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3. IL LAVORO PENITENZIARIO: IDENTITA’ E CAMBIAMENTI

3.3. L’ identità in carcere

Come si è più volte ribadito, il carattere totalitario del carcere implica una profonda ridefinizione del sé di chi in esso vive o lavora, per mezzo della sistematica e consequenziale imposizione di identità istituzionalizzate (Goffman 1961; Scott 2010:216). Secondo quanto argomentato da Foucault (1982), il funzionamento di un istituto penitenziario implica una serie di requisiti. In primis, è necessario un sistema di differenziazione determinato dalla legge. Ovviamente, la prima e più fondamentale distinzione è quella tra personale e individui reclusi, laddove il primo è deputato alla sorveglianza del secondo. La condotta dello staff è dunque definita dallo specifico obiettivo ad esso imposto dall’istituzione carceraria (Foucault 1982). Anche Goffman (1961) identifica nella differenziazione tra personale e individui internati la principale caratteristica delle istituzioni totali. In esse, le relazioni di potere, definite entro un setting burocratico, sono negoziate e sfidate nel contesto dell’interazione quotidiana (Scott 2008). Tali relazioni sono fondamentali per comprendere la portata della differenziazione tra personale e individui reclusi. Al di là dell’autorità formale di cui i primi sono investiti, una differenza degna di nota riguarda la possibilità per i membri dello staff di mantenere i contatti con il mondo esterno. Le persone recluse sono infatti

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private della gran parte di quei legami sociali che si estendono oltre i confini dell’istituzione penitenziaria e dunque sono costrette a bilanciare questo “vuoto sociale” facendo ricorso alle relazioni stabilite all’interno del carcere. Se è vero che, come si è argomentato in precedenza, il sé si struttura nell’interazione, attraverso un processo dialettico costituito da momenti di identificazione esterna ed interna (Jenkins 2000), allora l’identità degli individui internati è drammaticamente ridefinita sulla base degli standard e dei significati imposti dall’istituzione carceraria. L’ordine gerarchico delle molteplici identità sociali di un individuo (Burke e Stets 2009) viene in qualche modo sovvertito e quei processi di identificazione che prima venivano alimentati all’esterno (per esempio in qualità di genitore, lavoratore, figlio) sono privati (seppur non totalmente) del contesto necessario alla loro verifica e validazione. Possiamo dunque leggere il concetto di “carriera morale” proposto da Goffman (1961/2003: 151) alla luce delle considerazioni esposte nei paragrafi precedenti. Il termine carriera implica l’esistenza di due facce: una interna, ovvero l’immagine del sé; della propria identità; l’altra esterna, riconducibile alla posizione ricoperta dall’individuo entro un certo contesto istituzionale. L’aggettivo “morale” fa riferimento al susseguirsi standardizzato di mutamenti nelle modalità di concepire il proprio sé che avviene in riferimento agli internati in un’istituzione totale (Goffman 1961/2003: 193). Il processo di identificazione interno può quindi essere inteso come l’appropriazione dei significati sotto forma di standard identitari resi disponibili da un certo ruolo o da un determinato contesto istituzionale e dal dominio simbolico che esso definisce. Invero, secondo Goffman il sé non origina semplicemente nell’interazione tra l’io e gli altri, bensì esso è costituito anche dall’ambiente sociale e istituzionale in cui risiede. La struttura fisica, organizzativa, dei rapporti e delle relazioni concorre a definire l’immagine del sé, esternamente ed internamente. Questi processi assumono forme e soprattutto intensità diverse a seconda che si tratti dello staff o della popolazione reclusa. Tuttavia, come nota anche Vianello (2012), le condizioni stressanti e psicologicamente onerose, unite alla percezione di un giudizio dell’opinione pubblica distorto e fondamentalmente negativo rispetto alla loro professione10, contribuisce ad aumentare il grado di coesione interno e di chiusura verso l’esterno del personale di Polizia Penitenziaria. Ciò contribuisce a rafforzare il processo di imposizione sistematica di un’identità che si verifica sistematicamente all'interno delle mura di un carcere (Dennis e Peter 2005;

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Scott 2008). In particolare, al personale è richiesto non solo di preservare, ma anche di incarnare, la cultura ed i fini morali dell'istituzione (Crawley 2004). In effetti, i membri del personale una volta entrati nell’istituzione totale acquistano ciò che Goffman chiama uno 'status proattivo': essi sono consapevoli della loro nuova posizione sociale all'interno dell'istituzione, ma comprendono anche che il loro status al di fuori non sarà mai più quello che era prima del loro ingresso nel carcere (Goffman 1961/2003). In sostanza, una volta che gli agenti entrano a far parte dell’istituzione carceraria sono coinvolti in un processo di ridefinizione dei propri standard identitari e, dunque, di auto-ricostruzione.

Detto questo, cerchiamo di analizzare in modo più approfondito gli elementi che concorrono a definire e spiegare l’identità degli agenti. Anzitutto, l’ esercizio dell’ autorità è connaturato al ruolo degli agenti penitenziari. Esso avviene sulla base delle concezioni morali di cui gli agenti sono portatori e che incarnano nella loro condotta professionale (Liebling 2011: 485). Lungi dal costituire un contenitore asettico di interazioni e di vissuti, il carcere rappresenta a tutti gli effetti un “contesto morale” (Kauffman 1988). Partendo da questo presupposto, alcuni autori si sono occupati di ricostruire l’universo morale degli agenti di polizia penitenziaria. In particolare, Colvin (1977) e Kauffman (1988: 222) rintracciano negli agenti un dualismo di fondo, tale per cui il carcere viene percepito come un contesto morale nettamente distinto dall’esterno, dunque caratterizzato da propri standard etici. I detenuti sono considerati individui “altri”, non sottoposti agli standard morali convenzionali: dei veri e propri “fantasmi”, come argomenterà Scott (2007) diversi anni dopo. Una rielaborazione ulteriore di questa premessa può essere rintracciata nella proposta di Liebling (2011) di distinguere tra agenti che adottato una visione cosiddetta “cinica”, per la quale la natura umana ha carattere essenzialmente dualistico, con una netta separazione tra i buoni e i cattivi, e coloro che abbracciano una visione “tragica” del mondo, che porta a riconoscere ed accettare la complessità e l’imperfezione della natura umana.

Secondo questi autori, gli stili lavorativi sono quindi influenzati dalle concezioni morali di cui gli agenti sono portatori. Allo stesso tempo, non bisogna trascurare la natura fondamentalmente “dialogica” dell’autorità nel carcere (Hepburn 1984; Hay e Sparks 1992; Sparks et all 1996; Liebling et all 1999; Liebling 2011). La sua legittimità, lungi dal costituire un fatto scontato, viene continuamente negoziata e costruita nelle relazioni quotidiane tra agenti e popolazione detenuta (Liebling 2011:

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485). L’esercizio dell’autorità in carcere rappresenta dunque una questione estremamente complessa, anche a causa dell’immanenza della sofferenza umana (Scott 2007: 168), che contribuisce a caricare emozionalmente le interazioni nell’ambiente carcerario (Marquart 1986; Liebling 1999; Tracey 2004; Crawley, 2004; Jewkes 2012). Quella degli agenti penitenziari è una professione poco visibile, che si svolge in un contesto caratterizzato da un’ “inusuale quantità di potere” (Liebling et all. 1999), tale da determinare una relazione fortemente asimmetrica con la popolazione detenuta. Agli agenti spetta il compito di costringere le persone detenute all’obbedienza, nel tentativo di riabilitarle socialmente (Goffman 1961). Il loro ruolo incarna infatti un paradosso istituzionalizzato (Goffman 1961) ed in esso confluiscono le tensioni ineliminabili tra cura e disciplina, regole e flessibilità (Tracey 2005). Ciò rende l’esercizio dell’autorità da parte degli agenti un’ incombenza estremamente delicata. Di fatto, il mestiere degli agenti consiste in una quotidiana attività di peacekeeping (Liebling 1999: 73), portata avanti spesso inconsapevolmente (Hay e Sparks 1991) e mediante il continuo ricorso a tecniche comunicative e doti relazionali. Contrariamente al senso comune, il fatto di relazionarsi faccia a faccia e su base quotidiana con persone in uno stato di sofferenza, dovuto in primis alla privazione della libertà personale, richiede necessariamente un esercizio sottile e dinamico dell’autorità (Liebling 2011:488), costruita attraverso un processo interpretativo (Sennet 1980: 19) che coinvolge tanto gli agenti quanto le persone detenute.

Studiare la percezione degli agenti rispetto la propria autorità aiuta a comprendere le dinamiche di configurazione della loro identità di ruolo, a capire da cosa essa sia costituita e legittimata. Invero, l’esercizio dell’autorità è insito alla definizione di identità di ruolo. Essa implica infatti l’ “agire in modo da adempiere alle aspettative, coordinare e negoziare (corsivo mio) l’interazione con i role partners, manipolando l’ambiente e controllare le risorse per il quale il ruolo ha responsabilità” (Stets et all 2000: 226). L’autorità si esercita dunque attraverso una performance di ruolo che è continuamente negoziata e soggetta alla validazione della popolazione detenuta. Come Crawley (2004) ha efficacemente dimostrato, questa performance è anche e soprattutto “emozionale”. Per comprendere questa affermazione, occorre richiamare brevemente il concetto di "lavoro emozionale" proposto da Hochschild (1983) e ripreso successivamente da Crawley (2004) nella sua analisi della professione degli agenti penitenziari. Nel celebre volume “The managed heart” (1983), Arlie

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Hochschild definisce il concetto di "lavoro emozionale" in riferimento a quelle attività lavorative che richiedono di indurre (o sopprimere) delle emozioni al fine di supportare una certa apparenza esteriore e dunque produrre negli altri un determinato stato mentale ed emotivo. Il lavoro emozionale implica la capacità di coordinare mente ed emozioni, talvolta sopprimendo quelle caratteristiche del sé che una persona definisce come parti profonde ed integranti della propria individualità (Hochschild 1983: 7). Attraverso una ricerca sulle hostess di una compagnia di volo americana, l'autrice ha potuto constatare come alle lavoratrici fosse richiesto di mettere in atto una sorta di “stile emozionale”. Le assistenti di volo infatti dovevano sorridere costantemente, assumere atteggiamenti estremamente dolci e sereni, in modo da restituire ai passeggeri l'impressione di trovarsi ad un rilassante cocktail party, piuttosto che a bordo di un aereo. Questa sorta di “stile emotivo” era parte integrante del servizio offerto ai clienti. Come argomenta Hochschild, assumere uno specifico "stile emotivo", sia esso rilassato o autoritario, gentile o distaccato, significa gestire e controllare i proprio sentimenti, arrivando anche a fingere, se necessario, al solo fine di restituire una parvenza emotiva che sia coerente con l’ambiente lavorativo e con le finalità designate dal proprio datore di lavoro. Il concetto di "trasmutazione" proposto dall’autrice fa quindi riferimento al passaggio dal percepire in privato una certa sensazione, all'esecuzione pubblica di un certo “stile emozionale”, che varia a seconda dello specifico contesto lavorativo. La gestione dei sentimenti in ambito lavorativo è guidata da ciò che Hochschild definisce come “feeling rules”, ovvero, quelle norme che determinano quali “stili emozionali” sono più o meno appropriati in un determinato contesto (Hochschild 1979). Ciò significa che il contesto sociale è fondamentale nel definire il modo di gestire ed interpretare le emozioni da parte degli individui (vedi Gerth e Mills 1978). Ritornando a Goffman, ed in particolare alla sua interpretazione drammaturgica del sé (1959), gli individui nel corso dello svolgimento delle quotidiane attività di vita e di lavoro, cercano costantemente di controllare i loro comportamenti, al fine di presentare una certa immagine di sé stessi ad un "pubblico". In sostanza, le persone controllano, inibiscono, manifestano determinati comportamenti ed emozioni in modo da presentare un’ immagine del proprio sé coerente con l’ordine simbolico definito dal contesto istituzionale e negoziato nell’interazione con altri individui. A tal proposito, si consideri che gli agenti di polizia penitenziaria sono inseriti in un contesto emotivamente carico (Liebling 1999: 162), caratterizzato dall’immanenza del dolore e della sofferenza umana. Come efficacemente

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afferma Liebling: “prison is all about pain”(1999: 65). Nel relazionarsi con la popolazione detenuta, ma anche con il pubblico esterno (sebbene molto raramente), gli agenti penitenziari devono dunque letteralmente incorporare e impersonificare uno stile che è anche e soprattutto emozionale. Del resto, anche Goffman sottolinea l’esistenza di un legame affettivo e dunque di un vero e proprio coinvolgimento emotivo da parte degli individui rispetto all’entità sociale di cui si sentono parte (Goffman 1961 /2003: 199). Sia Goffman che Crawley (ricorrendo alla proposta teorica di Hochschild) si muovono dunque nella medesima direzione, riconoscendo un legame tra contesto sociale e coinvolgimento emotivo, ovvero tra istituzione e sé privato.

3.4. Identità, cambiamenti organizzativi e liminalità: alcune ipotesi di