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Definire il contesto: ideologia penitenziara, dicotomizzazione e produzione di

5. L’ESPERIENZA FORMATIVA DEGLI AGENTI PENITENZIARI TRA

5.4. Definire il contesto: ideologia penitenziara, dicotomizzazione e produzione di

5.4. Definire il contesto: ideologia penitenziara, dicotomizzazione e

produzione di discorsi

Come spiegato nel capitolo dedicato alla metodologia, l’inizio dell’indagine etnografica è avvenuto contestualmente al ritorno delle reclute dal loro secondo periodo di tirocinio on the job. Prima del mio arrivo a Verbania, avevo avuto modo di raccogliere una mole considerevole di interviste con il personale di polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Bollate e dunque potevo far affidamento su una conoscenza piuttosto approfondita della subcultura carceraria degli agenti (o almeno di una buona parte della stessa). Ciò mi ha permesso di constatare, una volta giunta a Verbania e dunque a partire dal primo giorno di osservazione partecipante, come l’ambiente dicotomico del carcere fosse costantemente ricreato entro le aule della Scuola attraverso una serie di pratiche e di attività messe in atto dagli ufficiali addetti alla supervisione, dai formatori e, soprattutto, dagli stessi allievi. Questi ultimi parevano aver pienamente incorporato la logica dicotomica tipicamente ostentata dal personale addetto alla sicurezza (noi, gli agenti versus loro, i detenuti), facendo continuo ricorso agli slogan più comuni e ad un

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gergo tipicamente carcerario. Non solo. Nonostante le persone detenute non fossero fisicamente presenti nella Scuola di formazione, la loro presenza era continuamente riprodotta artificialmente attraverso la produzione di discorsi: il loro “fantasma” (Scott 2008) era il centro delle discussioni e dello scambio di storie ed esperienze che quotidianamente avveniva entro le mura della Scuola di Verbania. Infine, gli atteggiamenti distintivi adottati dagli agenti penitenziari in sezione venivano sistematicamente riprodotti in modo artificioso, se non addirittura parodiati: una volta terminata la pausa tra due lezioni, gli allievi erano soliti urlare: “fine ora d’aria!” esattamente come i colleghi in sezione sono soliti fare per richiamare all’ordine i detenuti, una volta conclusasi l’ora dedicata ai “passeggi”. Attraverso queste pratiche, la subcultura degli agenti veniva performata, parodiata ed infine riappropriata dalle reclute stesse.

Le note etnografiche relative ai primi giorni spesi entro le mura della Scuola rivelano un certo disappunto da me manifestato rispetto all’ oggetto di studio. Prima di iniziare l’osservare partecipante, avevo letto e analizzato il programma formativo, constatando a tal proposito una certa rilevanza delle materie di carattere socio - psico – pedagogico e di concetti innovativi come quello della “sorveglianza dinamica”. Per tale motivo, mi aspettavo di incontrare nella Scuola nuove reclute ben predisposte al cambiamento, con una mentalità aperta ed un atteggiamento improntato all’entusiasmo. Al contrario, ciò che fin dai primi giorni ho potuto constatare è stato l’atteggiamento fortemente stereotipizzato agito dagli allievi, volutamente (e sbalorditivamente) simile a quello solitamente manifestato dagli agenti della cosiddetta “vecchia scuola”, dunque cinico, sospettoso, se non addirittura svogliato. Il mio disappunto traeva dunque origine dallo scarto esistente tra le aspettative riposte sugli allievi in merito alla loro capacità di rendersi portatori e agenti di cambiamento, ed il loro effettivo comportamento, che ben poco spazio lasciava a prese di posizione innovative.

Molti istruttori, specialmente i cosiddetti “civili” (ovvero psicologi o funzionari pedagogici) condividevano il medesimo disappunto:

“Il mio lavoro è frustrante perché dopo che le nuove reclute tornano dal loro secondo periodo di on the job sono completamente cambiati. Pensano che quello che imparano qui è inutile e noi non riusciamo più a motivarli”

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(Funzionario pedagogico, Verbania)

Sotto molti aspetti, la Scuola sembra presentare alcune delle principali caratteristiche delle istituzioni totali descritte da Goffman (1961: 314). Nelle istituzioni totali, gli individui “iniziano una sorta di cambiamento nella loro carriera morale, una carriera che si dipana lungo i progressivi cambiamenti nel sistema di credenze di un individuo riguardo se stesso e gli altri” (Goffman 1961: 337). Le istituzioni sono totali in virtù dell’imposizione delle identità che sistematicamente avviene entro le loro mura, attraverso una serie di procedure organizzative prefissate e predefinite (Dennis e Peter 2005; Scott 2010). Se le persone detenute sono private “dell’equipaggiamento della loro identità personale” attraverso un processo di mortificazione del sé, allo staff viene richiesto non solo di preservare ma anche si incorporare (e performare) la cultura dell’istituzione ed i suoi obiettivi istituzionali (Crawley 2004). Invero, le reclute acquisiscono quello che Goffman definisce “uno stato proattivo”: sono consapevoli della loro nuova posizione entro l’ istituzione, ma “giungono anche a riconoscere che la loro posizione al di fuori di essa non sarà mai più quella che era prima del loro arruolamento” (Goffman 1961: 329). Fondamentalmente, gli allievi nella Scuola sono coinvolti in una costante negoziazione tra il loro sé pubblico ed il loro sé privato, come risultato di un processo generale di ricostruzione del sé. Ciononostante, come Scott argomenta (2010: 231), un’ enfasi esclusiva sul carattere coercitivo e repressivo delle istituzioni totali potrebbe comportare il rischio di sottovalutare l’agency latente dei soggetti coinvolti. Secondo l’autrice (Scott 2010: 218), le persone detenute e lo staff sono impiegati in una continua attività di negoziazione, validazione e mutua sorveglianza, sebbene comunque la natura coercitiva delle istituzioni totali tenda a sbilanciare l’equilibrio esistente tra pratiche di ricostruzione passiva e attiva del sé in favore delle prime. Considerato ciò, Scott propone una rivisitazione del celebrato concetto di Goffman con l’intento di descrivere quelle istituzioni i cui membri si sottopongono volontariamente ad un processo di ridefinizione del sé. In ciò che l’autrice definisce come “reinventive institutions”, gli individui scelgono su base volontaria di essere risocializzati, perseguendo un qualche interesse personale di auto – miglioramento (Scott 2010: 219). Queste istituzioni includono le cliniche terapeutiche, i movimenti religiosi e utopici, le scuole di formazione e le accademie. Nelle cosiddette

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“reinventive institutions”, i membri sono sì individui disciplinati, ma l’autorità è in questo caso percepita come non coercitiva e sostanzialmente positiva. Per questa ragione, esse operano con la condiscenda degli individui stessi. Questi ultimi, d’altro canto, manifestano la loro obbedienza e la loro consapevolezza di ruolo attraverso un’ incessante mutua sorveglianza ed una totale dedizione all’istituzione. In questo modo, l’ordine e la conformità sono garantiti attraverso ciò che Scott definisce pratiche di “performative regulation” o “regolazione performativa” (Scott 2010: 223). Come sostiene l’autrice, “nonostante l’ammissione avvenga su base volontaria e non vi sia un vero e proprio confinamento fisico, i membri dell’istituzione possono sentirsi ugualmente controllati dalla disciplina esercitata dalle pratiche di regolazione performativa” (Scott 2010: 226). L’istituzionalizzazione è dunque inevitabile per gli allievi della Scuola. Si consideri inoltre che il presupposto della Scuola è quello di formare dei futuri rappresentati delle forze dell’ordine: essi rappresentano lo Stato e l’autorità dello stesso sui suoi cittadini. Pertanto, le reclute sanno che il loro lavoro consisterà nell’esercitare questa autorità nei confronti di esseri umani e percepiscono l’estrema difficoltà di un simile compito. Nella Scuola gli allievi imparano che il loro lavoro consiste nel costringere degli individui all’obbedienza (Goffman 1961), cercando al contempo di riabilitarli socialmente. Tale contraddizione istituzionalizzata (Goffman 1961) richiede delle solide argomentazioni riguardo la pena, il potere dello Stato e dei suoi ufficiali nei confronti dei cittadini, così come il valore dei diritti umani, nonché della realizzazione personale e della riabilitazione. Questo terreno discorsivo è coltivato e divulgato su base quotidiana entro le classi della Scuola di Verbania. Gli istruttori si aspettano infatti che le reclute giungano ad abbracciare il corrente “discorso penitenziario” e a metterlo in pratica attraverso l’esercizio del loro ruolo costituzionale. Proprio riguardo a quest’ultimo aspetto, si consideri che la pressione esercitata dall’Unione europea in favore della riforma del sistema penitenziario italiano ha avuto, come si è detto, la conseguenza di rimodellare drasticamente il discorso penitenziario promosso a livello centrale, ovvero dal DAP.

Sulla base di quanto analizzato nel corso dell’osservazione partecipante, è possibile identificare alcune nozioni chiave che vanno a definire il ruolo degli agenti entro il panorama discorsivo definito dell’attuale amministrazione penitenziaria.

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Professionalizzazione: la sorveglianza dinamica viene presentata come una modalità operativa tesa a incrementare l’efficienza delle risorse umane e l’efficacia delle pratiche di sorveglianza e di mantenimento dell’ordine all’interno del carcere.

“La sorveglianza dinamica è un diverso modo di intendere il poliziotto penitenziario. Ci viene richiesto di dare un contributo trasversale, si tratta di più figure professionali che insieme agiscono sulla base del progetto di istituto. Tutti insieme dobbiamo scegliere in che direzione deve andare l’istituto. Se noi (agenti) non partecipiamo a questo processo non comandiamo più a casa nostra, perché siamo noi che gestiamo le sezioni e gli diamo un’impronta. Perché noi, come Corpo di polizia penitenziaria, non siamo secondi a nessuno”.

(Vice commissario, lezione sulla “Sorveglianza Dinamica”)

Il concetto di professionalizzazione si lega, nelle retoriche dei discorsi dei docenti, alla volontà di una riappropriazione progettuale e organizzativa dell’ istituto da parte degli operatori penitenziari stessi (tesa inoltre a ridare visibilità e dignità ad una categoria professionale misconosciuta come quella degli agenti della polizia penitenziaria).

“Voi siete i rappresentanti dello Stato, voi siete i responsabili della sicurezza. Sicurezza e trattamento sono binari paralleli, viaggiano insieme. La sicurezza è il presupposto del trattamento, viene sempre prima l’ordine e la sicurezza”

(Funzionario pedagogico, lezione “Trattamento”)

“La rieducazione del detenuto è un obiettivo e una speranza professionale che appartiene anche agli agenti. È una responsabilità ed una sfida. Voi trascorrete la maggior parte del tempo con il detenuto quindi siete importanti!”.

(Funzionario pedagogico, lezione “Trattamento”)

Riqualificazione: l’apprendimento di competenze cosiddette “soft skill” viene inteso come un tentativo di riqualificare la figura professionale degli agenti, fornendo loro gli strumenti necessari per gestire la complessità delle situazioni quotidiane in una sezione detentiva, rendendo dunque effettive le finalità rieducative della pena.

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“Perché il detenuto fa il detenuto. Da lui ci aspettiamo la qualunque, tanto è che non c’è il manuale del buon detenuto, ma c’è quello dell’agente. Noi possiamo tornare a casa dopo il turno, loro no. La retorica del “stanno meglio dentro” lasciamola al senso comune perché noi abbiamo una conoscenza più specifica del carcere rispetto al cittadino comune che non sa nulla”

(Funzionario pedagogico, lezione “Tecniche della comunicazione”)

“Non dobbiamo solo essere coerenti a delle regole, dobbiamo anche mettere una parte della nostra umanità in quello che stiamo facendo, mantenendo sempre una certa distanza. Dobbiamo essere meno rigidi, ma congruenti e attenti. Dobbiamo essere comunque professionali e raggiungere l’obiettivo di produrre dei cambiamenti. Non si va a colloquio con il detenuto con il nostro bagaglio di contro – valori socialmente accettati. Noi dobbiamo sospendere il giudizio. Noi siamo lì per essere guide, testimoni e riferimento. Perché il trattamento vi sembrerà pure una cosa che non ha senso, perché sono persone già strutturate, ma è un fine che viene dettato dalla legge, non ve lo sto dicendo io.”

(Funzionari pedagogico, lezione “Trattamento”)

Responsabilizzazione: Essa viene intesa sia come partecipazione degli agenti ai processi operativi interni all’istituto penitenziario, quindi in termini di contributo al raggiungimento delle finalità istituzionali, attraverso l’esercizio della loro capacità di analisi e di critica. Quest’ultimo aspetto è spesso messo in relazione alla necessità di “svecchiare” una sub – cultura penitenziaria fortemente ostile alle riforme e far fronte, in modo attivo e costruttivo, alle pressioni di conformità esercitate dai colleghi più anziani nelle sezioni. In poche parole: di “indossare il ruolo in modo critico, ricordandosi l’importanza di riflettere e non adottare comportamenti stereotipati” ( cit. Psicologo, lezione “Gestione dello Stress”)

“Il dipartimento ha inteso riqualificare il ruolo degli agenti. Con la sorveglianza dinamica ha spostato la responsabilità verso l’alto, così che gli agenti, che sono il grado più basso della piramide, possono essere coinvolti nel processo. Si tratta di

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avere un input dall’agente, di dare una professionalità diversa, più qualificata. Noi non siamo un Corpo di polizia deficitario rispetto alla Polizia di Stato ecc…. Noi non siamo secondi a nessuno perché noi svolgiamo anche compiti di Polizia Giudiziaria. Noi dobbiamo essere abili a raccogliere le testimonianze dei testimoni e capire se sono fondate, se combaciano. Noi non facciamo sicurezza ad un livello più basso, perché sulle circolari ci sono scritte quali sono le nostre responsabilità e le sanzioni personali in cui possiamo incorrere. L’operatore penitenziario non è solo. Deve esserci condivisione di responsabilità, che è una parola che dovete conoscere”.

(Vice commissario, lezione sulla “Sorveglianza dinamica”)

“Voi siete rappresentati dello Stato, voi avete l’obbligo di custodire la persona mantenendo il controllo in quanto rappresentanti dello Stato. Voi avete l’obbligo di mantenere il controllo, ascoltando, osservando, favorendo un processo di ripensamento”

(Funzionario del PRAP della Lombardia, lezione monografica “La detenzione femminile”)

Integrazione professionale: quest’ultima fa riferimento alla collaborazione tra agenti penitenziari e altre figure professionali (funzionari pedagogici, assistenti sociali, volontari, dirigenti) ed alla necessità di condivisione della medesima mission istituzionale. Come si può notare anche nelle note etnografiche riportate in precedenza, questo aspetto si rende particolarmente evidente nella tendenza dei docenti (commissari, funzionari pedagogici, psicologi, e via dicendo) a fare continuo ricorso al pronome personale “noi” nel corso delle lezioni, laddove vengono spiegati agli agenti i loro compiti e doveri istituzionali. Una retorica del “noi” dunque, intesa come dimostrazione della volontà di integrazione organizzativa e condivisione progettuale.

Da ciò si evince come nozioni quali riabilitazione, sicurezza dinamica, professionalizzazione e umanizzazione dello staff siano diventate progressivamente sempre più comuni, andando a riflettersi anche a livello dei programmi di formazione degli agenti. Come si è illustrato, oltre alle tradizionali lezioni di materie giuridiche e tecnico operative, alle reclute vengono impartiti insegnamenti di natura psico –

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pedagogica e sociale, generalmente ricondotti, in termini di senso comune e di subcultura carceraria, al bagaglio di competenze di professionisti ben distinti dagli agenti penitenziari, talvolta “opposti” agli stessi. Durante queste lezioni di materie sociali o priso – pedagogiche, le reclute apprendono i contenuti della filosofia del “trattamento”. A loro viene spiegato come essere “professionalmente” empatici nei confronti delle persone detenute, nonché come comunicare con gli stessi facendo ricorso alle opportune strategie relazionali. Allo stesso modo, le reclute imparano a conoscere le patologie psichiatriche e le difficoltà psicologiche che possono affliggere sia la popolazione detenuta che gli stessi membri della polizia penitenziaria. Alcune lezioni sono dedicate in modo specifico alla prevenzione del suicidio ed ai rischi connessi all’ambiente carcerario: alle reclute viene spiegato come gestire la loro aggressività, come prevenire e gestire lo stress ed il disagio psicologico. Viene inoltre accordata grande importanza alla collaborazione con le altre figure professionali che operano nell’ambito penitenziario, dai membri dello staff medico agli psicologi ai volontari. La sicurezza e la riabilitazione sono infatti presentanti come due obiettivi istituzionali interconnessi, o meglio, la sicurezza viene intesa come presupposto al “trattamento”, ovvero alla riabilitazione. Il personale docente dedica infatti molti sforzi nel tentativo di sradicare la concezione di sicurezza e riabilitazione (o “trattamento”) come due poli opposti (e oppositivi) di un sistema professionale polarizzato. Una delle frasi comunemente ripetute dai docenti può essere infatti formulata come segue: “gli agenti devono garantire la sicurezza nell’istituto e partecipare attivamente al trattamento del detenuto”. L’obiettivo ufficiale di un istituto penitenziario e del suo staff viene pertanto presentato alle reclute come segue: tendere ad un cambiamento nel comportamento del detenuto24. Cionondimeno, nel corso delle lezioni gli istruttori sono inclini a mettere costantemente in guardia gli agenti rispetto le difficoltà connesse alla gestione di esseri umani in uno stato di detenzione e, dunque, di privazione. I docenti , per lo più quelli in divisa, sono inclini a soffermarsi sul rischio per gli allievi di essere ingannati, fraintesi, sfruttati psicologicamente o aggrediti dalle persone detenute. Allo stesso tempo, essi tendono a ricordare alle reclute la necessita di rimanere imparziali, rispettosi, assertivi, efficaci: in breve, professionali. Si consideri, a tal proposito, il seguente stralcio del già citato programma formativo prodotto dal DAP.

24Dalla costituzione della Repubblica Italiana, art. 27, paragrafo 3: “La punizione non deve essere inumana e deve tendere alla rieducazione del detenuto”

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“Gli allievi saranno in particolar modo seguiti dallo staff delle Scuole e dai docenti nel processo iniziale di acquisizione delle norme di comportamento e degli indirizzi indispensabili per assumere nei modi e negli atteggiamenti un contegno rispettoso e confacente a un appartenente a un Corpo di polizia, con quelle attenzioni e quei comportamenti formali che permettono all’agente una identificazione di ruolo e a chi lo osserva di rilevarne i tratti tipici”.

(Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria, Direzione Generale del personale e della formazione)

Fondamentalmente, ciò che viene insegnato alle reclute in una moltitudine di modi è la complessa e imprevedibile relazione tra staff e detenuti. Tuttavia, ciò avviene in assenza della loro fondamentale controparte, ovvero, le persone detenute. Detto questo, come Liebling et all (1999: 72) ci ricordano, la relazione tra staff e detenuti è radicata nelle dinamiche della vita di un carcere: essa è costruita, negoziata, sfidata e legittimata su basi quotidiane, attraverso anni di mutua conoscenza. Di conseguenza, le nuove reclute nella Scuola di Verbania tendevano a percepire tale conoscenza come astratta e artificiosa, in quanto imposta da personale dirigente che poco ha a che fare con le preoccupazioni ed i problemi degli agenti in sezione.

Molto spesso, nel corso dell’etnografia, gli allievi hanno manifestato la sensazione di essere stati sottoposti ad un “lavaggio del cervello”. La stessa impressione è emersa in diverse occasioni durante la conduzione dei focus group, insieme all’idea piuttosto paranoica di “essere stati ingannati” dagli istruttori e, più in generale, dall’ Amministrazione Penitenziaria.

- Finchè si parla di salvaguardare il benessere del personale fin qua ci sta, cioè fin tanto che si parla di benessere del personale sono pure d’accordo, cioè qualche metodo di aiuto perché con l’andare avanti degli anni si va incontro a dei problemi, e allora se c’è qualche problema uno lo può affrontare. Il problema è quando si parla sempre della prevenzione…cioè sul come relazionarsi con il detenuto…perché mi sembra una sorta di lavaggio del cervello alla fine dei conti..

- (Tutti) si!

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- Molto spesso capita che il personale in divisa cambia atteggiamento da agente e assistente perché sono persone che hanno fatto l’esercito…

- Eh oh Dio non tutti gli agenti assistenti hanno fatto l’esercito. - Però sono in contatto diretto con il detenuto.

- E si questo si.

- L’ispettore e il commissario, che tendenzialmente vengono dall’esterno, non hanno contatto con il detenuto e quindi hanno un modo diverso di percepire la detenzione. Loro hanno un modo di percepirlo molto teorico, cioè si dovrebbe fare così e così, questi sono i paletti e voi li dovete seguire, voi intesi come agenti assistenti, noi agenti assistenti stando a contatto con queste persone ogni giorno ti trovi davanti una persona diversa, un caso diverso e ti devi comportare in maniera diversa, non sempre ci dobbiamo attenere alle regole che ci sono state date, questo è il problema. Cioè la differenza che si ha tra il ragionamento loro diciamo dei graduati e noi è questa.

- Se noi dobbiamo svolgere un lavoro in sezione, secondo me ci sarebbe dovuto essere una formazione da parte di gente che sta in sezione, perché a noi pure se ci fanno lezione ce lo fa il comandante, ma il comandante ha altri compiti, sono tutti commissari, hanno altri compiti, non è che stanno in sezione. Cioè loro dicono dovete fare così…

- Cioè tutta sta cosa del trattamento che manco dovessi andare a fare l’educatore… che a un certo punto dici: mo’ mi hanno fatto fesso.

(Dal gruppo degli Esperti)

- Perché alla fine quelli a stretto contatto con il detenuto siamo noi, gli educatori li vedono la metà della giornata per poche ore, per non so quanti giorni in settimana o al mese. Noi invece lo vediamo tutti giorni per sei ore siamo sempre lì, quindi noi subiamo la parte più negativa e questo ci fa molto pensare che non serva molto no? La rieducazione e tutte queste cose… Ecco perché il collega ci diceva che molte materie che facciamo a scuola non si applicano in sezione

- Però sinceramente tra sei mesi sarò in sezione o al nucleo e se mi diranno devi fare una traduzione non so che cosa portare, come comportarmi, non so ancora nulla