servizio, è spesso così pronunciata da ricordare la ben più classica dicotomizzazione tra agenti e persone detenute (Arnold 2008).
In letteratura esiste inoltre un corpo piuttosto ricco di ricerche, di stampo più prettamente socio - pedagogico, focalizzate sulle modalità attraverso cui i contenuti del corso di formazione vengono trasmessi alle nuove reclute. In particolare, queste ricerche si sono concentrate sulle critiche nei confronti degli approcci formativi di stampo “comportamentale” realizzati in ambienti tipicamente para - militari (Birzer 2003). Tale combinazione non consentirebbe, secondo alcuni autori (Bradford e Pynes 1999; Birzer 2003; Olivia e Compton 2010), di stimolare le competenze di analisi e problem – solving necessarie allo svolgimento delle quotidiane attività degli agenti (Liebling 2000). Questi ultimi sono infatti chiamati a confrontarsi sistematicamente con situazioni che richiedono un certo margine interpretativo e discrezionale. Tali approcci formativi, oltre a non tenere in considerazione le differenze individuali nei processi di apprendimento, sono spesso sradicati dal contesto e dalle procedure operative con cui gli agenti saranno concretamente chiamati a confrontarsi. Proprio questi studi si sono soffermati sulle potenzialità di approcci formativi alternativi, principalmente ispirati alle strategie di apprendimento sviluppate in modo specifico per gli adulti, tra le quali spicca la cosiddetta “andragogia” (Bradford e Pynes 1999; Birzer 2003; Olivia e Compton 2010). Tale approccio formativo viene pensato a partire dalle peculiari esigenze formative degli adulti, riconducibili soprattutto alla necessità di apprendere nel contesto delle situazioni di vita reali, facendo appello al vasto repertorio delle proprie esperienze personali (Knowles 1990). La principale criticità riferita alla formazione degli appartenenti alle forze dell’ ordine sembra infatti riconducibile all’inconsistenza dei programmi di apprendimento rispetto all’effettivo ruolo operativo che gli allievi andranno a svolgere una volta entrati in servizio (Bradford e Pynes 1999, Birzer 2003).
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Come argomentano Bradford e Pynes (1999), gli allievi - agenti spesso lamentano una sorta di incongruenza tra ciò che apprendono a livello teorico e gli aspetti pratici del loro futuro lavoro. Per queste ragioni, essi tendono a manifestare un sentimento di disaffezione e insoddisfazione nei confronti dell’esperienza formativa, al punto da arrivare a mettere in discussione quanto appreso nel corso delle lezioni, considerandolo di fatto inutile ai fini del loro inserimento lavorativo (Jefferson 2007; Arnold 2008: 407).
Sebbene questo filone della letteratura sottolinei aspetti certamente fondamentali del percorso di arruolamento degli agenti, è bene ricordare che la formazione delle forze di polizia non è mai una semplice questione di apprendimento di nuove competenze. Di fatto essa rappresenta un momento fondamentale del processo di socializzazione alla cultura occupazionale degli agenti penitenziari (Crawley e Crawley 2008), un processo che gradualmente porta ad un cambiamento dell’identità delle nuove reclute (Fielding et all 1988: 41). Richiamando le parole di Jefferson (2007: 264), “dobbiamo guardare oltre il contesto formale delle classi per stabilire ciò che viene effettivamente appreso”. Di fatto, il principale obiettivo del corso di arruolamento è proprio quello di plasmare l’identità di ruolo degli agenti sulla base degli standard definiti dall’approccio istituzionale dominante. Secondo quanto afferma Fielding et all (1988:16), nell’ambito dei corsi di arruolamento delle forze di polizia gli istruttori mirano a ridurre le diversità tra le reclute attraverso un processo di de - socializzazione, inevitabilmente seguito da una ri - socializzazione. L’esperienza formativa rappresenta infatti un processo di “acculturazione” che passa attraverso un vero e proprio “shock culturale” (Crawley 2004). Come sottolineato da Crawley, si tratta di un processo lento, arduo e spesso doloroso (Crawley 2004: 92), dal momento che giunge ad influenzare sia la parte del sé pubblica che privata delle reclute. A queste ultime è infatti richiesto non soltanto di apprendere, ma anche di “incorporare” le procedure operative e gli aspetti normativi connessi al loro futuro lavoro, giungendo a performare un vero e proprio “lavoro emozionale” (Crawley 2004: 92). In virtu’ della loro posizione subordinata, le reclute subiscono una forte pressione conformante rispetto alla subcultura del penitenziario e avvertono la necessità di dimostrare ai colleghi e ai propri superiori la capacità di gestire il loro nuovo ruolo. Ciononostante, alcuni autori hanno osservato come gli stessi valori e norme della cultura occupazionale siano sistematicamente contestati e sfidati dalle reclute nel corso dell’esperienza formativa (Kauffman 1980; Jefferson 2007).
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Jefferson (2007), grazie alla sua indagine etnografica condotta in una scuola di formazione in Nigeria, ha fornito un contributo importante alla comprensione dell’intera questione. L’ autore ha potuto osservare come le reclute tendano a distorcere e contestare i contenuti e le pratiche del corso di arruolamento al fine di restituire un senso alla loro (umiliante) esperienza di subordinazione, negoziando e ri-appropriandosi della loro posizione all’interno del contesto carcerario (Jefferson 2007: 264).
Questi contributi sembrano suggerire che le esperienze formative possano rivelarsi efficaci laddove supportate da un’appropriata comprensione delle pratiche quotidiane degli agenti, delle relazioni di potere, delle dinamiche di gruppo e della conoscenza da essi condivisa. A tal proposito, dovremmo considerare che la subcultura delle forze di polizia è generalmente in antitesi con ciò che viene insegnato nelle aule delle Scuole di formazione (Lombardo 1981, 1986; Olivia e Compton, 2010: 334), e pertanto è spesso considerata il “principale impedimento all’implementazione delle riforme” (Chappell and Lanza Kanduce 2008).
La comprensione dell’esperienza formativa degli agenti penitenziari appare dunque un compito piuttosto arduo. Quest’ultima infatti è il risultato di elementi contestuali, organizzativi e culturali, di attitudini individuali e dinamiche di gruppo.