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3. IL LAVORO PENITENZIARIO: IDENTITA’ E CAMBIAMENTI

3.4. Identità, cambiamenti organizzativi e liminalità: alcune ipotesi di ricerca

Cosa possiamo ricavare da questa riflessione che possa aiutarci a comprendere le dinamiche di assunzione di ruolo ed i processi di identificazione degli agenti penitenziari in un contesto in continua evoluzione come il carcere odierno?

Abbiamo compreso che la percezione del sé manifestata dagli agenti è radicata nel contesto istituzionale e nel sistema di relazioni che insieme definiscono il contesto valutativo necessario per la validazione dei loro standard identitari. La loro identità è dunque costruita nella negoziazione con le rispettive controparti, ovvero gli individui detenuti. L’esercizio dell’autorità, la performance di uno stile emozionale, la quotidiana attività di peacekeeping sono tutte attività che richiedono l’interazione continua con la popolazione detenuta e che sono orientate a definire il contesto simbolico atto a supportare e coniugare i fini istituzionali del carcere, ovvero la riabilitazione e la sicurezza. Sebbene possa sembrare paradossale, gli agenti non potrebbero concepirsi come tali e svolgere il proprio lavoro senza la validazione e la conferma da parte delle persone detenute. Nel quotidiano svolgimento della loro attività, gli agenti proiettano un immagine di sé che ritengono appropriata, sulla base di quelli che sono i loro standard identitari, ovvero i significati interiorizzati rispetto alla propria identità di ruolo. Tale pretesa di appropriatezza si costruisce e si convalida nell’ordine simbolico supportato dall’interazione con le persone detenute (Goffman 1959). Questo avviene perché il

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carcere è anche, e soprattutto, un contesto simbolico che fornisce, o meglio, impone, ad agenti e detenuti i significati rilevanti per la costruzione del sé. Le procedure burocratiche, la struttura fisica, le attività proposte, le regole formali e informali, tutto concorre a supportare l’ordine simbolico entro il quale si gioca il processo di negoziazione e mutua validazione delle identità di agenti e persone detenute. Esiste dunque una sorta di (precario) equilibrio latente alla vita sommersa del carcere che consente la sopravvivenza di questa istituzione.

Se gli standard identitari degli agenti sono definiti dal contratto che li lega all’amministrazione penitenziaria (Goffman 1961), alimentati dalla percezione dell’ identità dell’istituzione e della sua immagine pubblica (Dutton e Dukerich 1991), negoziati nell’interazione con la popolazione detenuta (Hepburn 1984; Hay e Sparks 1992; Sparks et all 1996; Liebling et all 1999; Liebling 2011) e supportati da un certo ordine simbolico (Burke e Stets 2009), allora cosa succede quando vengono introdotti dei cambiamenti organizzativi?

Gli autori della Identity Theory (Burke e Stets 2009) sostengono che i cambiamenti dell’ identità, o meglio, degli standard identitari di un individuo possono derivare da diverse fonti. In primo luogo vi sono i cambiamenti della situazione, ovvero, quando i significati di una situazione cambiano e l’individuo non riesce a ridurre la discrepanza tra i propri standard identitari ed i significati di una situazione che egli ritiene rilevanti per il proprio sé. Questa prolungata discrepanza alla lunga fa si che gli standard dell’identità si adattino e si modifichino in modo da coincidere con i nuovi significati della situazione. Tuttavia, si tratta di un processo che avviene per la maggior parte in modo inconsapevole e nell’immediato può dare esito a sensazioni negative di stress e malessere. Un’altra fonte dei cambiamenti delle identità è la presenza e la negoziazione di altri. Invero, il cambiamento nelle identità può avvenire a seguito di un processo di adattamento in un contesto di verifica mutuale delle identità, quindi in situazioni in cui i partecipanti non solo verificano loro stessi ma anche aiutano a verificare le identità degli altri partecipanti. In questo caso i propri standard possono alterarsi al fine di raggiungere output condivisi.

Si potrebbe ipotizzare che l’avvento della sorveglianza dinamica, con l’apertura delle stanze detentive nelle ore giornaliere, la ridefinizione del ruolo dell’agente guidata dagli organi amministrativi e l’incremento della loro partecipazione nel programma di “trattamento”, abbia contribuito a ridefinire il contesto simbolico dell’interazione con la

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popolazione detenuta, e dunque quei significati della situazione che gli agenti ritengono rilevanti per la definizione del proprio sé. La tematica del benessere del personale di Polizia Penitenziaria in relazione ai cambiamenti organizzativi potrebbe dunque essere affrontata prendendo in considerazione i processi identitari e le emozioni suscitate dal processo di identity – verification che coinvolge gli agenti in un mutato contesto simbolico.

Se ipotizziamo che la sorveglianza dinamica abbia contribuito a ridefinire i significati della situazione detentiva, allora secondo gli autori della Identity Theory questo porterebbe (alla lunga) ad una ridefinizione degli standard identitari del personale, dunque ad un cambiamento nella loro identità. Nulla però ci viene detto su cosa accade nel mentre di questo processo di cambiamento negli standard identitari degli agenti. Inoltre, se anche un tale cambiamento effettivamente avvenisse, ben poco possiamo dire sulla direzione e la forma che esso potrebbe assumere.

In questo senso, un concetto che potrebbe rivelarsi utile a riempire questo vuoto euristico nel panorama teorico delineato in questo capitolo è quello di “liminalità” (Turner 1967). Esso fu concepito da Van Gennep con l’obiettivo di descrivere i cosiddetti “Rites de Passage” (1909), ovvero i riti di passaggio. Cinquant’ anni più tardi, Turner (1967) ricorse al medesimo concetto per spiegare la sua teoria processuale della società, da lui intesa come un processo dialettico con fasi consecutive di struttura e “communitas”, ovvero “comunità” (Turner 1977: 203). La struttura è intesa come un sistema gerarchico che differenzia gli individui sulla base degli status e delle posizioni sociali. La cosiddetta “communitas” emerge invece nei periodi liminali e rappresenta una comunità indifferenziata e de-strutturata di eguali. Gli individui nella “communitas” sono alienati dalla cultura e dalla struttura sociale, e fanno parte di una comunità omogenea posta sotto la guida di una singola autorità rituale. La configurazione simbolica della “communitas” è determinata da una serie di rituali. Questi ultimi regolano il potenziale trasformativo della liminalità (Turner 1977: 77) e guidano il processo di ricostruzione dell’identità degli individui in tale condizione (Beech 2010: 15). Secondo Turner, la tensione dialettica tra struttura e “communitas” rappresenta la fonte del cambiamento sociale. Per tanto, essa rappresenterebbe il quadro teorico più appropriato per comprendere come sono costituite le identità sociali e come cambiano nell’interazione tra individui e strutture sociali.

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Nonostante il concetto di Turner fornisca un framework teorico utile per inquadrare i processi di cambiamento dell’identità, sembra necessario contestualizzare il suo utilizzo entro le cosiddette istituzioni totali. Anzitutto, la liminalità è descritta da Turner (1967) come un luogo dove gli individui sono isolati e diventano in un certo senso “invisibili” e dunque subordinati alla medesima autorità (Turner, 1966: 95). La subordinazione è un’altra fondamentale caratteristica della liminalità (Turner, 1966:67) ed è definita da Jefferson (2009), nel suo studio sul percorso di arruolamento degli agenti penitenziari, come la condizione necessaria attraverso la quale le reclute sperimentano l’ “alterità” delle persone detenute e strutturano sulla base di questa consapevolezza la loro identità di ruolo. Altre caratteristiche prettamente liminali sono la deferenza nei confronti di una autorità rituale, l’attaccamento alle norme e la solidarietà tra individui nella medesima condizione. Queste caratteristiche sembrerebbero sposarsi in modo abbastanza lineare con il contesto del carcere. Nondimeno, mentre Turner concepisce l’isolamento che caratterizza la liminalità come una condizione transitoria, sebbene necessaria, per indurre alla riflessione e alla decostruzione del senso di normalità (Grenville et all 2011), nel caso del carcere l’isolamento e le caratteristiche liminali identificate sono condizione intrinseche, durature e connaturate all’ontologia di tale istituzione.

Nella letteratura antropologica, il concetto di liminalità si è rivelato particolarmente proficuo e versatile. Esso è stato utilizzato come strumento per descrivere la condizione di individui, organizzazioni spazi ed eventi (Beech 2010). Grenville et all (2011) utilizzano il concetto di liminalità per spiegare i cambiamenti nelle modalità di interpretare i significati da parte dei membri di un contesto organizzativo. Partendo dal constatare la costruzione simbolica del mondo organizzativo e la malleabilità dei simboli e dei significati disponibili ai membri di un organizzazione, secondo gli autori la liminalità rappresenta una condizione di transizione e riflessione volutamente creata dall’interno al fine di incentivare la reinterpretazione dei significati relativi alle pratiche consolidate.

Nella letteratura organizzativa, il concetto di liminalità si è rivelato utile anche per la descrizione dei cambiamenti nelle identità (Noble E Walker 1997; Gartsen 1999; Ibarra 2005; Beech 2010; Grenville et all 2011; Robinson et all 2005). Secondo quanto argomentato da Beech (2010), gli individui in una condizione liminale sono impegnati in un processo dialogico di ricostruzione dell’identità che coinvolge sia la parte più intima che quella pubblica di un’identità sociale (Beech 2010: 5). D’altro canto, Ibarra

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(2005) si occupa di delineare un quadro teorico rispetto alle transizioni delle identità occupazionali a seguito dei cambiamenti nella carriera di un individuo. In questo caso, il concetto di liminalità è utilizzato per descrivere i periodi in cui un individuo esplora diverse possibilità di carriera. Più che uno stato di confinamento fisico si tratta di uno stato psicologico durante il quale avviene un vero e proprio “identity play” e l’individuo può assumere, esplorare e ponderare le possibilità associate a diverse identità professionali. Questa fase conduce generalmente ad un conflitto di identità che necessariamente richiede di essere risolto. Un altro utilizzo del concetto di liminalità fa riferimento alla descrizione della condizione dei lavoratori precari (Gartsen 1999). Anche in questo caso viene enfatizzato il potenziale trasformativo e creativo di questa condizione e delle persone ad essa ricondotte. Allo stesso tempo, nel caso dei lavoratori temporanei, la liminality assume la forma di una condanna alla marginalità e si connota dunque di ambiguità ed incertezza (Garsten 1999).

Ciò che accomuna tali utilizzi del concetto di liminalità è proprio il fatto di intendere la stessa come preludio (più o meno lungo) di un cambiamento, di un’evoluzione, di una ricomposizione. Tale cambiamento può essere incentivato da svolte o eventi drammatici nella vita di un individuo o di un’organizzazione oppure può essere ricercato spontaneamente e accompagnato da pratiche liminali di riflessione e decostruzione del senso comune (Grenville et all 2011).In effetti, la liminalità così come descritta in origine da Turner rappresenta una condizione dotata di un intrinseco potenziale trasformativo. Nella letteratura antropologica, essa è associata a concetti come de-costruzione, indeterminatezza, libertà innovativa e soggetti de-strutturati. Secondo Turner, l’essenza della liminalità è da riscontrarsi nel fatto di essere svincolata dalle costrizioni negative, rendendo così possibile la decostruzione del senso comune e la sua ricostruzione in unità culturali innovative (Turner 1977: 68). Fondamentalmente, la liminalità rappresenta una condizione di sospensione (Beech 2010:3): gli individui liminali sono soggetti “nudi e destrutturati” (Turner 1977: 68).

Detto questo, non dobbiamo dimenticare quanto affermato in precedenza rispetto alle peculiarità delle istituzioni comunemente riconosciute come totali, e dei processi di identificazione che coinvolgono gli individui che in esse vivono o lavorano.

Che significato può assumere il concetto di liminalità nel contesto delle istituzioni totali? In precedenza abbiamo avanzato l’ipotesi secondo cui la sorveglianza dinamica abbia contribuito a ridefinire l’ordine simbolico dell’interazione con la popolazione

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reclusa. In questo senso, potrebbe essere plausibile concettualizzare la liminalità come la condizione di sospensione che caratterizza gli agenti impegnati nel tentativo di conciliare gli standard della propria identità di ruolo con i nuovi significati della situazione detentiva.

Se nelle ricerche analizzate la liminalità è descritta come una situazione di rottura e di ambiguità che conduce verso una ricomposizione dei significati del sé e del contesto organizzativo sotto nuove ed innovative forme, allora pare sensato chiederci se ciò possa valere nel contesto di un’istituzione totale. Inoltre, pare lecito domandarsi quali strategie mettano in pratica gli agenti per ricomporre il loro ruolo dinnanzi alla “rottura” di quell’ equilibrio latente di cui si è reso conto nelle pagine precedenti e che supporta il processo di verifica mutuale delle identità di agenti e detenuti.

Le recenti innovazioni organizzative possono produrre dei processi di cambiamento rispetto ai valori che connotano la subcultura degli agenti penitenziari? Se si, quali sono i fattori strutturali, culturali e individuali che influenzano questi processi? O al contrario, è possibile che il contesto di un’istituzione totale amplifichi la condizione di liminalità fino al punto da bloccare il potenziale trasformativo insito nella sua definizione?

Tali interrogativi rappresentano dunque il filo logico dell’esposizione dei risultati della ricerca presentata nei capitoli successivi.

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