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Keplero comincia il suo discorso musicale, da buon filosofo, partendo dall’indagine delle cause, e chiedendosi dunque perché solo determinati rapporti determinano le consonanze musi- cali. L’astronomo spiega infatti che per troppo tempo il propter quid delle consonanze, indagato per la prima volta da Pitagora, è stato ricercato invano; sarà dunque egli stesso, dopo infrut- tuose ricerche di duemila anni, a mostrare le loro esatte cause.

Ed è proprio contro i Pitagorici e la loro filosofia del numero che si scaglia principalmente Keplero: è infatti a causa loro se per più di duemila anni è perdurata l’opinione secondo la quale le cause delle consonanze musicali «debbano essere ricercate nelle proprietà delle stesse proporzioni, affinché rientrino negli ambiti delle quantità discrete, cioè dei numeri».279 Questo

perché tutta la loro filosofia, e tutti i fenomeni del mondo su di essa fondati, erano basata sui numeri, e in particolare sui numeri della tetraktys, alla quale Keplero dedica una lunga digres- sione, riferendosi soprattutto agli scritti di Joachim Camerarius e di Ermete Trismegisto. Ma è proprio per troppa fedeltà ai numeri, spiega Keplero, che i Pitagorici commisero l’errore di «non affidarsi in alcun modo al giudizio del loro orecchio», offrendo solamente cause nume- riche in riguardo a ciò che è consonante e ciò che non lo è. In questo modo essi accettarono come consonanze solamente quelle comprese tra i primi numeri naturali costituenti la tetraktys, ossia l’ottava (1:2), la quinta (2:3) e la quarta (2:3).

L’unico, secondo Keplero, che per primo affrontò l’autorità dei Pitagorici, difendendo «l’i-

277 Oltre a quella kepleriana, l’unica altra teoria geometrica della consonanza è quella di Giusep- pe Tartini (1692-1770), a cui perverrà senza conoscere le idee di Keplero.

278 CohEN 1984, p. 33.

stinto naturale dell’udito», fu Tolomeo, che accettò come «utili al canto» non soltanto le sud- dette consonanze pitagoriche, ma anche intervalli come il tono (8:9), il tono minore (9:10), il semitono (10:11), nonché le terze, maggiore e minore (4:5 e 5:6), e le seste (3:5 e 5:8).280

Si badi bene però: questi intervalli sono ammessi da Tolomeo non come consonanze, ma come intervalli εμμελεις, ossia dentro al μέλος, al canto, vale a dire quegli intervalli – che sa- ranno tradotti da Zarlino come “emmeli”, e ripresi da Keplero col termine “concinna” – che, nelle parole di Keplero, «sebbene dissonanti, sono tuttavia adatti alla conduzione del canto».281

Ed è questo l’errore che lo stesso Keplero non perdona a Tolomeo, colpevole di aver abbando- nato il giudizio dell’orecchio dopo averlo seguito inizialmente, di essere dunque rimasto «at- taccato alla stessa contemplazione dei numeri astratti» e di averli, in ultima analisi, considerati come causa delle consonanze alla stregua dei Pitagorici.

L’obiezione di Keplero è innanzitutto filosofica. Posto che il numero possa essere una causa, non si capisce per quale motivo, argomenta l’astronomo, debbano essere considerati tra gli intervalli delle consonanze solamente i numeri 1, 2, 3, 4 e non 5, 7, 11, 13 o altri; ma, soprat- tutto, sottolinea Keplero, il punto è che il numero non è una causa, e quello su cui si fondano le speculazioni di questi filosofi è dunque da considerare una non-causa, poiché i numeri sono solamente «simboli dei principi su cui si fondano le cose naturali».282 Keplero affronta

sistematicamente la questione del numero come causa nel Capitolo III, affrontandola secondo le quattro cause aristoteliche. Il numero, innanzitutto, «non è causa efficiente delle armonie, ma effetto della stessa causa»:283 esso dunque non produce l’armonia, non è il principio del

suo movimento, ma è semplicemente «concomitante all’armonia», un suo effetto. Esso non è

280 Lo stesso Tolomeo critica esplicitamente la teoria pitagorica sull’origine delle consonanze nel Libro I, Capitolo 6; cfr. toloMEo 2002, pp. 111, 113. Le idee su cui Tolomeo muove la sua critica sono

spiegate nel Capitolo II: «i Pitagorici, non seguendo l’apporto della percezione uditiva neanche nei casi in cui per tutti sarebbe stato necessario farlo, applicarono agli intervalli musicali rapporti che spesso contrastavano con i dati dell’esperienza (toloMEo 2002, p. 102)». L’importanza dell’udito è sottolineata

da Tolomeo fin dal primo capitolo: «Gli strumenti di giudizio della scienza armonica sono l’udito e la ragione, non nello stesso modo, ma l’udito riguardo alla materia e alla condizione accidentale, la ragio- ne riguarda alla forma e alla causa, poiché in generale è proprio dei sensi cogliere il livello superficiale della realtà in modo immediato e il livello profondo in modo mediato, mentre è proprio della ragione cogliere il livello superficiale attraverso una mediazione e cogliere autonomamente il livello profondo (ivi, p. 99)». Ugualmente nel Capitolo II, dove Tolomeo delinea anche un parallelo tra musica e astro- nomia: « Scopo dello studioso di armonia dovrebbe essere quello di assicurarsi che nella percezione dei più le basi logiche del canone non risultino mai e in nessun modo in disaccordo con i sensi, così come scopo dell’astronomo dovrebbe essere quello di assicurarsi che le teorie giustificative dei moti celesti sia- no concordi con i passaggi degli astri che vengono osservati, e che sono ricavati anch’essi dai fenomeni immediatamente percettibili, ma che d’altra parte siano in grado di scoprire con la ragione gli aspetti particolari del modo più preciso possibile (ivi, p. 102)».

281 KGW, VI, p. 125. 282 Ivi, p. 100. 283 Ivi, p. 123.

neanche una causa dal punto di vista formale, «non informa le armonie, ma è la risplendenza della forma», non costituendone l’essenza, ma dunque solo un suo accidente. Non è nemmeno la materia delle consonanze, perché esso è semplicemente una conseguenza della generazione causata dalla necessità della materia. E non è infine la causa finale delle armonie musicali, os- sia non è il fine per il quale esse esistono: il numero, dice Keplero è solamente «extermitas ope- ris», estremità dell’opera, ossia la propaggine, l’estensione del fenomeno. Esso, in sostanza non appartiene alla scienza armonica, poiché è un «ente di ragione secondario, e un concetto della mente, di seconda intenzione», ossia una nozione che ha per l’intelletto evidenza secondaria: qui Keplero utilizza una terminologia scolastica, e, nello specifico, di San Tommaso, secondo la quale “intenzione” è «il portarsi della mente all’oggetto conosciuto (tendere-in). Sicché in pri- mo luogo si dice intenzione l’atto della mente che conosce; però conseguentemente è pure una

intentio l’oggetto conosciuto».284 Essa può essere di due tipi: «oggetto della conoscenza possono

essere le qualità reali della cosa conosciuta, e allora l’intenzione dicesi prima; oppure sono sem- plici qualità logiche, che convengono all’oggetto solo in quanto conosciuto (p. es. genere, specie, tipo, razza, ecc.), e allora l’intenzione dicesi seconda».285 Una critica che si fonda naturalmente

su quella aristotelica esposta nella Metafisica: «il numero, sia il numero in generale sia il numero composto di pure unità, non è causa efficiente delle cose, non è materia, non è essenza e for- ma delle cose e non è neppure causa finale di esse».286 SI chiede, infatti, Aristotele, per quale

ragione i numeri dovrebbero essere cause? «È forse la natura del numero sette che costituisce la causa per cui sette furono quelli che combatterono contro Tebe, e la Pleiade è formata di sette stelle? O non è piuttosto perché son sette le porte di Tebe, o anche per una qualche altra ragione? E la Pleiade non ha forse sette stelle, perché siamo noi che contiamo sette stelle, così come ne contiamo dodici nell’Orsa maggiore mentre ci sono altri che ne contano di più?»287

Il filosofo prosegue la spiegazione addentrandosi nell’ambito musicale, accennando a un ar- gomento che assomiglia molto a ciò di cui parla Keplero nel III capitolo per ciò che riguarda “La trinità delle consonanze”: «E dicono anche che Ξ, Ψ e Ζ sono consonanze, e dicono che ci sono queste tre consonanze proprio perché tre sono le consonanze musicali. Ma che ci pos- sano essere anche mille altre simili consonanze, a loro non importa».288 Loro, i pitagorici e i

platonici, non vedono che tutte queste somiglianze ricavate da teoremi matematici sono solo corrispondenze, e assomigliano a pure coincidenze: «si tratta, in effetti di accidenti; ma tutte le cose hanno reciproci legami e formano una unità per analogia».289

Ma ciò che cerca Keplero per le consonanze non è una causa accidentale, ma una causa matematica certa; e i numeri, essendo, come detto, «simboli dei principi su cui si fondano le cose naturali», non possono essere le loro cause; e poiché gli intervalli musicali non sono cose

284 S. Tommaso d’Aquino, La somma teologica, Vol. 3, questione 29, articolo 1, Firenze, Salani, 1978, p. 76. 285 Ibidem. 286 ARIStotElE 2000, p. 689. 287 Ivi, p. 691, 693. 288 Ivi, p. 693. 289 Ivi, p. 695.

naturali, ma geometriche, essendo quantità continue e non discrete, è dunque nel linguaggio adoperato da Dio per allestire il mondo, la geometria, che devono essere ricercate le cause delle consonanze.

Nell’Assioma VII del Capitolo I Keplero espone estesamente la sua filosofia a riguardo, dopo aver ricavato le consonanze dalle proporzioni armoniche presenti nelle figure piane re- golari. L’Assioma, assieme al Capitolo nel suo insieme, rappresenta non solo il punto di con- giunzione materiale tra la speculazione geometrica astratta e la descrizione delle proporzioni armoniche del mondo sensibile, ma anche il fulcro filosofico dell’indagine kepleriana esposta nell’Harmonice mundi, indagine riassunta in pochissime parole dallo stesso autore: «sublime, platonica e conforme alla fede cristiana, e rivolta alla metafisica e alla dottrina sull’anima».290

Gli assiomi appena esposti riguardano infatti la filosofia «sublime» delle figure regolari, e dunque, platonicamente, le cose immutabili, che sempre sono. La geometria, infatti, coeterna a Dio, fornì a Dio i modelli per disporre il mondo, sulla stregua del Demiurgo platonico, affin- ché fosse «ottimo, bellissimo e somigliantissimo al creatore»; dunque il miglior mondo possibi- le. Somigliantissimi a Dio, e vere e proprie sue immagini, sono anche «gli spiriti, le anime e le menti» inviate dal Creatore a capo di ogni corpo, che devono guidare, governare e riprodurre.

In quanto immagini di Dio, e quindi a lui simili, questi spiriti, anime e menti condivideran- no anche un certo “tipo”, prototipo o modello utilizzato da Dio nel creare il mondo; e dunque anche in ogni loro agire osservano le leggi geometriche divine, provando piacere per le stesse proporzioni adoperate per l’allestimento del cosmo. La mente inevitabilmente torna ancora alla proporzione geometrica utilizzata dal Dio platonico nel legare i quattro elementi, colle- gando in tal modo insieme, e componendo, il mondo visibile e tangibile.291

Ma come possono gli spiriti le anime le menti trovare e cogliere queste proporzioni, per poterne godere? In tre modi, spiega Keplero: in modo razionale, ossia con la speculazione e il puro ragionamento; attraverso la sensazione, e ciò che è ad essa soggetta; o per via intuitiva, per un «occultum et concreatum instinctum».292 E come, allora, esse giungono nel mondo?

Ossia, come le proporzioni armoniche si fanno sensibili? Keplero dunque si addentra nella questione su cui molte pagine dei dialoghi platonici si incentrano e che ha sempre rappresenta- to il problema principale della filosofia platonica: il rapporto tra le idee e il sensibile, tra l’essere e il divenire, tra ciò che sempre è e ciò che muta e non è mai pienamente essere. Come Dio ha tradotto nel mondo le immutabili armonie archetipali?

Keplero suppone due casi: o Dio le ha espresse invariabilmente nei moti e nei corpi, in- stillandole dunque nel mondo così e per sempre; oppure, (e questo sembra più probabile, sembra dire, considerata la frequenza con cui troviamo tali proporzioni armonie nel mon- do, e considerato che il nostro mondo non è perfetto né immutabile), ci imbattiamo in esse “occasionalmente”. Questo perché la geometria, la necessità geometrica, agisce sulla materia

290 KGW, VI, p. 104. 291 Timeo, 32 B5. 292 KGW, VI, p. 105.

infinitamente divisibile, essendo continua,293 e sul moto.294 È proprio il movimento ad aver

introdotto nell’essere una variazione, facendolo diventare divenire. E nelle infinite manifesta- zioni del divenire, nelle sue infinite riproposizioni, accadono, si presentano occasionalmente, tra le infinite possibilità di proporzioni, anche queste proporzioni armoniche. Che, sottolinea Keplero, si presentano «nei loro tempi», ossia solo in quei tempi in cui diventano armoniche. E se queste proporzioni accadono nel tempo, allora non saranno più nell’essere ma nel divenire; ed è del resto solamente nel tempo che la musica può avere luogo.295

Sebbene dunque il movimento abbia introdotto una variazione nell’essere, noi possiamo dunque ritrovare dei segni di questa armonia iniziale nella musica; non sempre, naturalmente, ma solo quando essa presenta quelle proporzioni, poiché sensibili, in sintonia con le leggi ge- ometriche divine. Si completa così il percorso che aveva in mente Keplero, che ci ha condotto dall’essere al divenire, dalle leggi geometriche immutabili alla fisica, al sensibile, nel quale avviene il suono ed esiste la musica. Infatti, dopo questi assiomi, e dopo la fine di questa di- gressione, inizieranno le Proposizioni, che applicheranno i concetti degli assiomi alla pratica, alla realtà concreta musicale.

Spiegato, in qualche modo, come il sensibile possa ricongiungersi all’archetipo, Keplero offre due «splendidi esempi» dell’introduzione delle armonie nel mondo: anzi tutto nei moti degli astri, il cui moto è stato modellato secondo leggi geometriche, le proporzioni armoniche, dallo stesso Dio Creatore; e poi nell’anima del mondo, di origine platonica, ossia la Natura sublunare, che mette in movimento e in armonia le stelle del cielo. A questi due esempi Ke- plero ne aggiunge un terzo, quello degli uomini (e incerta misura degli animali), riportando in

293 Aristotele definisce la quantità come ciò che è divisibile in parti determinate o determinabili. Una quantità numerabile è una pluralità che è divisibile in parti discrete. Una quantità misurabile è una grandeza che è divisibile in parti continue in una o due o tre dimensioni (Met., V, 13, 1027 a 7). Continuo è dunque «ciò che è divisibile in parti sempre divisibili (Fis., VI, 2, 232 b 24)».

294 Nel Timeo si parla di cosmo come mescolanza di necessità, intesa come ciò che è casuale e disteleologico, e intelligenza: l’intelligenza dà forma alla necessità. In Keplero i concetti son simili ma cambiano i termini: la necessità geometrica dà forma alla materia. Ma la materia non diventa allora anch’essa necessità geometrica, ma ne conserva solo delle tracce, le proporzioni armoniche appunto.

295 L’importanza della concezione temporale nel percorso intellettuale di Keplero è stato ben analizzata da Koyré: «È per aver trascurato il tempo che il Mysterium Cosmographicum non era riuscito a scoprire la struttura reale del cosmo. I rapporti geometrici puri non potevano esprimerla; bisognava aggiungerci dei rapporti armonici: perché Dio, come avevano ben presagito gli antichi Pitagorici, non era soltanto architetto, ma anche, e soprattutto, musica. Inversamente, un Dio puramente geometra si sarebbe accontentato di un mondo costruito in funzione della sfera e dei cinque corpi regolari, di un mondo in cui i pianeti ruotassero eternamente su cerchi concentrici, senza ma i modificare né le loro distanze dal Sole, né le velocità dei loro movimenti. Ma per un Dio musico, un mondo in cui i pianeti emettessero eternamente ognuno la propria “nota”, quand’anche l’insieme di queste note formasse un accordo armonioso, sarebbe inaccettabile. Chi dice musica dice varietà, non monotonia; così un Dio musico era tenuto ad attribuire ad ogni pianeta non una “nota” unica, ma una frase musicale propria e a formare, partendo da queste frasi, un’armonia polifonica e contrappuntisti svolgentesi nel tempo (Cfr. koyRé 1966, p. 277-8, cit. in GozzA 1989, p. 27)»

auge così la tripartizione boeziana musicale. Il terzo libro si incentrerà dunque su questo terzo

esempio, sull’uomo che adatta le proprie opere e azioni alle proporzioni armoniche, dilettan- dosi per esse e rattristandosi per quelle non armoniche, e modellando i propri corpi alla danza, le lingue ai suoni articolati, nonché i movimenti degli artigiani e dei soldati, poiché «tutte le cose vivono nelle persistenza delle armonie, si intorpidiscono quando esse sono disturbate».296

Proprio perché è dunque stata una Mente, quella divina, che ha modellato gli animi umani in modo tale che trovassero piacere negli intervalli consonanti, dunque anche le cause di questi ultimi devono avere natura mentale, «proprio perché i termini degli intervalli consonanti sono propriamente conoscibili, mentre quelli degli intervalli dissonanti sono o impropriamente co- noscibili, o inconoscibili. Infatti, se essi sono conoscibili, significa che possono presentarsi alla mente ed essere ammessi per conformarsi all’archetipo; se invece essi sono inconoscibili (nel senso spiegato dal primo libro), significa che rimasero fuori dalla Mente dell’Artefice eterno e che in nessun modo parteciparono dell’Archetipo».297

Il metodo che Keplero elabora per individuare le armonie delle consonanze si fonda dun- que sui gradi di conoscibilità, ossia di razionalità, delle figure piane regolari inscrivibili in un cerchio illustrate nel Libro I.

L’Assioma I recita infatti che «il diametro del cerchio, e i lati delle figure fondamentali illu- strate nel Libro I, che hanno una dimostrazione propria, determinano una parte del cerchio che è consonante con l’intero cerchio».298 Questo sia in astratto, ossia per quanto riguarda

l’armonia priva di suono, che in concreto, ossia nella musica dei suoni fisici, per la quale è necessario sapere che «una corda tesa in linea retta possa essere divisa nello stesso modo in cui è divisa dai lati delle figure inscrivibili quando è disposta in cerchio».299 La circonferenza che

racchiude le figure dimostrabili è dunque pensata come una corda che possa emettere un suo- no: le divisioni della circonferenza, causate dai lati delle figure che la intersecano, sono quindi equivalenti alle divisioni fatte in un monocordo tradizionale.

Per questo, argomenta Keplero, le consonanze sono infinite, poiché il numero delle figure dimostrabili è infinito, e la loro restrizione a un numero definito di intervalli consonanti è stabi- lita dall’udito umano, che non ha potere infinito. Tale restrizione è dunque accidentale, e non causale, come fecero i Pitagorici coi loro numeri.

L’Assioma III, inoltre, stabilisce che «i lati delle figure regolari e delle stelle indimostrabili determinano una parte del cerchio che è dissonante con il tutto; lo stesso avviene per il lato di una figura dimostrabile, che non è però tale non per sé stessa, né per dimostrazione propria».300

Stabilito questo criterio, è chiaro che esso condizionerà anche il grado di perfezione, e dun- que di piacevolezza, delle consonanze. Il diametro, non a caso, divide a metà il cerchio, dando origine ai rapporti di 1:1, che equivale all’intervallo di unisono in musica, e all’intervallo di 1:2

296 KGW, VI, p. 105. 297 Ivi, p. 100. 298 Ivi, p. 102. 299 Ibidem. 300 Ivi, p. 103.

di una delle due parti con l’intero cerchio, equivalente all’intervallo di ottava, che è dunque la prima consonanza per perfezione. Più ci si allontana dalla perfezione del diametro, più le consonanze derivate dall’inscrizione delle altre figure diminuiranno di perfezione.

L’inscrizione delle figure regolari divide dunque il cerchio in un numero di parti uguali (il triangolo tre parti, il quadrato quattro e così via), che corrisponde alla somma di ciascuno degli archi sotteso dai lati del poligono inscritto, con la restrizione che ognuno di essi non sia mag- giore di un semicerchio. Considerata una parte, è allora detto residuo quel che rimane quando una parte è sottratta dall’intero, purché non sia minore di un semicerchio. In questo modo sono dunque possibili più di un tipo di relazione: la parte del cerchio tagliata (che non sia mag- giore di un semicerchio) con il residuo; la parte con l’intero cerchio; l’intero con il residuo.301

Considerando, per esempio, un quadrato regolare inscritto, esso divide il cerchio in quattro parti; considerando le parti e la loro somma non maggiore di un semicerchio, e il loro rapporto con residui e intero, otteniamo questi risultati:

Parti Residui Tutto

1 3 4

2 2 4

Oltre al rapporto di ottava (1:2) che vi è tra 2 e 4, possiamo inoltre riscontrare il rapporto di 3:4, che è l’intervallo di quarta, e di 1:4, che è quello di quindicesima.

Considerando il pentagono avremo invece:

Parti Residui Tutto

1 4 5

2 3 5

che danno luogo agli intervalli 4:5 e 3:5, ossia gli intervalli di sesta minore e terza maggiore. Mediante le quattro figure fondamentali Keplero ottiene una prima serie di intervalli con- sonanti:

un lato col tutto residuo col tutto due lati col tutto diametro ½:1, ottava ½:1

triangolo 1:3, dodicesima 2:3, quinta

quadrato 1:4, doppia ottava 3:4, quarta 2:4, ottava pentagono 1:5, doppia ottava 4:5, terza magg. 2:5, decima

con terza magg.

Continuando con questo procedimento, Keplero ottiene i restanti rapporti consonanti me- diante gli altri poligoni regolari dimostrabili. Alla fine del Capitolo I Keplero riporta una

tabella di corollario alle proposizioni elencate che riassume i risultati ottenuti: